Ripensare la valutazione?

di Renata Puleo

Propongo alcune riflessioni a margine di due incontri il cui tema ruotava attorno alla valutazione “descrittiva-formativa-educativa” al cui nucleo sta l’eliminazione del voto numerico come misura, voto che ritorna, per obbligo giuridico, nella valutazione intermedia e finale, nonché con le somministrazioni rituali delle prove INVALSI (Assemblee pubbliche rispettivamente all’IC Iqbal Masih e all’IC Di Donato di Roma: registrazione personale del primo; su canale youtube il secondo Scuola e Valutazione, organizzato da <<Apriti Scuola>>). 

Poiché dell’oggetto degli incontri ho parlato e scritto con altri (https://www.roars.it/voto-si-o-voto-no-e-questo-il-problema/), richiamo solo una questione, mentre dedico qualche parola alle prove INVALSI, vero e proprio convitato di pietra dei due incontri.

Chiamare le cose con il loro nome

Come ormai si sa, dato il clamore mediatico (https://video.corriere.it/scuola/liceo-senza-voti-senza-stress-ecco-come-funziona-morgagni-roma/2e23ca92-7623-11ed-8b31-7101dab59dee#:~:text=Il%20liceo), l’esperienza Scuola delle relazioni e delle responsabilità, è stata avviata in un ciclo/classe (non tutto l’istituto) al Liceo Morgagni di Roma. Riprendo alcune perplessità su questa esperienza che, con qualche tratto di arroganza, e forse un po’ di buona fede ed entusiasmo, è stata definita sperimentazione. La scuola italiana è solita usare impropriamente questa definizione ogni qual volta si mette mano a una qualche innovazione, a un cambiamento organizzativo e/o didattico, pur in assenza dei requisiti tipici del metodo della ricerca, anche per gli studi di caso, per i cosiddetti semilavorati e l’indagine qualitativa. Nel caso di cui parlo rilevo: 1. mancanza di un’ipotesi frutto dall’osservazione di uno o più fenomeni complessi (giudizio valutativo, misura/conteggio su scala, impatto sulla motivazione e adesione al compito degli attori implicati nel processo insegnamento/apprendimento) da cui si evinca che il voto è la causa probabile dei guasti relazionali nella relazione insegnanti/alunni, è fattore ansiogeno e stressante capace di ostacolare l’apprendimento; 2. assenza di un campione e di un gruppo di controllo, o quanto meno di un campo di studio circoscritto e/o della indicazione di un’osservazione partecipata; 3. nessuna definizione di un tempo di prova e verifica di attendibilità/falsificazione dell’ipotesi, di analisi dei risultati di qualità, e dunque nessuna presa d’atto degli errori di percorso e riformulazione dell’ipotesi. Un qualche approccio di questo tipo si sta, forse,  effettuando presso la cattedra di Docimologia e Metodologia della ricerca del Professor Guido Benvenuto (Università La Sapienza di Roma) che segue il lavoro del Morgagni ma, da alcuni suoi interventi e dalla bibliografia dedicata emergono solo “spunti di riflessione” e suggestioni, certamente utili, ma che tali restano sul piano della  “validità e accertabilità”, soprattutto se ci si colloca nel campo della ricerca educativo-pedagogica che dovrebbe accompagnare l’esperienza del Morgagni (G. Benvenuto Mettere i voti a scuola: Introduzione alla docimologia Carocci, 2003; id Stili e metodi della ricerca educativa Carocci, 2015). Pertanto, siamo in attesa, al di là delle dichiarazioni dei protagonisti, di qualche relazione approfondita sul rapporto fra voto numerico e ansia dello studente (e chissà, fra lezione/interrogazione/tema tradizionale ed esercizio di potere soverchiante da parte dell’insegnante sull’alunno passivizzato…)

Valutare con i numeri:1/5   

Durante i due incontri su citati, Il professor Cristiano Corsini  (cattedra di Pedagogia Sperimentale Università Roma3), che più di altri è impegnato a dare sostegno all’esperienza, ha citato, anche su sollecitazione di chi scrive, il ruolo che in tutto questo valutare in stile democratico, è giocato dall’INVALSI. L’Istituto segna il percorso scolastico dalla primaria alle superiori con tappe valutative ineludibili, basate su test standardizzati per le discipline considerate apicali (per il lavoro, per la scuola, per la vita, secondo l’ordine dettato dall’istituto su modello OECD-PISA), censuari, con misura 1/5 e certificazione finale delle competenze (DM 742/2017 art4 cc2,3) a cui uno studente del liceo può accedere grazie a un badge (compare un esagono con un termometro che misura a quanto ammonta la temperatura degli apprendimenti conseguiti!). 

Mi soffermo su due affermazioni del professore Corsini: 1.da anni è in atto una distorsione ad opera della dirigenza dell’INVALSI consistente nell’applicare la valutazione degli apprendimenti come misura dell’efficacia/efficienza del sistema scuola. Solo quest’ultima sarebbe la sua missione, considerato che il test non può dare informazioni sul singolo alunno, avendo tra l’altro, carenze sul piano della validità e dell’affidabilità (a cura di C. Corsini Rileggere Visalberghi Quaderni di Ricerca Ed Nuova Cultura, 2018; intervista/video a Tecnica della Scuola: https://www.tecnicadellascuola.it/le-prove-invalsi-lesperto-di-valutazione-corsini-nulla-in-contrario-ma-non-sono-prove-di-competenza); 2. tale distorsione si deve anche ad una sorta di nuovo corso della filosofia dell’istituto inaugurato dall’attuale staff dirigenziale. Provo a ribattere. 

1. Ripercorrendo la normativa sulla valutazione istituzionale, a diverso livello gerarchico delle fonti, tutto porta ad un’altra lettura: la missione fondamentale dell’INVALSI è la verifica degli apprendimenti e solo in via laterale il loro utilizzo – molto eventuale – per capire come funziona il sistema-scuola nel suo complesso, insomma la parte per il tutto. Un tutto che è fatto di infrastrutture, edifici, dimensioni degli istituti scolastici, ubicazione territoriale, rapporti con gli EELL, reclutamento, formazione dei dirigenti e dei docenti, definizione degli organici, ecc. Di questo l’INVALSI raccoglie solo qualche traccia  dai questionari sul retroterra degli istituti scolastici compilati da dirigenti, alunni, insegnanti, genitori (e dai Rapporti di Autovalutazione). Indagando le fonti giuridiche, troviamo: il DPR 80/2013  (Regolamento Del Sistema Nazionale di Valutazione, impugnato dal sindacato Flc/CGIL, segretario nazionale Domenico Pantaleo, in prima istanza per violazione di diritto il 13/09/2013 e per motivi aggiunti il 14/11/2014); la legge 107/2015; il Decreto Legislativo 62/2017. Lo stesso Statuto dell’NVALSI, ente di diritto pubblico, redatto nel 2017 come da riforma della Pubblica Amministrazione,  all’art.5 c1. sancisce fra i compiti l’attività di tipo psicometrico per il perfezionamento delle prove e il coordinamento metodologico per le scuole. Un parere legale, espresso il 21/11/2018, dal prof Francesco Bilotta (Dipartimento Scienze Giuridiche dell’Università di Udine) su richiesta della professoressa Rossella Latempa (redazione rivista ROARS) annotò la netta propensione dell’INVALSI verso la ricerca e la sperimentazione dei test, anche per le soft skills (con tanto di effetti di violazione delle norme del Dlgs 33/2013 sulla trasparenza e segretezza dei dati raccolti). Se ne evince che il cuore dell’attività dell’INVALSI è la valutazione standardizzata degli apprendimenti con relativi riflessi sulla didattica e dunque sulla libertà d’insegnamento. Tale istituzionalizzazione dell’attività censuaria sugli apprendimenti potrebbe anche arrivare a vulnerare la validità del titolo di studio conferito dalle scuole, proprio perché le valutazioni dei docenti risulterebbero  schiacciate nella loro soggettività dalla presunta oggettività delle risultanze dei test (come pretende del resto l’ANP, l’associazione dei Dirigenti Scolastici: https://www.orizzontescuola.it/anp-chiede-abolizione-valore-titolo-di-studio-diploma-in-4-anni-e-commissioni-esterne-per-esami-di-stato/)

2. Sul punto di vista espresso dal professor Corsini circa la causa della distorsione di cui su, provo a ricordare un significativo episodio. Paolo Mazzoli, Direttore dell’INVALSI per 6 anni, il 30 dicembre 2013 firmava con altri un singolare Avviso Pubblico. Una cordata della scuola per il nostro INVALSI: un Promemoria non richiesto per il nuovo Presidente. Chiaro effetto della lotta intestina che si stava svolgendo al cambio della Presidenza, il documento stigmatizzava “L’attenzione esclusiva e pressante – in questi ultimi anni – verso le sole prove standardizzate”,  la necessità “di ridimensionare l’enfasi sul peso delle prove”, di cui si mettevano in luce i problemi di validità segnalati dal Professor Corsini, nonché la loro pressante periodicità. Ma la sostituzione al vertice fra Paolo Mazzoli e Roberto Ricci (già Responsabile Area Prove) , non hanno mai costituto né un tentativo di cambiamento di rotta verso la sola valutazione di sistema, né di prospettiva sull’uso e sull’impatto nelle scuole delle prove. Tanto è vero che lo stesso Mazzoli si è sempre mantenuto ben saldo sulle sue iniziali convinzioni sull’uso dei test. Lo si evince dal suo editoriale di saluto (https://www.invalsiopen.it/6-anni-invalsi-cosa-ho-imparato/) e dal suo convinto appoggio a una sperimentazione sulle soft skill in bambini di cinque anni (Cristina Stringher, INVALSI Assessment to Learning to Learn in Early Childhood: an Italian Framework in Italian Journal of Sociology of Education 8/2016) che il Ministero, con rara mossa di buon senso, bloccò quando già lo staff dell’Istituto aveva mandato avviso alle scuole dell’Infanzia perché aderissero (carteggio scambiato dal 4 ottobre 2018 al 16 maggio 2019 fra la Direttrice Generale Dipartimento MIUR  Maria Assunta Palermo e il gruppo di ricerca INVALSI) .  

Gli altri 

Circa l’appassionato intervento del Professore Enzo Arte che anima l’esperienza del Liceo Morgagni, si può dar conto appunto della passione che non voglio sminuire. Ma dell’attivismo in salsa Dewey-Milani poco si è inteso dal punto di vista delle scelte didattiche, come ha notato un ex Dirigente Scolastico in un intervento finale. Quanto a Christian Raimo per comprendere la sua passione e il suo patire rappresentati dai toni fra l’aneddotico e l’espressionistico, serve leggere la recensione del filosofo Marco Maurizi sul suo ultimo libro, scrupolosa e micidiale. (https://www.sinistrainrete.info/societa/24455-marco-maurizi-l-invasione-degli-ultra-pedagogisti.html?highlight=WyJtYXJjbyIsIidtYXJjbyciLCJtYXVyaXppIiwibWFyY28gbWF1cml6aSJd).

Conclusioni

Come forse è chiaro sono convinta che, in tutto questo gran parlare dei voti numerici, ci si situi sul semplice piano del buon senso senza che le cosiddette buone pratiche si facciano modello esportabile tout court. Giorni fa circolava nel web una vignetta che recitava più o meno così “Se il Capo ti dice bravo, lavori meglio”: ovvero, non c’è persona al mondo che in un rapporto asimmetrico, come lo è necessariamente, per luogo e funzione, per età e per dotazione di saperi quello fra insegnante e alunno, non cerchi lo sguardo approvante o di ausilio dell’Altro. Del resto, lo si è visto con la grancassa apertasi dopo l’emanazione dell’ordinanza 172 del 4 dicembre 2022 e delle relative Linee Guida sull’introduzione della valutazione a 4 giudizi discorsivi nella primaria: poco nulla può cambiare nelle classi dei più piccoli se gli insegnanti ne fanno un fatto esclusivamente burocratico e poco modificano il modo di relazionarsi con colleghi e creature piccole, di organizzare il lavoro pedagogico-didattico. Soprattutto se lavorano in classi troppo numerose, se sono precari, se sono schiacciati da burocrazia e verticismo dirigenziale.  

Tutto ciò lo ha capito il ‘meritevole e interventista Ministro Valditara: la sperimentazione-no-voto, non ha le caratteristiche per disturbare il manovratore. 

(22 marzo 2023)

Gli insegnanti, la conoscenza, la crescita

Questo è il testo della relazione per il Convegno Nazionale Docenti: “L’adolescente nel futuro. Ma quale futuro?”, organizzato dal CEIS a Roma il 9 marzo 2023

In che modo la scuola può aiutare gli studenti a crescere? Diciamo prima di tutto che esiste un enorme problema di disagio giovanile – fatto di dipendenze, abusi, autolesionismo, sofferenze profonde – sommerso e sottovalutato, che richiederebbe l’attivazione in tutte le scuole di seri sportelli d’ascolto psicologici. E bisognerebbe porsi il problema di che cosa fa e può fare lo sportello d’ascolto, anche dal punto di vista terapeutico: oggi la scuola, nel migliore dei casi, si limita a intercettare il disagio e a segnalarlo, senza che nell’ambito scolastico si possa svolgere un’azione terapeutica. Ma noi sappiamo che proprio agli studenti che ne avrebbero più bisogno difficilmente le famiglie daranno la possibilità dell’accesso all’aiuto psicologico; aiuto che d’altra parte non è fornito nemmeno dal servizio sanitario pubblico, se non in casi gravissimi, e non di rado nemmeno in quelli. L’aiuto allora, forse, andrebbe dato a scuola. Ma questo è un discorso difficile, che ci porterebbe troppo lontano. L’intento del presente intervento è ragionare su cosa possono fare gli insegnanti, che non possono sostituirsi ad altre figure professionali, per aiutare gli studenti a crescere

È interessante partire da ciò che prevede l’articolo 33 della Costituzione:

«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».

