La formazione, le competenze, la storia

La formazione
Ci sono corsi di “formazione” in cui gente che non ha mai insegnato e non si è mai rapportata con bambini e adolescenti prescrive ai futuri insegnanti di non insegnare nulla ma di diventare “facilitatori”, “orientatori”, “coreografi” dell’apprendimento.

Questi corsi assurdi, del tutto autoreferenziali e unidirezionali, si basano su quattro formule astratte e sclerotizzate e su una costrittività in cui è assente la capacità di pensare. Se si volessero proporre agli insegnanti dei veri corsi utili per la loro professione, bisognerebbe incentrarli sull’aggiornamento delle conoscenze disciplinari, su un vero confronto riguardante i metodi didattici nella loro specificità disciplinare, su dei seri approfondimenti di psicologia dell’età evolutiva, visto che nel nostro lavoro si ha a che fare con la preziosa delicatezza delle persone in crescita. E, prima di tutto, chi li tiene dovrebbe essere più preparato e avere maggiore esperienza e autorevolezza culturale di chi li segue.

Spesso invece si ha a che fare con dei burocrati-burattini che non sanno di cosa parlano e sottopongono i corsisti a un umiliante indottrinamento ideologico, in un vero e proprio festival della stupidità pappagallesca pagato con soldi pubblici.

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La scuola-sgabello
Certamente può produrre riflessioni interessanti sulla scuola anche chi non la conosce per esperienza diretta, da teorico; ma c’è una condizione indispensabile perché queste riflessioni possano avere una qualche validità, e cioè l’onestà intellettuale.

Chi ha lo sguardo fisso solo su di sé (anche quando parla di “centralità dello studente”), sulla propria carriera e sulla propria autopromozione – è infatti evidente che la vita di molti patagogisti ruota attorno alla brama di entrare all’università, di fare carriera nell’università, di fare affari come “formatori”, di entrare nei giri che contano, con la disponibilità a farsi portavoce “scientifici” di qualunque istanza sostenuta dal potere economico e politico – dovrebbe occuparsi di tutto meno che di scuola, dove lo sguardo non è su di sé ma sul futuro.

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Il discorso del patagogista
Le tre spie che caratterizzano il discorso del patagogista: 1) La mancanza assoluta di ogni riferimento a dei concreti contenuti culturali; 2) L’assenza tassativa, in ogni discorso sull’insegnamento o sull’apprendimento, della dimensione del piacere di capire. Si dà per scontato che l’unico piacere possibile sia quello dell’eliminazione di tutto ciò che è impegnativo; 3) La totale sottovalutazione dell’importanza della relazione intergenerazionale, nella sua capacità di dare alle persone in crescita occasioni di confronto, conoscenze, punti di riferimento, limiti, confini. Ogni discorso in proposito è sostituto dall’astrattissima retorica dell’ “orientamento”, delle “competenze” e dell’ “apprendimento autonomo”, naturalmente digitale.

Vorrei precisare che quella del patagogista e quella del pedagogista sono due figure molto diverse, e bisogna assolutamente evitare che la prima possa squalificare la seconda. Per fare chiarezza, proporrei questa definizione: il pedagogista studia e riflette in modo autonomo, approfondito e disinteressato su tutte le questioni che riguardano l’educazione (in questo la sua figura viene a coincidere in buona parte con quella dell’insegnante, specie negli ordini di scuola e nei contesti che richiedono una maggiore consapevolezza ed esperienza educativa); il patagogista lavora a cercare giustificazioni “teoriche” – basate su presunte “evidenze empiriche” selezionate ad arte – a decisioni che prescindono dal bene degli studenti e della scuola, a giustificare ciò che qualcuno gli chiede di giustificare.

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Facilitare o insegnare?
L’insegnante “facilitatore” (e oggi anche “orientatore”), che deve evitare accuratamente di insegnare qualunque cosa: da dove arriva questa idea? Basta prendere una teoria parziale come quella di Rogers – nata in un altro ambito, quello psicologico, dove pure è tutt’altro che indiscutibile, in un altro contesto, in un’altra epoca storica, per rispondere ad altre necessità – e applicarla immediatamente, per giustificarne lo smantellamento, alla realtà scolastica che c’è, fondata su una relazione intergenerazionale di cui le persone in crescita hanno un grandissimo bisogno e su un lavoro comune, strutturato e progressivo sulle conoscenze, che bambini e adolescenti non possono compiere da soli. Chiunque insegni a scuola sa che oggi “autoapprendimento” signfica lasciare i giovanissimi in balia di contenuti social e digitali di scarsissimo valore e attendibilità, impossibili da vagliare criticamente e da contestualizzare in assenza di un punto di vista culturale esterno ad essi.