Cosa significa libertà di insegnamento? Non è un diritto degli insegnanti all’arbitrio, come qualcuno vorrebbe far credere, ma quello delle future generazioni a incontrare una pluralità di pensieri, punti di vista, visioni del mondo, prospettive culturali, stili e metodologie di insegnamento, al di fuori di qualunque totalitarismo, fosse anche quello di una (tecno o buro) Pedagogia di Stato.

Da questo punto di vista, la libertà di insegnamento non è tanto un diritto, quanto un preciso dovere costituzionale degli insegnanti

Cosa significa questo dovere? Da cosa è motivato? In un recente incontro della nostra associazione (https://www.youtube.com/live/xyGALoBF6Z8?feature=share), il professor Bailone, dell’Università popolare di Torino, ha messo a fuoco un concetto importantissimo: il dovere degli insegnanti è aiutare gli studenti a pensare, in modo critico; e come può farlo? Esercitando lui per primo la libertà di pensiero. Gli insegnanti insegnano a pensare, mostrando agli studenti il processo del pensiero nel proprio stesso pensare insieme a loro. Un insegnante che pensa insegna a farlo anche agli studenti (il ruolo fondamentale dell’imitazione nell’apprendimento è confermato anche dalle neuroscienze, dopo la scoperta dei neuroni specchio); un insegnante parassitato dal “clero ministeriale”(ancora secondo la definizione del professor Bailone), che esegua soltanto ordini e indicazioni che arrivano dall’alto, insegna a NON pensare, semmai a ubbidire. Insegna che la cultura è burocrazia, non sguardo critico sull’esistente.

Se teniamo presenti queste considerazioni, e andiamo a leggere l’elenco dei campi in cui dovrebbe articolarsi la formazione coordinata dalla Scuola di alta formazione istituita dal governo Draghi con il famigerato decreto 36, ora legge 79, la contraddizione appare particolarmente stridente. Ecco qui:

– “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei”;

– “governance della scuola: teoria e pratica”;

– “leadership educativa”;

– “staff e figure di sistema: formazione tecnico metodologica, socio-relazionale, strategica”;

– “continuità e strategie di orientamento formativo e lavorativo”;

– “potenziamento delle competenze in ordine alla valutazione degli alunni”;

– “profili applicativi del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche”;

– “tecniche della didattica digitale”.

Ci si chiede dove sia qui la scuola, e il ruolo degli insegnanti PER gli studenti, di cui parleremo tra poco.

Intanto notiamo come i documenti ministeriali sulla scuola risentano tutti di uno stesso vizio, di cui parla il filosofo dell’educazione Biesta, in un preziosissimo libro pubblicato da poco in Italia:

«Learnification è un termine che si riferisce a una tendenza, relativamente recente, che mira a esprimere molto, se non tutto, ciò che c’è da dire sul tema dell’istruzione in termini di apprendimento. Questa si manifesta nell’abitudine di riferirsi a studenti, alunni, bambini e adulti, come “discenti” (learners), a riferirsi alle scuole come “ambienti di apprendimento” o “luoghi deputati all’apprendimento” e a vedere gli insegnanti come “facilitatori dell’apprendimento”. La ridefinizione dell’ “educazione degli adulti” (“adult education”) nei termini del ‘lifelong learning’ (“apprendimento permanente”) è un nuovo esempio della nascita di un “nuovo linguaggio dell’apprendimento”, così come lo è l’ubiquità dell’espressione “teachingandlearning”.

Il punto principale che desidero sottolineare è che il linguaggio dell’apprendimento NON BASTA a descrivere il processo educativo. 

[…] Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno

Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla»

(Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, pp.40-41).

Cosa manca infatti, in molti discorsi sulla scuola? Abbiamo cercato di metterlo in luce nel documento Manifesto per la nuova Scuola, redatto dal Gruppo “La nostra scuola” – Associazione “Agorà 33” e sottoscritto da alcuni dei maggiori intellettuali italiani (cfr. https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/).

Cosa abbiamo detto?

Che la scuola per funzionare, ha bisogno di due cose: la relazione e la conoscenza: il lavoro comune sulle conoscenze tra studenti e insegnanti infatti nutre la relazione e, reciprocamente, gli studenti si appassionano alle conoscenze anche attraverso la relazione con l’insegnante. In pratica, i contenuti culturali fanno da tramite di una relazione intergenerazionale che è indispensabile per le persone in crescita, perché permette loro di relazionarsi con un mondo adulto diverso da quello familiare, di rapportarsi al gruppo dei pari e di sperimentare dinamiche di gruppo e affettive all’interno della classe, in quella classe che rappresenta una vera e propria mente collettiva (tra parentesi, di questo non si tiene mai conto quando si parla di classi aperte, di DADA… Come se gli studenti non avessero bisogno di legami duraturi). Allo stesso tempo, attraverso il lavoro sulle conoscenze, gli studenti possono lavorare indirettamente anche all’elaborazione delle proprie dinamiche interiori. La conoscenza di sé e la conoscenza della realtà, che le discipline consentono di approcciare con ordine, senso del limite e gradualità, sono infatti due facce della stessa medaglia.

Ecco, chi sottrae importanza alle conoscenze (magari a favore di quelle astratte entità chiamate “competenze”, oppure in un’idea di interdisciplinarità che paradossalmente vuole eliminare le discipline), prosciuga anche il terreno su cui crescono la relazione scolastica e la relazione intergenerazionale studenti-insegnanti, che non è direttamente affettiva come quella familiare ma ha come punto di incontro i contenuti culturali e disciplinari significativi su cui si lavora insieme. La forma specifica di affetto dell’insegnante, in particolare, si traduce nel voler dare alfabetizzazione, conoscenze, cultura ai propri studenti; nel vederli crescere dal punto di vista umano e culturale. 

Ma in che modo l’insegnamento può aiutare gli studenti a crescere? C’è un modo specifico che appartiene solo alla scuola, quello appunto del lavoro su contenuti culturali significativi insieme agli studenti, un lavoro che, come detto sopra, nutre la relazione e (insieme a una cornice di regole ragionevoli e motivate) aiuta indirettamente gli studenti anche a elaborare le proprie dinamiche interiori. Altra cosa invece è chiedere ai docenti di improvvisarsi psicologi e irrompere in queste delicatissime dinamiche in maniera esplicita, senza sapere davvero quali corde profonde delle persone in crescita si vanno a toccare, con i danni che possono derivarne. È la logica sottesa ad esempio al concetto di “competenze non cognitive”, in virtù delle quali si chiede agli insegnanti di entrare nel merito delle questioni relative alla personalità degli studenti, dandone addirittura una valutazione, come se la scuola fosse un centro di formazione e reclutamento precoce delle “risorse umane” che misura affidabilità, adattabilità e simili, invece che un luogo di istruzione, socialità e sviluppo integrale della persona.

***

Vorrei proporre un esempio, tra gli innumerevoli possibili, di come si possono toccare dinamiche sensibili senza porsi abusivamente come psicologi (cosa che purtroppo fanno tanti “formatori”), lasciando liberi gli studenti di sviluppare le proprie riflessioni. La letteratura aiuta sempre: gli studenti possano trovare rispecchiati nei temi e nei modi espressivi della letteratura (ma anche in qualunque altro contenuto culturale significativo) gli stessi contenuti interiori che li appassionano, li preoccupano, li fanno soffrire.

L’esempio è questo, che mette insieme lezioni realmente svolte sulla poesia provenzale, quanto di più apparentemente lontano – almeno dal punto di vista cronologico – dagli studenti e dal loro presente.

  1. Dopo un’introduzione generale, si procede ad una lettura antologica di testi che fa emergere una delle caratteristiche principali della poesia provenzale, cioè l’impegno richiesto all’uomo che voglia conquistare la donna di cui è innamorato (la poesia provenzale è uno strumento di corteggiamento). La pazienza, la fedeltà, la perseveranza, la forza di volontà, il coraggio, il rispetto, la discrezione sono qualità maschili (in alcune poesie anche femminili) senza le quali non è possibile alcuna conquista; proprio la presenza di queste qualità sembra colpire molto gli studenti di entrambi i sessi, specie quando essa viene collegata all’idea della gradualità del percorso amoroso, durante il quale l’uomo deve superare una serie di prove e ottiene dei segni progressivi di fiducia e di abbandono da parte della donna, dalla confidenza a parole fino al bacio e alla possibilità di un contatto fisico più intimo. La gradualità della conquista, che prevede passaggi precisi e codificati, rappresenta un modo per unire nell’amore la dimensione fisica e quella spirituale: l’attesa alimenta eros e attrazione e costringe ad una sublimazione che rende l’amore una dimensione che coinvolge l’essere umano nella sua interezza e gli permette di coltivare nel tempo le sue migliori qualità, prima fra tutte la fedeltà all’amore;
  2. Colpito dall’interesse mostrato dagli studenti per queste tematiche e già con un’idea di conduzione del dibattito in mente, sia pure aperta a quello che via via emerge, chiedo alla classe se un modello di amore come quello provenzale sarebbe attuabile e auspicabile ai nostri giorni. Chiedo in particolare quali siano le differenze, secondo gli studenti, tra le modalità provenzali di vivere l’amore e quelle contemporanee. Alcuni maschi mi dicono subito che il problema è che le ragazze, a loro dire, si concedono troppo facilmente; le ragazze dicono che sono i maschi che vogliono tutto e subito. Tralasciando altri passaggi intermedi, la conclusione del discorso è che la conquista e il rapporto amoroso sono caratterizzati dalla fretta, basata su un terribile malinteso e un paradosso: ragazzi e ragazze “corrono”, bruciano le tappe, credendo ognuno di fare ciò che l’altro si aspetta, e che in realtà non vuole. I maschi, in particolare, riescono a confessare che questo ruolo maschile, di colui che ha sempre e comunque fretta, crea in loro un forte stato di ansia, che sarebbe evitabile attraverso una conoscenza paziente e graduale della ragazza di cui sono innamorati, con una progressione lenta della tenerezza e dell’intimità. Insomma, si mostrano piuttosto consapevoli del fatto che il ruolo maschile stereotipato a cui si sentono costretti non rispecchia ciò che vogliono davvero;
  3. Per completare il discorso con il punto di vista femminile, espresso con più riservatezza, ricorro alla visione di un film, dicendo genericamente che è collegato alle tematiche letterarie affrontate, senza dire come. Il film è The breakfast clubun grande capolavoro nella possibilità di rispecchiamento e di identificazione con i personaggi che offre agli adolescenti e nelle emozioni e riflessioni che è capace di suscitare (devo la conoscenza di questo film allo psicoanalista Alessandro Zammarelli, membro fondatore del nostro gruppo, le cui riflessioni sono presenti anche in vari altri passaggi di questo intervento. D’altra parte il gruppo La nostra scuola è nato proprio con l’idea di mettere a confronto e far dialogare insegnanti ed esperti dell’età evolutiva, con la distinzione chiara dei ruoli e l’arricchimento reciproco). In una scena del film, le due protagoniste, Claire ed Allison, in presenza dei maschi (i cinque protagonisti sono tenuti chiusi a scuola per l’intera giornata del sabato, a scrivere un tema e a riflettere su qualcosa di grave – non si sa cosa – che ciascuno di loro ha commesso), portano avanti un importantissimo dialogo: Allison finge di essere particolarmente disinibita, per costringere l’altra, Claire, a confessare se è mai stata con un ragazzo oppure no. Ad un certo punto (cito dal doppiaggio italiano) Allison dice pressappoco: “questa domanda è una trappola, se dici sì sei una puttana, se dici di no sei una suora”. Quando Claire perde il controllo e urla di essere vergine Allison, che si era finta ‘ninfomane’, risponde: “sono vergine anch’io, ma farei l’amore con un ragazzo che mi ama davvero”. A questo punto il dibattito in classe si sposta sulla falsa alternativa, che condanna sempre la donna, tra l’essere troppo poco disponibile o troppo disponibile. Il discorso ritorna circolarmente sulla poesia provenzale: gli studenti sembrano concordare sul fatto che questa falsa alternativa possa essere superata attraverso l’idea ‘provenzale’ che l’amore fisico rappresenti l’ultima tappa di un percorso che preveda la scoperta dell’intimità attraverso l’amore e l’affetto, la conoscenza reciproca, una confidenza che cresca col tempo, man mano che l’altra persona si rivela degna di fiducia e di abbandono.

Ecco, questo è un esempio di come il lavoro sulle conoscenze possa diventare educativo senza volerlo essere esplicitamente, utilizzando le conoscenze come modalità per spingere gli studenti a pensare. Senza conoscenze, a partire da una reale e approfondita alfabetizzazione, questo lavoro non è possibile. E spesso, la critica alle conoscenze e ai saperi priva il discorso scolastico di sostanza, lo fa girare a vuoto su metodologie fini a se stesse, con una terribile inversione mezzi-fini. Lo aveva capito già tantissimi anni un grande scrittore quasi dimenticato come Lucio Mastronardi:

Le lezioni le tiene una professoressa di pedagogia. “Cari maestri, mettetevi in mente che il fanciullo non è un vaso da riempire…” esordì la professoressa. “Ma un vaso da vuotare!”, sghignazzò Nanini […] La professoressa si irritò: “Ma un focolare da accendere”, disse […]. Si ricordi che sta parlando con una funzionaria del gruppo A…” […]. “Una lezione sul ferro per la quarta elementare […]. Come farebbe lei a spiegare il ferro?”, domandò a una maestrina. “Guarderei quello che dice il sussidiario”, rispose la maestrina. “Ah!”, urlò quella con una faccia disgustata, “il libresco! Ancora il libresco! Per fare una lezione sul ferro cominceremo a portare la scolaresca a casa di un minatore!”. “Impossibile, urlò Nanini, “a Vigevano non ci sono i minatori!”. La professoressa dopo un momento di smarrimento si riprese: “Quando andate a fare le gite scolastiche, scegliete un luogo dove ci siano minatori…”

(Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, Torino, Einaudi, 1962, pp.112-113).

La scuola della conoscenza, che molti vorrebbero eliminare a favore dell’addestramento a “competenze” predeterminate, è quella in cui gli studenti sono liberi di applicare a sé quello che imparano. Il che significa, naturalmente, che debbano imparare qualcosa di significativo e non necessariamente vicino alla loro esperienza quotidiana: altrimenti si escluderebbe a priori l’accesso ad altri mondi di significazione e la possibilità della messa in discussione del proprio orizzonte esistenziale e conoscitivo attraverso il confronto con altre realtà e altre modalità di pensiero, rappresentate dalle diverse discipline nella loro ricchezza e nei loro fondamenti epistemologici. 

Come spiegano benissimo Laval e Vergne, teorici dell’educazione democratica :

 «Più ci si mantiene vicini all’esperienza sensoriale e sociale degli studenti, più [secondo Dewey] se ne facilita l’accesso alla conoscenza. Il dilemma qui è capire se, a forza di confondere l’esperienza sociale con quella scolastica, non si corra il rischio di svalutare le conoscenze scolastiche in ciò che esse hanno di specifico e formalizzato, e quindi di rendere meno comprensibile per ragazzi di umili origini ciò che devono imparare a scuola e che non possono imparare al di fuori. Infatti, appropriarsi dei saperi scolastici implica che si comprenda anche la necessità della distanza che esiste tra la realtà vissuta e la formalizzazione, sistematizzazione e progressione di tali saperi. A tal punto che occorre chiedersi seriamente se la democrazia scolastica non consista piuttosto nell’aiutare gli studenti a uscire dalle loro esperienze immediate per accedere alla ragione scritta, alla pratica riflessiva sulla lingua, alla cultura scolastica, a quello che Bernstein chiamava il ‘codice elaborato’, senza per questo che prevalga in essi un senso di alienazione. La difficoltà pratica dell’istruzione consiste quindi nel garantire che l’universo dei saperi, dei simboli e dei concetti costituisca oggetto di esperienze cognitive specifiche e interessanti in se stesse, senza essere immediatamente respinte come prive di interesse in quanto lontane dalla ‘vita reale’. È questa esperienza specifica dei saperi scolastici che permette allo studente di prendere le distanze dalla realtà sociale in cui è immerso» (Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, 2022, pp 119-120).

E ancora Gert Biesta: «La domanda che non viene mai posta è se l’ambiente a cui il sé sta cercando di adattarsi sia un ambiente a cui ci si dovrebbe adattare, un ambiente a cui valga la pena adattarsi. Il sé – e forse dovremmo dire il sé adattabile e adattivo – non può mai generare, da solo, un criterio con cui valutare ciò a cui si sta adeguando. È quindi preso, in quanto ‘oggetto’, da ciò a cui si sta adeguando, un problema che ho cercato di esemplificare servendomi dell’immagine del robot aspirapolvere» (Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p.75).

D’altra parte, l’abbiamo detto, la spinta neoliberista a trasformare l’istruzione in addestramento e in adattamento alla realtà così com’è, con la cancellazione di una cultura che è sempre forza trasformativa e riserva di senso critico rispetto all’esistente, è insita nella logica delle “competenze”, quella che un certo pensiero pedagogico purtroppo troppo spesso si presta a giustificare. Lo spiega in maniera inequivocabile lo storico Boarelli, con le cui parole concluderei:

«Questa visione dell’educazione attiva è in profondo contrasto con quella praticata attraverso le ‘competenze’. L’educazione attiva, per essere veramente tale, deve porsi l’obiettivo di fornire ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per incidere sulla realtà, per modificarla attraverso una comprensione individuale e un’azione comune. L’approccio per ‘competenze’, al contrario, si basa su una adesione alla realtà esistente come se questa possedesse una realtà propria (il reale non è razionale, sosteneva Dewey). Non si propone di sottoporla a una lettura critica, tanto meno di cambiarla. Il suo scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per adattarvisi. La sua azione è modellata sugli individui singoli, privi di legami sociali, che devono essere dotati di propri ‘portafogli’ di competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare da un loro uso accorto sul ‘mercato’. In questo modo le finalità individuali e sociali vengono separate, viene ricostituita un’opposizione artificiale tra dimensione personale e dimensione comunitaria. 

Non stupisce che questa visione pretenda di fare tabula rasa di una ricca tradizione pedagogica costruita intorno al nesso tra individuo e società, tra educazione e democrazia. Stupisce, semmai, che un nuovo filone pedagogico si presti a legittimare questa mutazione. Nella costruzione delle ‘competenze’, i pedagogisti arrivano a giochi già fatti. Il loro ruolo prevalente è diventato quello di fornire – a posteriori – un quadro teorico di riferimento a un concetto che nasce, come abbiamo visto, su un terreno diverso rispetto a quello educativo.

Per renderlo credibile, si cerca di costruire intorno ad esso una genealogia, alla ricerca di radici antiche e padri nobili, senza preoccuparsi troppo dell’eterogeneità delle correnti di pensiero chiamate in causa. Lo scopo è piuttosto quello di fornire una narrazione che ‘concili l’inconciliabile’, di legittimare il fatto che l’orientamento delle politiche educative sia spostato dal complesso delle dinamiche sociali a una loro declinazione specifica ed esclusiva: l’economia e l’impresa» (Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari-Roma, Laterza, 2019, pp.25-26).

Luca Malgioglio, Gruppo La nostra scuola/Associazione Agorà 33

I collegi docenti e il PNRR. Che fare?

Riceviamo e pubblichiamo qui un importante documento scritto dal CUB Scuola Università Ricerca – Federazione Provinciale di Torino (e-mail: scuola@cubpiemonte.org) che contiene delle informazioni utilissime su come i collegi docenti possono tentare di governare il PNRR invece di farsene governare.

FAQ per governare il PNRR…   

…invece di farsi governare

Tutto quello che dovete sapere prima del 28 Febbraio per evitare un massivo trasferimento di fondi pubblici nelle tasche di poche aziende private, in violazione delle normative sulla pubblica acquisizione di software (CAD – codice dell’amministrazione digitale) e del regolamento europeo per la protezione dei dati personali (GDPR). 

1. Cos’è il PNRR e cosa c’entra con la scuola?

R. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un progetto europeo di riforme che riguardano tutti gli ambiti dello Stato, lanciato successivamente alla pandemia per cercare di aiutare le economie dei vari paesi europei a “riprendersi”. Al suo interno è previsto un capitolo sulla scuola: il Piano Scuola 4.0, che si configura come una prosecuzione e approfondimento del precedente PNSD, ossia il Piano Nazionale Scuola Digitale (quello che ha portato una LIM in ogni aula e connessioni a 100 Mbps in ogni scuola a spese dello Stato).

2. Come funziona il PNRR?

R. In maniera, purtroppo, troppo simile ai “piani di ristrutturazione” del FMI in Argentina nei primi anni 2000 e al lavoro della “troika” in Grecia, lega ingenti finanziamenti a precise riforme da effettuarsi in tempi rapidissimi e –di conseguenza– senza un vero dibattito democratico. La sua ispirazione è chiaramente iperliberista e le conseguenze rischiano di essere un massivo trasferimento di fondi pubblici verso il privato.

3. Cosa dobbiamo decidere entro il 28 Febbraio?

R. Ogni scuola ha ricevuto un budget su una o più delle linee di finanziamento previste dal Piano Scuola: Antidispersione, Next Generation Classroom e Next Generation Labs. Entro il 28 Febbraio bisognerà caricare sulla piattaforma del MIM una descrizione di massima dei progetti che si intendono realizzare per ciascuna delle linee di finanziamento, con la relativa ripartizione dei fondi, come spiegato nella sintesi delle linee guida che potete trovare qui:
https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2022/12/Slide_sintesi_Istruzioni_Operative_Scuola_4.0.pdf

4. Perché è importante agire ora

R. Per mantenere aperto lo scenario. Quello che è importante ottenere da qui al 28 Febbraio è che la descrizione dei progetti sia più aperta possibile. Se riuscirete a far scrivere qualcosa del genere:

“La scuola, in accordo ai risparmi che si realizzerano con le operazioni di messa a bando, intende realizzare uno o più dei seguenti progetti:

A – Assurdità 1 (es. visori per la realtà aumentata per tutti)

B – Assurdità 2 (es. un computer fisso per ogni banco in ogni classe)

C – Progetto sensato“

resterà possibile attuare anche il “Progetto sensato”. In caso contrario potrebbe diventare davvero complicato (a seconda del Dirigente) modificare la linea d’azione intrapresa.

5. Ma la mia scuola ha già approvato i progetti Assurdità 1 e 2. È troppo tardi!

R. Non è vero. Aver approvato i progetti non implica né l’obbligo di realizzarli, né il divieto di realizzare altro. Ovviamente bisogna che la descrizione che verrà caricata entro il 28 Febbraio sia “aperta” (come descritto nella FAQ n.4) e che, successivamente al 28 Febbraio, il CD approvi l’eventuale “Progetto sensato” prima di scriverne il bando e andare a cercare chi lo realizzerà.

6. Il dirigente può decidere in autonomia e senza consultare Collegio Docenti e Consiglio d’Istituto?

R. No. Le decisioni devono essere collegiali. E se implicano limitazioni alla libertà d’insegnamento (come, ad esempio, obbligo di utilizzare i device digitali per un tot di ore all’interno della giornata) dev’essere coinvolto il Consiglio d’Istituto con le rappresentanze di studenti e genitori.

7. Il dirigente può nominare una commissione di lavoro sul PNRR senza parlarne con il Collegio Docenti?

R. Questo è più disputabile. Certamente non è un comportamento che possa favorire le relazioni sindacali. In ogni caso il lavoro della commissione, che pure è organo del CD, deve poi passare per l’approvazione del CD.

8. Perché c’è il rischio che questa azione del PNRR si trasformi in un gigantesco trasferimento di fondi dal pubblico al privato?

R. Perché le linee guida dicono che dobbiamo spendere come minimo il 60% dei fondi per l’acquisto di hardware e software. A questo si aggiungono tempi troppo stretti per fare le cose per bene senza mettersi in croce, per cui molti dirigenti si stanno affidando a privati esterni per conservare la propria sanità fisica e mentale. 

9. Ma il lavoro di progettazione delle Commissioni per il PNRR che stanno scrivendo i progetti entro il 28 Febbraio sarà pagato?

R. No. Si partecipa pro-bono. Non c’è nessuna assicurazione che le persone che hanno “progettato” siano anche poi nominati collaudatori o redattori dei bandi. Ovviamente nessuno però sarà felice di candidarsi a realizzare un progetto scritto da qualcun altro, a meno che sia talmente generico da permettere emendamenti sostanziali (riscrittura).

10. Ma questa cosa riguarda solo noi o anche i ragazzi e le famiglie?

R. A nostro modo di vedere riguarda tutti i “portatori di interessi” (stakeholders, nella neo-lingua ministeriale) del mondo della scuola. Per questo, laddove i progetti siano davvero “rivoluzionari” è importante che le RSU chiedano il coinvolgimento del Consiglio d’Istituto.

11. Il mio dirigente ha deciso di dare tutto in mano a un ente o ditta esterna che comprerà licenze software per decine o centinaia di migliaia di euro. Il CD ha approvato senza battere ciglio. Che fare?