È così che l’ideologia prende il posto della realtà ed è così – sulla base di formule di quarta mano ripetute pappagallescamente come assiomi, senza passare per il pensiero e l’esperienza concreta – che “formatori” che non hanno mai messo piede in una classe (e forse nemmeno in una libreria) vorrebbero spiegare agli insegnanti come si insegna; o meglio, che non devono più insegnare.

Ecco qui la ricetta: «Secondo Rogers lo sviluppo della personalità è autorealizzazione. Perché ciò avvenga Rogers sostiene che l’insegnante, l’educatore, il terapeuta debba essere fondamentalmente un “facilitatore”, che accetta pienamente il cliente, (il discente, lo studente, il paziente), ed instaura con lui un rapporto empatico che permette alla persona di lasciar fluire emozioni e stati d’animo.
Secondo la Pedagogia non direttiva di Rogers, è necessario un cambiamento nel ruolo di chi insegna, che deve in prima istanza cambiare in modo radicale il proprio approccio della didattica.
Alla base del pensiero di Rogers vi è l’idea che nulla “può essere insegnato” ma solo
autonomamente appreso. Per- tanto, il ruolo dell’insegnante è quello di essere un implementatore delle risorse autonome del
fanciullo, che spingono all’autoapprendimento.
Sostanzialmente, l’insegnante, “il facilitatore”, è una figura che non impone la “conoscenza”, non svolge delle semplici lezioni salendo in cattedra, cioè mettendo una distanza fra chi sa e chi deve imparare» (fonte http://www.pedagogia.it, voce Carl Rogers)

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Le competenze, la storia, la psicologia
I
La buro-pedagogia delle “competenze” si impianta su un vuoto di cultura e a sua volta lo alimenta attraverso il conformismo del non-pensiero.

Gli antidoti sono la riscoperta della storicità della conoscenza, che restituisce sostanza e contenuti al pensiero, e – al posto di un inquietante riduzionismo comportamentista – una vera psicologia del profondo (nell’ambito scolastico incentrata sulla conoscenza delle dinamiche dell’età evolutiva), che riconosce dignità agli esseri umani nella loro singolarità e ne impedisce la strumentalizzazione per fini ad essi estranei.

II
L’ideologia delle “competenze” fatta propria da certa buro-pedagogia formalisticamente vuota si fonda sull’ignoranza dello spessore storico della realtà e su un’assolutizzazione del presente, considerato il solo orizzonte possibile, privato di ogni idea di temporalità riguardante sia il passato che il futuro. Questa ideologia riduce la molteplicità di interpretazioni che si potrebbero dare del presente a “dati di fatto” ininterpretabili nelle loro origini e motivazioni, irrelati, illusoriamente oggettivi e privi di alternative, e trasforma gli esseri umani – chiamati solo a “fare” – in ingranaggi e ubbidienti esecutori di un esistente ipostatizzato, non-pensato e non criticabile. A ben vedere è il sogno – o meglio, l’incubo – di tutti i totalitarismi
(sull’argomento cfr. lo splendido articolo di Giovanni Carosotti https://www.lidentitadiclio.com/la-pedagogia-contro-la-storia/).

III
Fare storia significa ricostruire cosa c’è dietro realtà che vorrebbero presentarsi come autoevidenti e “oggettive”, studiarne la formazione dovuta a specifici interessi, presupposti ideologici e contingenze (utile sapere ad esempio cosa c’è dietro l’ideologia delle “competenze”: cfr. https://www.micromega.net/chi-detta-legge-nella-scuola-italiana/).

Non è allora casuale la guerra contro la storicizzazione delle conoscenze che i “riformatori” della scuola portano volenterosamente avanti da decenni, in un attualismo più totalitario di quello gentiliano. Solo chi è in grado di cogliere le cause, la trama e lo spessore temporale della realtà può relativizzare il presente e immaginare un futuro diverso (https://nostrascuola.blog/2023/07/11/tempo-racconto-e-competenze/); esattamente quello che non vuole che accada chi vede nei giovanissimi esclusivamente dei clienti, degli utenti e dei consumatori da inserire in un sistema socio-economico dato a priori, il cui unico scopo è la riproduzione immutabile di sé senza il pericoloso intervento del pensiero.

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