R. Oltre alle limitazioni date dal governo democratico della scuola ci sono quelle date dal CAD (Codice Amministrazione Digitale). Il CAD impone (pena sanzioni di cui il dirigente risponde in solido dal suo stipendio) che le PA acquisiscano unicamente software libero a meno di non fornire una dettagliata valutazione comparativa che dimostri l’inesistenza di un software libero adatto a svolgere un certo compito oppure la netta superiorità di quello proprietario, al punto da rendere impossibile la realizzazione del progetto con quello libero. Se un dirigente non la rispetta lo si può diffidare e –nel caso non desista– segnalare alla autorità per l’erogazione delle dovute sanzioni, anche per danno erariale. 

12. Il mio dirigente ha deciso di dare tutto in mano a un ente o ditta esterna che ha progettato di costruire tutto attorno a Google Suite for Education o altri servizi simili di Microsoft o Amazon. Il CD ha approvato senza battere ciglio. Che fare?

R. Oltre alle limitazioni date dal governo democratico della scuola ci sono quelle date dal GDPR (Regolamento Generale per la Protezione dei Dati). Il Garante italiano per la privacy si è recentemente espresso sull’ obbligo di dotarsi di DPIA e TIA (Data Processing Impact Assessment e Transfer Impact Assessment) quando si acquisiscono tali servizi:

Dato che la stragrande maggioranza dei dirigenti non se ne sono dotati, e lo hanno dichiarato pubblicamente qui (ci sono tutte le scuole, potete cercare la vostra):

https://foia.monitora-pa.it/

oppure hanno taciuto violando apertamente la legge sulla trasparenza degli atti legislativi, sono tutti a rischio sanzioni nel momento in cui vengono segnalati. E in questa faccenda si potrebbero e dovrebbero coinvolgere anche allievi e famiglie, visto che i diritti che vengono violati sono anche i loro, oltre ai nostri. Se un dirigente dovesse “tirare dritto” lo si può diffidare e –in ultima analisi– segnalare alla autorità per l’erogazione delle dovute sanzioni, anche per danno erariale. 

13. Ma le nostre scuole usano già Google per la posta. Se dobbiamo cambiare dall’oggi al domani vuol dire restare senza servizi per chissà quanto tempo!

R. La stragrande maggioranza delle scuole utilizza i servizi di Google Suite (Mail, Classroom, Drive), ma –al contempo– ha messo in funzione almeno un Moodle. Basterebbe cominciare a usare quello  Moodle è una piattaforma libera che svolge, molto meglio di Classroom, il lavoro di Google Classroom.

14. I colleghi non hanno voglia di imparare ad usare una nuova piattaforma, e molto meno ne hanno i ragazzi. Perché mai dovremmo accollarci una tale fatica?

R. Perché Google e Facebook, stanno investendo delle cifre pantagrueliche per costruire una macchina per l’adaptive learning (AL). L’AL è l’applicazione di quella che loro chiamano IA (Intelligenza Artificiale) all’apprendimento. Questo progetto parte dall’idea che esista una conoscenza “giusta” e una “sbagliata”, che l’apprendimento sia un fatto privato e che la competizione sia la maniera migliore per raggiungerla. Fedele a questi principi l’AL di Google utilizzerà i dati raccolti con la nostra quiescenza per costruire profili degli allievi a cui somministrare in automatico materiali e verifiche a crocette, cancellando gradualmente quel poco che resta della funzione docente a favore di uno “scuolificio” gestito dalle macchine. Se vi sembra un’ipotesi fantascientifica, provate a visitare http://www.openai.com e fare un test con ChatGPT, chiedendo alla macchina di insegnarvi, per esempio, a programmare. Il risultato potrebbe spaventarvi, ma allo stesso vi renderà più coscienti sullo “stato dell’arte”.

15. Ma noi non abbiamo le competenze per progettare degli interventi così connotati dall’informatica. Non è meglio lasciare fare gli esperti?

R. Lasciare fare gli esperti è generalmente una pessima idea. Basta vedere i risultati del lavoro degli esperti economisti in Argentina e in Grecia. Gli esperti dovrebbero essere aiutati a estinguersi, a favore di una partecipazione diffusa e capillare al design delle nuove tecnologie. Questo però richiede un tempo che ora non abbiamo. Nell’immediato, però, possiamo prendere varie esperienze e progetti che sono stati sviluppati da altre comunità scolastiche e cercare di riprodurli adattandoli alla nostra realtà. La chat sul PNRR che abbiamo aperto come CUB ha proprio questo scopo e, per ora, è stata ancora grandemente sottoutilizzata. Potete iscrivervi qui: https://chat.whatsapp.com/Ls4GaK3IYqH2GA05JHgLjP

Sul Manifesto per la nuova Scuola

Il Manifesto per la nuova Scuola è stato di recente pubblicato nel libro curato da Massimo Arcangeli, Saper essere, saper fare, saper pensare. Manifesto per una scuola del futuro, Roma, Castelvecchi, 2022, con la seguente introduzione:

Il Manifesto per la nuova Scuola è un documento nato dall’incontro e dal confronto tra insegnanti di tutta Italia, appartenenti a tutti gli ordini di scuola, che hanno costituito una rete durante il lungo periodo della pandemia e hanno dato vita al gruppo “La nostra scuola” e all’associazione culturale “Agorà 33”, coadiuvati da esperti dell’età evolutiva come lo psicoanalista SIPRE dott.Alessandro Zammarelli. 

Il documento è stato sottoscritto da moltissimi docenti universitari e da alcuni tra i maggiori intellettuali del nostro Paese come Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Mario Capasso, Ivano Dionigi, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Francesco Guccini, Edoardo Lombardi Vallauri, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Ana Millan Gasca, Tomaso Montanari, Filippomaria Pontani, Adriano Prosperi, Massimo Recalcati, Lucio Russo, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky. Si tratta di una proposta organica di rilancio – dopo il periodo difficilissimo della “didattica a distanza” – di una scuola che tenga insieme le dimensioni tra loro interconnesse dell’istruzione, della relazione intergenerazionale e della crescita umana.

Agli estensori del manifesto è apparso subito chiaro come l’unicità dell’esperienza scolastica stia nella capacità di tenere insieme conoscenza e relazione, evidenza confermata dalle enormi difficoltà di apprendimento emerse durante il periodo del distanziamento. La condivisione delle conoscenze rappresenta il terreno su cui si costruisce la relazione tra insegnanti e studenti; così come, reciprocamente, la relazione con l’adulto è ciò che – assieme alla loro insopprimibile curiosità – induce le persone in crescita ad apprendere.

Perché la scuola assolva a questa sua funzione, che come da dettato costituzionale consiste nel favorire il pieno sviluppo della persona attraverso l’istruzione, è indispensabile liberare il processo didattico ed educativo dalla spaventosa ipertrofia burocratica che ne soffoca la sostanza e che porta sempre più spesso a sostituire l’insegnamento con una descrizione astratta dell’insegnamento; occorre alleggerire la scuola da tutto ciò che la allontana dalla sua funzione essenziale, inclusa la strumentalizzazione che se ne fa a vantaggio di aziende ed enti formatori privati; evitare i totalitarismi e i conformismi metodologici, che sostituiscono un autentico discorso umano e culturale e inducono a ridurre l’elaborazione culturale ad adempimento burocratico; riportare al centro della scuola l’ora di lezione, la ricchezza culturale dei saperi e delle discipline e la passione conoscitiva, la concreta attività didattica – in un “corpo a corpo” continuo tra insegnanti e studenti basato soprattutto sulla parola -, per contrastare la diffusione a macchia d’olio dell’analfabetismo tra le nuove generazioni, acuita da venticinque anni di disastrose “riforme” e dal lungo periodo di sospensione dell’attività didattica in classe.

In sintesi, la scuola ha bisogno di tornare a essere un luogo in cui si insegna e si impara; la relazione è fondamentale in ogni processo di apprendimento; crescita umana e crescita culturale non possono che andare di pari passo; le conoscenze, se ben proposte, stimolano la naturale curiosità delle persone in crescita e il loro bisogno di dare un senso all’esperienza; il metodo migliore per insegnare è quello che funziona in una precisa situazione educativa, senza rigidità e senza pensare che i mezzi, compresi quelli digitali, siano fini in sé, senza cioè perdere di vista un significativo progetto educativo e culturale; bisogna evitare che ciò che non c’entra con la scuola – incluso uno spaventoso apparato burocratico – tolga tempo all’insegnamento, al lavoro sui contenuti culturali e alla relazione educativa.

Ci sembravano idee semplici e di buon senso, anche se forse non banali. Per questo molti di noi sono rimasti sconvolti quando – a fronte di numerosi e importantissimi consensi da parte del mondo accademico e culturale – è iniziato contro il nostro manifesto un attacco apparentemente inspiegabile, molto strutturato, continuo, con la chiamata a raccolta di camarille varie, basato sul sentito dire, sulla manipolazione e soprattutto sull’evitamento di ogni confronto e discussione nel merito delle questioni che ponevamo, sul tentativo di imporre etichette assurde a un discorso che diceva tutt’altro.

Oggi, alla luce di quello che è accaduto con il decreto 36 e la cosiddetta “Scuola di alta formazione”, quegli attacchi acquistano una luce più definita: che qualcuno tentasse di proporre un’idea sensata e motivata di scuola rappresentava un ostacolo e uno spiacevole inconveniente per chi aveva già deciso di sostituire la libertà dell’insegnamento e della ricerca culturale e didattica con un totalitarismo che costringa la scuola pubblica a diventare un’altra cosa, per motivi che hanno a che fare con la spartizione di risorse economiche e di posizioni di potere da rafforzare o da conquistare.

Gruppo La nostra scuola
Associazione Agorà 33

Di seguito il testo del Manifesto:
https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/
e il link per firmarlo:
http://chng.it/pLRQ47qfX9

La scuola democratica, per davvero

Chi riflette seriamente sulla scuola democratica ed emancipatrice si trova lontanissimo dalle formulette attivistiche più vuote e banalizzanti, ad esempio tutta la retorica delle “competenze”, degli “ambienti di apprendimento innovativi”, della falsa contrapposizione tra lezione ed esperienza e di quell’autoritarismo che in neolingua viene chiamato “autonomia”. Non a caso, queste formulette convergono senza sforzi con quelle aziendalistiche delle soft skills, degli stakeholders, del longlife learning, del middle management, del capitale umano, e servono a giustificare a posteriori lo smantellamento della scuola, la distruzione del potenziale rivoluzionario della cultura e la perpetuazione morta dell’esistente.


Il libro di Laval e Vergne, Educazione democratica, andrebbe letto da tutti gli insegnanti democratici come antidoto alle crescenti mistificazioni di certo para-progressismo sempre dalla parte del potere, collaterale al “clero ministeriale” e agli ambienti confindustriali, il cui intento principale sembra essere quello di svuotare la scuola pubblica di saperi, cultura, conoscenze, per interessi non sempre confessabili.

«Più ci si mantiene vicini all’esperienza sensoriale e sociale degli studenti, più [secondo Dewey] se ne facilita l’accesso alla conoscenza. Il dilemma qui è capire se, a forza di confondere l’esperienza sociale con quella scolastica, non si corra il rischio di svalutare le conoscenze scolastiche in ciò che esse hanno di specifico e formalizzato, e quindi di rendere meno comprensibile per ragazzi di umili origini ciò che devono imparare a scuola e che non possono imparare al di fuori. Infatti, appropriarsi dei saperi scolastici implica che si comprenda anche la necessità della distanza che esiste tra la realtà vissuta e la formalizzazione, sistematizzazione e progressione di tali saperi. A tal punto che occorre chiedersi seriamente se la democrazia scolastica non consista piuttosto nell’aiutare gli studenti a uscire dalle loro esperienze immediate per accedere alla ragione scritta, alla pratica riflessiva sulla lingua, alla cultura scolastica, a quello che Bernstein chiamava il ‘codice elaborato’, senza per questo che prevalga in essi un senso di alienazione. La difficoltà pratica dell’istruzione consiste quindi nel garantire che l’universo dei saperi, dei simboli e dei concetti costituisca oggetto di esperienze cognitive specifiche e interessanti in se stesse, senza essere immediatamente respinte come prive di interesse in quanto lontane dalla ‘vita reale’. È questa esperienza specifica dei saperi scolastici che permette allo studente di prendere le distanze dalla realtà sociale in cui è immerso. La scuola crea un mondo a sé, una vita a sé, e la questione sta tutta nel sapere quali legami si possono stabilire tra le esperienze specifiche che si possono fare a scuola e le sfide sociali e umane che possono legittimamente interessare gli studenti. Affermare che i saperi scolastici sono specifici ed eterogenei rispetto all’esperienza immediata non vuol dire infatti che essi non debbano essere esaminati a loro volta nel rapporto che hanno con l’esperienza individuale e sociale degli studenti. Niente sarebbe peggio che ricadere in una scolastica vana, come quella che Dewey e le diverse correnti dell’Educazione Nuova denunciavano. La questione pratica è, pertanto, stabilire se le conoscenze specifiche della scuola consentano o meno agli studenti di riflettere razionalmente sulla loro situazione reale di esseri umani nel mondo, in quanto persone che si trovano all’interno di una storia e di una società data, e che devono anche grazie all’istruzione avere la capacità di cambiarla, in altre parole essere soggetti della propria vita»
(Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, 2022, pp 119-120).

“Disciplinarismo o pedagogia”? Un’assurda scissione

Abbiamo letto con profondo sconcerto l’articolo pubblicato da Stefano Stefanel su “Gessetti colorati”, intitolato “Disciplinarismo e pedagogia”; siamo stati a lungo in dubbio se considerarlo una parodia o un pastiche del linguaggio più astratto del buro-pedagogismo ideologico, poi abbiamo dovuto riconoscere che l’autore parlava sul serio.

La tesi di fondo dell’articolo è che i docenti “disciplinaristi” avrebbero il torto di insegnare la loro disciplina per autoritarismo e sete di potere, difendendo con il voto e con il rifiuto dell’interdisciplinarità (ad esempio quella dell’educazione civica) la propria posizione di forza. Un presunto rifiuto della pedagogia (attenzione, la pedagogia, come se si trattasse di un monolite) si inserirebbe in questa strategia di conservazione del potere.

Se non temessimo di offendere l’autore, conoscendo ciò che realmente accade all’interno delle scuole scambieremmo questo articolo per un sogno o un incubo a occhi aperti, in cui non c’è posto per un semplice fatto: gli insegnanti insegnano (terribile dover ribadire questa ovvietà) quello che sanno – e a differenza di altri sono titolati a farlo grazie a concorsi pubblici e specializzazioni – semplicemente perché pensano che quello che sanno possa essere importante per i propri studenti.

Ma esaminiamo l’articolo passo passo, quasi integralmente, facendo seguire dei commenti alle citazioni di brani:

L’idea che lo studente migliore è quello che studia sulla carta e solo se autorizzato va sul web, il concetto di apprendimento inteso come forma guidata di conoscenza, i miliardi riversarti sul digitale ma collegati ad una cultura proibizionista sull’uso dei dispositivi di proprietà”.

Qui e altrove si confondono autoritarismo ed educazione. Forse conviene spiegare la differenza:

Autoritarismo: imposizioni immotivate, violente, decise arbitrariamente nel proprio interesse e per rafforzare un potere fine a se stesso.

Educazione: gli adulti si prendono la responsabilità di dire dei sì e dei no motivati, per motivi esplicitati e spiegati, nell’esclusivo interesse delle persone a cui vengono detti. Tra l’altro, di limiti e confini – magari da contestare e mettere in discussione, specie nell’adolescenza – le persone in crescita sono sempre in cerca, come sa qualunque psicologo dell’età evolutiva, perché sulla confusione non è possibile costruire nessuna libertà. Scambiare le legittime istanze libertarie degli adulti con una privazione di guida e di confini per bambini e adolescenti è un’operazione profondamente irresponsabile e narcisista.

Nel caso specifico, regolare l’uso dello smartphone in classe significa aiutare gli studenti a superare una dipendenza, a entrare in contatto da protagonisti con la realtà e con le persone in carne e ossa che hanno intorno, a poter concentrare l’attenzione sul qui e ora senza l’ansia dell’iperconnessione e del continuo scambio di messaggi con qualcuno presente/assente, a poter produrre quel vuoto rispetto all’adesione totale allo strumento tecnologico che è in realtà spazio per la parola, il pensiero, la relazione, la curiosità, la conoscenza.

In teoria disciplinarismo e pedagogia dovrebbero essere strettamente collegate: se voglio insegnare qualcosa devo avere a che fare con un contenuto e questo contenuto sta per forza dentro una disciplina, che, a sua volta, richiede un determinato metodo per essere insegnata, cioè la pedagogia dovrebbe servire per transitare contenuti (e abilità e competenze che ne seguono) dalla mente di un sapiente alla mente di un non sapiente. Difficilmente vado ad imparare qualcosa che già so, difficilmente qualcuno mi insegna ciò che pensa io sappia o ritenga io debba sapere (i prerequisiti)“.

Qui e oltre si fa confusione tra una pedagogia, sempre presente nell’azione di chi insegna, e la pedagogia intesa come disciplina; in realtà la pedagogia sembra essere solo quella che l’autore – dalla sua posizione che non è quella di pedagogista ma di dirigente scolastico – ritiene tale.


Nel seguito dell’articolo, la confusione aumenta, con dei salti logici poco comprensibili: lo stesso autore sembra passare dall’identificazione tout court dell’insegnamento con la pedagogia all’idea di una disciplina specifica chiamata pedagogia che ha i suoi specialisti, di cui gli insegnanti non possono fare a meno. L’ambiguità porta al paradosso per cui l’insegnante, se insegna una disciplina, sembra non poter avere una propria cultura pedagogica, personalizzata, fatta di preparazione ed esperienza insieme; sembra cioè che non possa essere titolato a svolgere il lavoro che svolge, a meno che non si avvalga in ogni momento del suo lavoro dell’intervento di uno specialista che – scelto non si sa da chi – rappresenti in astratto la pedagogia. Si pone così nel cuore dell’insegnamento una scissione immaginaria apparentemente insanabile.

Da oltre cento anni la pedagogia è stata considerata una “materia” a sé stante, non necessariamente collegata al suo compito: far apprendere. Infatti, in alcune scuole si studia la pedagogia come una forma di pensiero filosofico minore, interessante, ma con valore più storico-sociale che metodologico. Il problema, però, è un po’ più complesso e va a toccare le discipline così come sono state codificate e così come si sono imposte, le uni a scapito delle altre. Da questo punto di vista Le parole e le cose di Michel Foucault ha dimostrato che le discipline sono strumenti di potere (politico) e che talune hanno preso il sopravvento, mentre altre vivono nell’ombra. In Italia questa evidente stortura ha dato vita al costrutto artificiale delle “classi di concorso”, una struttura di sapere che è diventata struttura di potere con un valore economico molto forte, strettamente collegato ai posti di lavoro che è in grado di farsi riconoscere”.

Una nota sull’uso delle parole: adoriamo Foucault, che però ha dato un’interpretazione delle strutture di potere, non ha “dimostrato che”. Questo è il problema di tutte le chiese: prendere delle idee aperte, isolarle dal contesto in cui sono state formulate e a cui sono applicate e trasformarle in dogmi, in certezze da sovrapporre alla realtà; il che porta a un atteggiamento profondamente regressivo, al servizio delle reali dinamiche di potere – quelle ad esempio che spingono allo smantellamento della scuola pubblica e democratica – sulla base della trasformazione delle idee in formule fisse trasferite e in contesti completamente diversi rispetto a quelli in cui sono state prodotte, con una strumentalizzazione che può portare alle affermazioni più assurde. Qualunque insegnante che guardi la realtà con i suoi occhi sa che oggi il problema della scuola non è l’eccessiva strutturazione delle conoscenze, che devono avere una loro inevitabile progressività e devono essere colte nella loro dimensione storica, ma il suo opposto.

Nel merito, fare del lento strutturarsi storico delle discipline un “sistema di potere” che serve a “dare posti di lavoro” significa negare il senso stesso della cultura, un processo di costruzione delle conoscenze che non può che avvalersi del contributo di tanti e che richiede una lenta stratificazione. La finalizzazione scolastica di questo processo è il modo in cui gli studenti vengono introdotti alla possibilità di partecipare alla costruzione della conoscenza, – a meno che non si immagini ogni studente come un Adamo solitario e isolato dal resto dell’umanità che ricomincia da capo e scopre il mondo da zero, invece di una persona che può reinterpretare soggettivamente il già dato, rielaborarlo, attualizzarlo, metterlo in discussione, criticarlo e superarlo dopo averlo conosciuto.

Il fatto che le conoscenze si siano lentamente strutturate in discipline con i propri metodi e i propri fondamenti epistemologici non esclude l’interdisciplinarità ma ne è il presupposto: ci chiediamo se l’autore di questo articolo avrebbe potuto sviluppare le sue brillanti riflessioni interdisciplinari se qualcuno a suo tempo non gli avesse insegnato a leggere e scrivere, non gli avesse insegnato l’ortografia e la sintassi, se non gli avesse insegnato a ragionare attraverso i contenuti della letteratura, della matematica o della filosofia. Vorremmo sapere se pensa davvero che uno studente nutrito di soli contenuti interdisciplinari potrà un giorno fare altrettanto.

In realtà l’insegnare separatamente contenuti disciplinari che una persona già istruita è in grado di collegare serve semplicemente a dare ordine ed evitare di confondere e disorientare le persone in crescita con una proposta di conoscenza illimitata che la mente umana non può contenere, e metterle in grado di trovare loro i collegamenti tra le conoscenze appartenenti a diverse discipline, senza imporre dall’alto degli immangiabili pastoni interdisciplinari (fermo restando che gli insegnanti l’interdisciplinarità la praticano tutti i giorni, quando occorre e quando ve ne sia motivo, cfr.oltre).

Poi, di certo, i confini tra le discipline possono spostarsi: ma dev’essere uno spostamento prodotto dalla storia delle idee e da reali esigenze culturali, non imposto dall’alto: basti vedere cosa ha prodotto nelle scuole la ristrutturazione delle classi di concorso durante il ministero Gelmini, che pure ha cominciato a introdurre con gli “assi disciplinari” un’interdisciplinarità tutta burocratica tanto cara a certo pedagogismo che riduce l’insegnamento a vuota astrazione.

L’ostilità dei disciplinaristi nei confronti dell’educazione civica sta tutta qui [!]: l’educazione civica è una disciplina chiara e obbligatoria che non ha prodotto nuovi posti di lavoro. QUINDI [maiuscolo redazionale] la sua trasversalità va abbattuta. Finora non ci sono riusciti, ma chi ha pazienza vedrà presto nascere le cattedre di educazione civica con tanto di abilitazione“.

Qui, con un altro salto logico, si passa all’educazione civica, che gli insegnanti rifiuterebbero per non inquinare la propria “purezza disciplinare”. In realtà gli insegnanti non sono contrari all’educazione civica, visto che moltissimi contenuti di tante discipline sono già, in sé, educazione civica; sono invece contrari a una burocratizzazione dell’educazione civica che, anziché permettere il libero collegamento tra conoscenze di diverse discipline, quando ve ne sia un motivo valido, induca gli insegnanti a cercare collegamenti artificiosi, forzati e pretestuosi tra le discipline, solo per adempiere a un obbligo. Siamo appunto al centro del tentativo di trasformare autentiche istanze educative e culturali in burocrazia imposta dall’alto. Proprio quello che si rimprovera non alla pedagogia e ai pedagogisti, come qualcuno vorrebbe far credere, ma a ben determinati settori di pedo-burocrazia ministeriale o para-ministeriale, che perseguono scopi politici non sempre dichiarati e hanno sempre fornito giustificazioni a posteriori per ogni passo avanti nello smantellamento della scuola pubblica.

La trasmissività vista come l’elemento base della disciplina: io ti racconto, ti spiego, ti argomento quello che devi imparare, tu studi e lo impari. La trasmissività impone la conferenza, la cultura del contenuto, la spiegazione anche di ciò che è già chiaro, la meta-spiegazione artigianale (la lezione in classe) di quello che è oscuro, il riassunto virtuoso, la chiacchiera diventata orazione“.

Quando qualcuno critica la dimensione artigianale della scuola è inevitabile sentire un brivido lungo la schiena: l’alternativa all’artigianato – indispensabile di fronte a un’irriducibile varietà di situazioni educative, rapporti umani, conoscenze, singolarità – non può essere che il totalitarismo astratto della “metodologia” che da strumento flessibile diventa idolo e prende il posto del “che cosa” insegnare e perché – si veda cosa sta accadendo oggi con il digitale – magari rivestito con i panni di un’improbabile “scienza” pedagogica.


Il manuale o il libro di testo in cui è codificato il riassunto di tutto lo scibile disciplinare, in fascicoli da compulsare e leggere annualmente, visto che tutto è diviso per annualità e prevede una chiara spesa da sostenere come base per accedere a quel sapere codificato, stantio e immobile, ma comunque certo, almeno nei limiti di quanto la comunità disciplinare ha deciso sia certo in quel momento“.

Il libro di testo in realtà non è che il punto di partenza del lavoro della classe, che con la guida dell’insegnante può diventare una comunità ermeneutica, esplorare strade impreviste e sempre nuove, interpretare e contestualizzare lo stesso libro di testo.

La memoria come ricordo di ciò che è stato trasmesso attraverso conferenze (anche operative: gli esperimenti nei laboratori) e che deve essere esercitata senza supporti tecnici e multimediali in quelle che sono le prove disciplinari per eccellenza, cioè i compiti in classe e le interrogazioni.

La pedagogia, dunque, viene sempre più vista come un elemento di ostacolo alla disciplina, quasi che il piegarsi alle esigenze del discente debole sia un cedimento inaccettabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare
“.

Altro incredibile salto logico, segnato dal “dunque”: viene dato per scontato, non si sa su quale base, che l’insegnamento della disciplina escluda il “piegarsi alle esigenze del discente debole”, che qualcuno consideri l’aiuto agli studenti più deboli un “cedimento inaccetabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare”. Ancora, si esclude assurdamente che l’insegnamento di una disciplina possa incentrarsi sulla dimensione relazionale e il tatto pedagogico. Ed è ancora più curioso che – a fronte di una crescita molto preoccupante del disagio giovanile – si esalti il valore salvifico di una “scienza” pedagogica che ricomprende in sé anche la didattica senza mai accennare a forme di conoscenza profonda delle persone in crescita, rappresentate dalla psicologia e dalla psicoanalisi.

“Il discente forte – ed è questo il punto di grande ambiguità del concetto di merito – è perfettamente inserito nello specifico disciplinare ed apprende per trasmissione, tradizionalismo manualistico, memoria. Siamo dunque di fronte ad un problema molto serio che vede la disciplina come strumento delle élite e la pedagogia come strumento del popolo. Il sapiente è un disciplinarista se comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento che non può permettere alla disciplina di scendere verso la banale comprensione, il modesto impegno, il poco interesse; mentre è un pedagogo se cerca di raggiungere il popolo col sapere
“.

Non si sa da dove arrivi – non certo dalle nostre aule – questa sconcertante e grottesca distinzione tra “sapiente” che da “disciplinarista” “comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento e “pedagogo” che cerca “di raggiungere il popolo col sapere”. Questa visione esclude la realtà, quella per cui il docente è una persona che attraverso la relazione condivide delle conoscenze e dei contenuti culturali con i propri studenti, lavora insieme a loro all’acquisizione e alla rielaborazione di quelle conoscenze e sa come farlo, anche attraverso l’incentivazione della motivazione e le pratiche di recupero delle carenze.

Con il termine dispregiativo di “pedagogismo” si indica la china facilitatrice verso concetti e apprendimenti non facilitabili e come tali necessari più per il mantenimento del potere della disciplina che per migliorare l’apprendimento della stessa in studenti comunque giovani e generalisti“.

No, con pedagogismo si intende la riduzione della scuola, dei contenuti culturali e dell’insegnamento a burocrazia e metodologie astratte, scollegate dalla concreta situazione educativa e dalle finalità didattiche.

Tutto questo lo aveva già detto Foucault molto chiaramente, ma il pensiero pedagogico novecentesco (Montessori, Dewey, Gardner, Brunner) ha sottovalutato la forza del potere economico sotteso alla disciplinarietà dei saperi […]

Sul solito frullatore di nomi ormai buttati lì a caso (tanto che Bruner diventa Brunner) si veda oltre.

“Gli specialisti ci sono sempre stati nella storia dell’umanità e sempre ci saranno: non è mai stato questo il problema. Ma i disciplinaristi non sono degli specialisti, sono, forse, dei cultori della materia, cioè competenti dentro i limiti di una disciplina. La contaminazione è inutile in uno specialista, ma viene ritenuta pericolosa da coloro che non sono specialistici, ma sono solo disciplinaristi, perché la contaminazione fa perdere potere alle discipline. La struttura enciclopedica è una “lotta mortale” tra discipline, che vogliono avere più voci riconosciute possibili, perché tante sono le voci, tanto è il potere. Le arti del trivio e del quadrivio una battaglia simile l’hanno disputata circa mille anni fa
“.

Chi trova traccia nella scuola di questa “lotta mortale” ce lo segnali, per favore.

Se torniamo a noi lo svilimento della funzione della pedagogia, soprattutto nelle scuole superiori, non è un modo per preservare il rigore e la precisione disciplinare, ma solamente per delimitare il campo del potere. Discipline che si contaminano, che agiscono su base multidisciplinare e interdisciplinare alla fine finiscono per perdere la loro specificità e a trasformarsi in altro. […] Ed è una battaglia che ha reso le discipline più arcigne, desiderose di essere trasmesse, ma ostili verso la pedagogia, cioè verso quell’azione del docente che comprende come raggiungere la mente del discente, non per riempirla, ma per farla diventare migliore“.

Qui se non altro ci siamo risparmiati la seconda parte del solito luogo comune degli studenti che non sono vasi da riempire, ecc.

Per questo servono i voti e non le valutazioni formative: per delimitare il campo della disciplina
. Se il voto è negativo viene sancito il “debito disciplinare”, cioè quel terreno incerto e di controllo per cui l’insegnante non deve trovare metodi nuovi per raggiungere risultati di apprendimento che non ha raggiunto con i metodi trasmissivi, sperimentali, misurativi in vigore, ma semplicemente rubricare l’insuccesso, quella debolezza disciplinare che non permette di andare avanti. Più le discipline sono obsolete più sono difficili e astruse e per questo forti, perché essendosi tramutate in classi di concorso alimentano la schiera di chi insegnerà quella disciplina nella scuola italiana”.

Tutto il ragionamento di Stefano Stefanel sembra segnato da un’ossessione per la tematica del potere: curioso, per un dirigente ben inserito nella burocrazia scolastica.

In realtà la fantomatica terribile “didattica trasmissiva” unidirezionale, con l’insegnante che tiene una conferenza senza curarsi di chi ha di fronte e gli studenti che assorbono passivamente, con la cattedra e la predella, i vasi, l’imbuto ecc. ecc., sono cose che non esistono più da nessuna parte e che servono solo come straw man argument per giustificare lo smantellamento delle discipline, dei saperi e delle conoscenze nella scuola pubblica. È questa la vera faccia del potere, che si tenta in ogni modo di nascondere dietro un apparente progressismo.
Inoltre Stefanel non prende nemmeno in considerazione l’idea che dietro l’assegnazione dei voti non ci sia una dinamica di potere, ma la volontà di dare un’indicazione chiara agli studenti su come stiano lavorando e sulle conoscenze acquisite fino a quel momento. Va da sé che ogni insegnante degno di questo nome accompagna il voto – indispensabile al mantenimento del valore legale del titolo di studio – con una spiegazione esauriente, all’interno di una relazione educativa anche affettiva (non ipocritamente “affettuosa”), che consiste nel fare il bene delle persone che si hanno di fronte.

***

In conclusione, ci piacerebbe riportare alcune parole di un filosofo dell’educazione come G.J.J.Biesta, esempio di un pensiero pedagogico profondo e attuale, basato sulla realtà, al di fuori del solito frullatore di nomi citati nel segno di un attivismo astratto, anacronistico e ammuffito, spesso collaterale agli interessi dei decisori politici e a quelli della burocrazia ministeriale.

Purtroppo attraverso questa collateralità si continua a fornire qualunque giustificazione al progetto di smantellamento della scuola pubblica della conoscenza. E qui è fondamentale sciogliere un equivoco: quello che molti insegnanti rifiutano, in realtà, non è “la pedagogia” ma le scempiaggini di una decrepita setta pedagogico-ministeriale che ha già fatto innumerevoli danni.

Ecco qualche brano del libro di Biesta, che consigliamo a tutti gli insegnanti che vogliano riempire nuovamente di senso il proprio lavoro, sempre più spesso svuotato dalla burocrazia:

«Negli ultimi vent’anni, in numerose pubblicazioni accademiche e documenti di politicy dell’insegnamento, è apparsa spesso la tesi secondo cui il cosiddetto insegnamento tradizionale – un’organizzazione dell’educazione tale per cui l’insegnante parla e gli studenti dovrebbero ascoltare e assorbire passivamente informazioni – è da considerarsi inefficace e obsoleto […]. Si noti come l’opposizione fra “tradizionale” e “d’avanguardia” sia già di per sé stantia, e non dovremmo nemmeno dimenticare che criticare l’insegnamento tradizionale è, oggigiorno, una mossa tradizionalista».

«Learnification è un termine che si riferisce a una tendenza, relativamente recente, che mira a esprimere molto, se non tutto, ciò che c’è da dire sul tema dell’istruzione in termini di apprendimento. Questa si manifesta nell’abitudine di riferirsi a studenti, alunni, bambini e adulti, come “discenti” (learners), a riferirsi alle scuole come “ambienti di apprendimento” o “luoghi deputati all’apprendimento” e a vedere gli insegnanti come “facilitatori dell’apprendimento”. La ridefinizione dell’ “educazione degli adulti” (“adult education”) nei termini del ‘lifelong learning’ (“apprendimento permanente”) è un nuovo esempio della nascita di un “nuovo linguaggio dell’apprendimento […]. Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno.
Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla […]».

«…l’apprendimento sembra essere al servizio di un’economia capitalista globale, che ha bisogno di forza lavoro flessibile e adattabile. In tale contesto, l’apprendimento è descritto come un atto adattivo, senza che ci si chieda a cosa ci si dovrebbe adattare e perché, prima di ‘decidere’ di farlo. La ‘libertà di apprendere’ dell’individuo […] sparisce, così come è assente una concezione dell’apprendimento al servizio della democrazia […].

La domanda che non viene mai posta è se l’ambiente a cui il sé sta cercando di adattarsi sia un ambiente a cui ci si dovrebbe adattare, un ambiente a cui valga la pena adattarsi. Il sé – e forse dovremmo dire il sé adattabile e adattivo – non può mai generare, da solo, un criterio con cui valutare ciò a cui si sta adeguando. È quindi preso, in quanto ‘oggetto’, da ciò a cui si sta adeguando, un problema che ho cercato di esemplificare servendomi dell’immagine del robot aspirapolvere» (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022, p.40-41,56,75 [passim]).

Gruppo La nostra scuola

Associazione Agorà 33

Questo il testo integrale dell’articolo:

http://www.gessetticolorati.it/dibattito/2022/12/10/disciplinarismo-e-pedagogia/




Risposta dell’Associazione Agorà 33 – La nostra Scuola, al documento “La scuola che vogliamo” dell’ANP

A cura di Enrico Campanelli

ANP:
Il lavoratore prima della persona: la scuola schiava dell’utile

• “…riformare gli ordinamenti […] che non [sono] più in grado di rappresentare i bisogni […] dello sviluppo economico […] del Paese”;
• “…la scuola non è più chiamata a svolgere programmi, ma a costruire curricoli […]. Una scuola che smette di […] valorizzare prevalentemente il pensiero astratto e simbolico, [di] insegnare conoscenze generali”;
• “…conoscenze e abilità sono dunque strumentali alle competenze”;
• “È ormai l’ora, infatti, di passare definitivamente alla certificazione delle competenze”;
• “Fino all’emanazione del regolamento dell’autonomia, il lavoro dei docenti […] era tarato […] sull’acquisizione […] di conoscenze e di abilità: le competenze […] non erano viste come un compito della scuola. Con l’autonomia, invece, la scuola viene chiamata a […] certificare ciò che hanno appreso.”.

L’aridità di una istruzione-educazione informata alle effimere e riduttive richieste del mercato del lavoro. La povertà di una vita interiore mai esplorata nelle sue potenzialità. Una scuola sempre più orientata ad identificare l’istruzione con le competenze lavorative, che guarda sempre di più alle competenze non cognitive, utili ad un mercato del lavoro spregiudicato, e sempre meno alla formazione culturale degli alunni, nemica dello sfruttamento.
Un’artificiosa e rigida suddivisione del sapere in conoscenze, abilità e competenze, usata per ricostruire una versione caricaturale della scuola pre-autonomia (in cui gli alunni sapevano tutto ma non sapevano fare niente), per poterla attaccare con l’obiettivo di sostituire la crescita culturale degli alunni con lo sviluppo di competenze disgregate orientate esclusivamente ad una dimensione lavorativa di basso profilo professionale.

AGORÀ 33:
La persona prima del lavoratore: la scuola madre del possibile
Una scuola che offre ampi orizzonti culturali da esplorare perché ciascuno possa scoprire se stesso e le proprie passioni senza l’ossessione di una finalizzazione immediata dei saperi. Conoscenze che vengono date agli studenti, di cui possono fare un uso libero e imprevedibile, con importanti possibilità di soggettivazione e rielaborazione personale, al contrario delle “competenze” che invece rappresentano un punto di arrivo predeterminato, più simile all’addestramento che all’istruzione o all’educazione1. Una scuola che dà gli strumenti mentali per realizzare la propria identità di persona prima che di lavoratore. Una scuola che restituisce ai docenti ed agli alunni tutto il tempo necessario da dedicare all’approfondimento disciplinare ed alla relazione educativa. La scuola è il momento dello studio, non del lavoro.

ANP:
La scuola dei mezzi e dell’addestramento

• “…è necessario […] impostare metodi didattici non trasmissivi, flessibili e partecipati”;
• “…[una scuola] che ribalti le tradizionali modalità di approccio ai saperi investendo su impianti laboratoriali”;
• “…i cambiamenti degli orientamenti educativi […] generati dalla pervasività […] della tecnologia, […] dalle reti telematiche, impongono anche al nostro sistema di adeguare tendenze e indicazioni”;
• “…formazione [iniziale dei docenti] dedicata esclusivamente all’insegnamento”;
• “…[nel] curricolo inteso come […] unità di apprendimento autoconsistenti, […] le discipline sono strumenti, l’apprendimento procede per associazioni e i percorsi sono di natura partecipata e flessibile. Si valorizzano l’autonomia progettuale, […] la costruzione negoziata del significato, […] l’alternanza dei ruoli.”;
• “…sostenere l’autovalutazione come metodo prioritario per lo sviluppo cognitivo e relazionale degli alunni”;
• “…abrogare finalmente il valore legale del titolo di studio, residuo ormai anacronistico del sistema che non corrisponde più ai bisogni della società”;
• “…si tratta di valutare, in positivo, “ciò che si è acquisito” e non, in negativo, “ciò che non si è appreso” “.

Pur citando l’importanza della cultura, si torna immediatamente a parlare in maniera piuttosto compulsiva di innovazione, di “metodi innovativi”, di “nuovi bisogni formativi” e dell’ormai onnipresente “didattica laboratoriale”, assumendo acriticamente il “nuovo” come un valore assoluto. La formazione disciplinare del docente passa in secondo piano ed egli è ridotto al ruolo di addestratore da laboratorio. La complessità delle discipline, con tutto il loro valore storico, epistemologico e formativo, viene oscurata ed il sapere viene frantumato in brandelli a cui si riconosce il solo valore di un utilizzo pratico immediato, perfetta sintesi, questa, del paradigma aziendalista. Ad una scuola che non insegna più nulla di culturalmente significativo, che non ha quindi più nulla di culturalmente significativo da valutare, non resta che profilare gli alunni per il mercato del lavoro, per cui l’autovalutazione, l’abolizione del voto numerico e del valore legale del titolo di studio diventano obiettivi prioritari fatti passare però, per mezzi di realizzazione della “scuola democratica”.

AGORÀ 33:
La scuola dei fini e della cultura
L’ingombranza burocratica di certe metodologie, la loro invasività del già scarsissimo tempo scuola, l’ossessione del “fare” e il sovraccarico cognitivo2 di un uso acritico delle tecnologie impediscono il perseguimento dei veri fini della scuola, cioè le conoscenze, l’approfondimento, la rielaborazione, la critica, mediati dalla relazione docente-discente.
Tutte le rilevazioni statistiche hanno evidenziato che la DaD ha prodotto risultati disastrosi in termini di apprendimento, dimostrando che la tecnologia in sé non può sostituire la relazione umana.
La scuola deve salvaguardare la continuazione del patrimonio culturale dell’umanità, che è risorsa preziosa per la crescita culturale di tutti i cittadini e non mero strumento di produzione industriale o lavoro per pochi specialisti. La tanto criticata valutazione numerica, considerata ridicolmente come esercizio sadico di potere da parte del docente, ha invece un valore formativo molto maggiore della profilazione statica delle competenze e dei percorsi iperpersonalizzati, poiché offre una prospettiva di crescita libera da qualsiasi predeterminazione3.

ANP:
Gli alibi

• “…si tratta di […] rivedere i curricoli e i metodi e di tenere conto della contemporaneità e dei nuovi bisogni dell’umanità in termini di cooperazione, solidarietà, transizione ecologica ed economia circolare, inclusività, come ci ricordano […] l’Agenda Globale 2030 delle Nazioni Unite […]”;
• “I disastrosi eventi climatici, […] gli incendi e la siccità, ci impongono di impegnarci a formare, attraverso e “oltre” le discipline, nuove generazioni che possano “cambiare il passo” dello sviluppo tecnologico e salvaguardare le risorse del pianeta attraverso una gestione corretta del territorio”;
• “Ma per fare questo è necessario mettere in evidenza la trasversalità dei temi da sviluppare e impostare metodi didattici non trasmissivi, flessibili e partecipati”;
• “I due anni di pandemia […] ci hanno reso consapevoli […] che il sistema scolastico che conoscevamo non può più esistere come se nulla fosse accaduto”.

Le crisi climatica, ambientale e pandemica, l’Agenda Globale 2030 prese a pretesto per modificare i contenuti e i metodi didattici, senza alcuna connessione logica tra il problema e la soluzione. L’interdisciplinarità presa a pretesto per scagliarsi contro la trasmissione delle conoscenze e contro un presunto insegnamento non partecipato da parte degli alunni.

AGORÀ 33:
La realtà

Cosa c’entri l’abolizione delle discipline e la loro polverizzazione in “competenze” con la salvaguardia dell’ambiente, è un mistero. Sono proprio la distruzione della cultura e della conoscenza – precondizioni indispensabili per lo sviluppo del senso critico di fronte all’esistente – e la trasformazione delle nuove generazioni in consumatori inconsapevoli, così come l’opera degli ambienti confindustriali, che hanno favorito l’atteggiamento predatorio e l’indifferenza nei confronti degli ambienti naturali. Il vero obiettivo sembra quello di spazzare via la scuola dove si insegna e si impara e scardinare il sistema delle discipline, senza il quale la “trasversalità dei temi” fluttua nel vuoto e conduce all’ignoranza, se non addirittura a un nuovo analfabetismo.

ANP:
La scuola dei dirigenti e della disuguaglianza

• “riorganizzare la governance delle scuole, pensata in un’epoca ormai lontanissima e mai aggiornata alle necessità di efficienza del sistema; le competenze degli organi collegiali, disegnate agli inizi degli anni ‘70 dello scorso secolo e riproposte nel Testo Unico negli anni ‘90, non sono più in grado di garantire una gestione conforme alle riforme della pubblica amministrazione attuate con le norme successive”;
• “ripensare al sistema di reclutamento del personale dando alle scuole la possibilità di intervenire tempestivamente e con efficacia secondo il bisogno e secondo i propri progetti educativi”;
• ripensare l’organizzazione che dovrebbe rispondere a criteri di efficienza in nome del servizio agli studenti e che è invece piegata ad altri interessi (basti pensare alle logiche sottese alle graduatorie del personale, agli orari di servizio, alla divisione degli alunni in classi di età)”;
• “investire risorse in modo efficiente, partendo dalle richieste dei territori”;
• “personalizzare i curricoli secondo i bisogni formativi di ciascuno perseguendo, in tal modo, il fine dell’autonomia e di una scuola inclusiva”.

I dirigenti scolastici padroni delle scuole, equiparate agli uffici postali o alle sedi dell’INPS, infastiditi dagli organi collegiali e dalle norme nazionali. Dirigenti per i quali il reclutamento dei docenti basato sulle graduatorie dei concorsi, gli orari di servizio e la divisione degli alunni per classi di età sono intralci inaccettabili ma sono invece priorità le “richieste dei territori”, i “propri progetti educativi” e la “personalizzazione dei curricoli”, tutte funzionali all’asservimento delle scuole a dinamiche locali di natura economicistica.

AGORÀ 33:
La scuola democratica e dell’uguaglianza

La scuola veramente democratica, della Costituzione, in cui le norme nazionali e la comunità dei docenti orientano le scelte didattiche nell’interesse esclusivo degli alunni e garantiscono una scuola di qualità ed uguale per tutti i cittadini italiani. Non è pensabile che le opportunità di sviluppo culturale e di crescita umana di un alunno siano in alcun modo determinate o anche solo influenzate dalla realtà economica in cui vive. Il continuo riferimento alla “personalizzazione” dei curricoli (tra l’altro solo illusoria, visto il numero di studenti per classe) evoca una scuola che non dovrà più aprire orizzonti culturali nuovi e imprevedibili per gli studenti, in un vero universalismo democratico, ma dovrà lasciarli lì dove sono, con una rapida verniciatura di ‘competenze’ necessaria a farne al massimo degli esecutori.
A noi piace la concezione di scuola che fu di Pietro Calamandrei, ossia quella di “organo costituzionale” e di “organo centrale della democrazia”. A loro piace la concezione di scuola come serva dell’economia.

ANP:
La scuola a immagine e somiglianza della società

• “…una scuola che si colloca nella realtà, che supera la discrasia tra sé stessa e la comunità cui appartiene. Una scuola che smette di fare il contrario di quello che avviene nel mondo, come richiedere prestazioni solo individuali (mentre il lavoro all’esterno richiede attività di gruppo e condivisione); valorizzare prevalentemente il pensiero astratto e simbolico (mentre fuori ci si avvale di strumenti); insegnare conoscenze generali (mentre nelle attività esterne dominano competenze legate a situazioni concrete)”.

Una scuola totalmente appiattita sul modello di società imposto dall’economia e sulle sue richieste. Totalmente inutile, se non addirittura sconveniente, diventa quindi un’istruzione basata sulla varietà delle conoscenze e su un’impostazione critica verso la società esistente.

AGORÀ 33:
La scuola come baluardo critico verso la società

Per noi una scuola potenzialmente discrasica rispetto alla società, una scuola che concepisca e valuti un’azione contraria a quello che avviene nel mondo, è una scuola che assolve ad uno dei suoi compiti più alti. Il pensiero astratto e simbolico è l’espressione più alta dell’intelletto umano, ma evidentemente l’ANP ritiene più importante “l’uso di strumenti”. Si preferisce l’Homo habilis all’Homo sapiens.

Note:

  1. Malgioglio, L., Zammarelli, A., I voti, la scienza e l’ideologia, https://nostrascuola.blog/2022/10/14/i-voti-la-scienza-e-lideologia/.
  2. Calvani, A. (2013). Le TIC nella scuola: dieci raccomandazioni per i policy maker. Form@re – Open Journal Per La Formazione in Rete, 13(4), 30-46. https://doi.org/10.13128/formare-14227.
  3. Viero, D. (in press), Contro-voto, in “Clionet”, VII (2023).

Dovuto a Don Milani

Leggendo l’approfonditissimo saggio di Giovanni Carosotti, in tre parti, sulle strumentalizzazioni del pensiero di Don Milani

(https://www.lidentitadiclio.com/tra-anacronismo-e-attualita-don-milani-e-la-scuola-italiana-parte-1/

https://www.lidentitadiclio.com/tra-anacronismo-e-attualita-don-milani-e-la-scuola-italiana-parte-2/

https://www.lidentitadiclio.com/tra-anacronismo-e-attualita-don-milani-e-la-scuola-italiana-parte-3/)

appare chiaro che ci sono due modi per realizzare una scuola che non lasci indietro nessuno.

Il primo modo è quello del recupero continuo delle carenze degli ultimi attraverso un impegno anche economico, con investimenti massicci per una sostanziosa riduzione del numero di studenti per classe, che permetta un rapporto più diretto tra insegnanti e studenti; per corsi di recupero delle conoscenze di base, attività di sostegno allo studio e il tempo pieno; per corsi L2 dedicati agli studenti non madrelingua, insieme a una seria mediazione culturale; per sportelli d’ascolto psicologici che aiutino a portare alla luce le cause profonde della demotivazione allo studio e del disagio giovanile; per un serio e attento riorientamento a cura degli istituti scolastici. Questo consentirebbe di uscire in moltissimi casi dalla logica della bocciatura come soluzione, grazie al principio “se non sai qualcosa, faccio in modo di insegnartela”.

Il secondo modo è quello che, con l’alibi del non lasciare indietro nessuno, prevede che nelle scuole (pubbliche, ovviamente) si smetta di insegnare qualunque cosa, e agli studenti non si chieda di imparare più niente: in questo modo, di certo, nessuno resterà indietro, perché non ci sarà più nessuna conoscenza strutturata e progressiva rispetto alla quale sarà possibile rimanere indietro; con quale vantaggio per chi si adopera da decenni per distruggere ogni dimensione pubblica in settori cruciali del nostro Paese come la sanità e la scuola, in modo da sottometterli alla logica del profitto, è facile immaginarlo.

Ecco, il pensiero di Don Milani, orientato idealmente senza dubbio alla prima soluzione, quella dello sforzo democratico per dare alfabetizzazione, istruzione e cultura a tutti, è stato strumentalizzato e citato fuori contesto per giustificare la seconda, con mistificazioni recenti come quella delle “competenze non cognitive” e con tutta la retorica del passaggio dall’insegnamento all’ “apprendimento” autonomo, che significa lasciare i giovanissimi soli, esattamente lì dove sono (come ha messo bene in evidenza Gert Biesta in Riscoprire l’insegnamento, con la similitudine del robot aspirapolvere che si adatta “intelligentemente” all’ambiente senza avere mai un punto di vista esterno a sé che permetta di valutare criticamente la bontà di quell’ambiente: la logica delle “competenze”, appunto).

Chi ha compiuto e compie questa strumentalizzazione, per quanto insista a presentare se stesso come rappresentante del pensiero democratico e progressista, risulta del tutto funzionale allo smantellamento neoliberista della scuola pubblica, e non di rado è connivente con tale smantellamento. Non occorrono particolari capacità, infatti, per capire qual è la direzione del processo in corso: far tracollare la qualità dell’istruzione pubblica con “riforme” sempre più demenziali e una burocratizzazione soffocante, boicottare l’insegnamento e la relazione educativa, svuotare di sostanza e di contenuti culturali la scuola, abolire il valore legale del titolo di studio. A questo punto chi potrà manderà i figli a imparare davvero qualcosa nelle scuole private o all’estero; i figli degli altri, che non hanno alternative, verranno tenuti in classe a giocare col tablet e con lo smartphone, o davanti a computer e video nelle “classi aperte”, magari con tanto di belle programmazioni per “uda” trasversali e “certificazioni” ridotte sempre più a scatole vuote.

Contro-voto

Di Davide Viero*

Abstract

Questo scritto si propone di analizzare il tentativo, portato avanti da certa pedagogia attuale, di eliminare il voto a scuola. L’analisi che qui svolgerò sarà mediata dallo sguardo storico e relata a molteplici dimensioni, dal momento che quella del voto appare (la si vuole far apparire) come una questione isolata, quando invece si relaziona in modo duplice alla sovrastruttura: da un lato la rivela e dall’altro contribuisce a crearla. Considerare il voto come un mero elemento irrelato può indurre ad abbassare i livelli di guardia e ad agire inconsapevolmente, facendoci portatori inconsapevoli di ideologia.

This document aims to analyze the trend of eliminating school grades, followed by some of the current pedagogy. The analysis that I will carry out hereafter will be mediated by an historical perspective and it will be related to a multitude of dimensions, since grades appear as an isolated matter, when they are in fact related to the superstructure in two ways: on the one hand they reveal the superstructure and on the other hand they contribute to its creation. Considering the school grade as a mere unrelated element could lead to the lowering of alert levels and it could also lead us to act unknowingly, making us unaware bearers of ideology.

***

Novità o niente di nuovo sotto il sole? Un po’ di chiarezza

Assistiamo oggi, da parte di certa pedagogia, alla richiesta di abolizione del voto in tutti gli ordini di scuola. Tale proposta può spiazzare, presupponendo e producendo un’estremizzazione delle posizioni raramente corrispondente alla realtà, dal momento che nella concreta pratica didattica ogni voto viene spiegato dall’insegnante (evocativa l’immagine dello studente alla cattedra al momento della consegna delle verifiche); un’estremizzazione che può fare il gioco di chi la produce, dal momento che essa può far abbassare i livelli di guardia, ingenerando una balcanizzazione della didattica che finisce per favorire in modo strumentale le posizioni epocali, cioè la riproduzione statica dell’esistente.

La diatriba – sembrerebbe montata ad arte – contro il voto può rivelare qualcosa di più se affrontata attraverso due categorie, ben concettualizzate a partire da Windelband e utilizzate soprattutto dalle geografie umane negli anni ‘60-’70: ovvero quelle dell’approccio idiografico e dell’approccio nomotetico. Se si utilizzano queste due categorie, verrebbe da dire che non si riscontra nulla di nuovo sotto il sole.

L’abolizione del voto, infatti, sarebbe l’applicazione ideologica ed apodittica dell’approccio idiografico; ovvero un approccio attento alla singolarità dell’oggetto affrontato, su cui viene concentrata tutta l’attenzione. Diversamente, la valutazione attraverso l’approccio nomotetico fa riferimento ad uno scenario fisso, che sembrerebbe oscurare la singolarità, dato che fa riferimento ad un’unità di misura esterna ad essa.

Ma se vogliamo discriminare cosa è bene e cosa è male in educazione, non possiamo esimerci dallo scegliere, date la stessa natura e funzione dell’educativo, il criterio che privilegia la realizzazione degli strati di possibilità rispetto alla staticità.

Vediamo ora come l’approccio idiografico, pur attento al singolo, se applicato senza dialettica, può risultare statico e confermativo dello status quo.

E se consideriamo la funzione della scuola attuale, non possiamo non rilevare come essa sia confermativa e riproduttiva dell’esistente dominante di cui è al servizio; un esistente certo non identificabile con una concezione attenta agli emarginati, bensì alle oligarchie affermatesi (come confermano gli studi di C. Laval con P. Dardot, di T. Picketty, di M. Boarelli, di C. Boltanski con E. Chiappello, di L. Canfora e molti altri), dal momento che se salvezza dev’esserci, essa dipenderà dallo stesso emarginato, che dovrà identificarsi, anche attraverso la scuola, nella stessa ideologia che lo emargina, così da ottenere qualche briciola in più come royalty dello sfruttamento a cui si consegna, senza una reale trasformazione delle cause che generano le sue condizioni. L’innovazione concepita dai cantori futuristi della scuola trova giustificazione solamente contro quelle sacche non ancora rispondenti alla sua completa mondanizzazione. Anche l’abolizione del voto attraverso l’esclusivo approccio idiografico va in questa direzione, svelando la natura conservatrice di molta pedagogia che si definisce autarchicamente progressista nonostante sia fondata su assunti conservatori, quali sono quelli dell’Agenda 2030, del life long learning (o adattamento per tutta la vita, perché prevede sempre uno stato di minorità da colmare con l’adattamento e non attraverso una ricerca di trasformazione del contesto), delle Conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona del 2000, di una formazione che è profilazione ed individuazione secondo quelle che sono le esigenze della grande industria (PCTO e professionalizzazione scolastica in tutte le salse) e di un concetto di uomo come capitale umano da cui estrarre valore, dal momento che è affermata la centralità dell’economia -intesa in un certo modo – con tutto il resto che è strumentale ad essa. Insomma, di una scuola che identifica aprioristicamente il bene del singolo non nella sua piena realizzazione, ovvero in quell’utopia concreta e aperta al «non ancora» (E. Bloch) che è la «coincidenza di essenza ed esistenza» (E. Bloch), ma nella adesione a un bene che è stato dislocato al di fuori di questo soggetto dinamico e collocato nel modello di chi detiene il potere. Infatti, se la valutazione viene assimilata ad una mera descrizione di un livello raggiunto, essa sarà una fotografia senza vita dello status quo; di come il soggetto, così individuato, è (tralasciando, ça va san dire, la soggettività e la parzialità di qualunque descrizione), con pochi riferimenti agli strati di possibilità non compiute presenti in lui. Inoltre, tale approccio privilegia una dimensione solipsistica ed individualistica, dal momento che, al di fuori dell’individuo così fotografato, non esiste altro, essendo questo individuo del tutto irrelato.

Diversamente, un approccio nomotetico alla valutazione dà delle possibilità di confronto, perché se uno studente prende un voto (che non sia 10), ciò significa che si è posizionato a quel livello su di una scala che ne prevedeva anche di più elevati e che è possibile raggiungerli. Nello stesso momento in cui il voto “arresta” la soggettività, esso ne indica anche una possibilità di raffinazione e perfezionamento. Inoltre il voto, essendo altro rispetto al soggetto al quale è attribuito, apre una dialettica che può esser volta al costruttivo, come ad esempio il confronto con i pari in ottica propositiva o ad una mancanza rispetto a una potenzialità, a un errore che poteva essere evitato, rispetto allo studio.

Essendo l’educativo parte della sfera umana, l’approccio dialettico è quello più sensibile al mutarsi della vita che vive. Perciò si tratta di unire ed equilibrare gli aspetti del nomotetico a quelli dell’idiografico: un voto spiegato, che dica delle mancanze o delle peculiarità, va in questa direzione. Realizzando ciò si è sensibili sia verso la singolarità dello studente, sia verso gli strati di possibilità che possono apparire materialmente attraverso questo tipo di valutazione integrata.

Le peculiarità della scuola primaria

Coerentemente ad una concezione non dogmatica della valutazione quale quella qui affermata, è importante considerare le peculiarità delle diverse età degli scolari ed attivare un tipo di valutazione ad esse adeguata e trasformativa. Oggi purtroppo constatiamo che la valutazione della primaria ha subito una “secondarizzazione”, ovvero si è assistito ad una sempre maggiore oggettività e rigidità valutative, ad esempio con l’introduzione dei voti numerici, proprio quando le metodologie propalate dai pedagogisti, quasi per contrappasso, producono un certo lassismo nel trattare i contenuti, abbassando sensibilmente gli obiettivi e con essi i risultati. Si è così assistito a un predominare della forma sulla sostanza, di cui si iniziano a vedere i risultati non solo nelle classifiche internazionali stilate da organizzazioni di diritto privato, bensì soprattutto da parte di chi in classe lavora e riscontra sempre più evidenti difficoltà nell’ortografia, nella comprensione di un testo, nel risolvere problemi e nelle conoscenze storiche e geografiche. Un calo accresciuto anche a seguito dell’autonomia scolastica e dello smantellamento dei Programmi nazionali, come ben osserva L. Varaldo. La bilancia si è dunque spostata sull’asse della valutazione a scapito delle conoscenze e dei contenuti da apprendere, una frattura e una distanza tra queste due dimensioni che sono molto evidenti in certi documenti di valutazione della Primaria, dove compaiono obiettivi che neanche un adulto riuscirebbe ad ottenere, unitamente al fatto che il singolo insegnante è espropriato della valutazione in solido che per legge fa parte dei suoi doveri professionali, dato che le pagelle sono compilate scegliendo con un click frasi da apporre in forma paratattica estrapolate da un frasario prestabilito dagli stessi Collegi docenti; pagelle che dicono poco del singolo alunno, dato che in 3-4 modelli si fanno rientrare tutti gli alunni della classe. Una valutazione che sovente è prodotta con strumenti, quali griglie ed obiettivi, che non vengono costruiti, ma solamente usati dai docenti, in quanto forniti già pronti e adottati da una forma di collegialità a cui è difficile sottrarsi e che ha connotati restringenti la libertà di insegnamento affermata costituzionalmente. Lo spostamento di asse e della rilevanza acquisita dalla valutazione a scapito di tutto il resto, è evidente dal fatto che alla Primaria molto spesso si scrivono sul diario con solennità le date delle verifiche e delle interrogazioni, nelle quali si è sovente chiamati a rispondere alla cattedra e che molte volte sono vissute in modo non adeguato all’età. Fino agli anni ‘90 non è mai stato così, se non in rari casi. Quindi la proposta degli aedi della valutazione innovativa sarebbe, per la Primaria, un ritorno al passato, nel quale si valutava lo stesso ma in modo molto meno rigido, astratto e formalizzato.

Ritengo sia importante distinguere la valutazione in relazione all’età. Infatti alla Primaria si ha a che fare con bambini molto in divenire e soprattutto con poche strutture di personalità nelle quali radicare il cambiamento; strutture che solo una volta formatesi, seppur embrionalmente, rendono possibile, senza traumi, una proficua dialettica con una valutazione esterna. Senza queste strutture di personalità il voto è sbilanciato sull’esterno, quale può essere il contenuto disciplinare, che può risultare soffocante perché non corrispondente ad un interno già strutturato. Molto meglio allora, a quest’età, attivare una valutazione centrata sulla soggettività, così che, attraverso l’apprendimento degli elementi di base del sapere, si possa contribuire a formare una struttura di personalità che solo poi sarà in grado di raffrontarsi con il voto, centrato sui contenuti esterni. Contenuti che a loro volta mediano e contribuiscono a rendere concrete le possibilità non ancora realizzatesi di ciascuno.

Bibliografia essenziale

E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano, 2015.

E. Bloch, Spirito dell’utopia, Rizzoli, Milano, 2010.

E. Bloch, Tracce, Garzanti, Milano, 2019.

C. Boltanski, E. Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine, 2014.

M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, Roma-Bari, 2019.

L. Canfora, La democrazia dei signori, Laterza, Roma-Bari, 2022.

P. Dardot. C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma, 2019

 P. Dardot, C. Laval Guerra alla democrazia, DeriveApprodi, Roma, 2016.L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.

T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2016

L. Varaldo, La scuola rovesciata, ETS, Pisa, 2016.

*Davide Viero, nato in provincia di Vicenza nel 1980, è insegnante di sostegno nella scuola primaria. Autore di vari scritti ed interventi sulla scuola e del saggio La scuola del macchinismo. Passaggi per un’altra antropologia, Mimesis, Milano-Udine, 2020.

I voti, la scienza e l’ideologia

Di Luca Malgioglio (insegnante), Alessandro Zammarelli (psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista – Società Italiana di Psicoanalisi Relazionale)

Chi afferma apoditticamente che il voto, di suo, scoraggia l’apprendimento, senza tenere conto del fatto che le persone in crescita reagiscono in modo diverso a ciò che succede loro a seconda dell’età e del vissuto personale, dice una para-verità indimostrata e indimostrabile e sembra avere conoscenze molto superficiali di psicologia dell’età evolutiva.

Il voto serve, se chi lo riceve può comprenderne le motivazioni. È chiaro che i bambini della primaria, ad esempio, la cui personalità è ancora in formazione, e la cui struttura narcisistica è ancora in evoluzione, potrebbero avere difficoltà a metabolizzare psichicamente un voto negativo, con il rischio di una mancata elaborazione mentale. Meglio in questo caso una spiegazione personalizzata (che deve comunque esserci in tutte le età, sia rispetto a giudizi descrittivi, sia rispetto ai voti). Non servono a nulla, perché non dicono nulla né agli alunni né alle famiglie, griglie tecniche descrittive che possono giovare al massimo agli addetti ai lavori, per comunicare tra loro. Tali griglie, al di fuori della cerchia degli esperti, appaiono a tutti gli altri protagonisti della scuola come delle accozzaglie di definizioni incomprensibili o, peggio, fraintendibili (capacità e “competenze” cui vengono schematicamente assegnati i livelli “base”, “intermedio”, “avanzato”, “in via di acquisizione”, ecc): lo studente è assente nella sua individualità e unicità mentre ai genitori non può che rimanere la preoccupazione per qualcosa che non comprendono e che leggono come una fredda diagnosi, rimanendo in dubbio circa la sua stessa positività o negatività. I bambini poi – questo dovrebbe essere chiaro a tutti – hanno un grande bisogno di sentire parole rivolte solo ed esclusivamente a loro (in questo, ovviamente, la spiegazione anche orale è insostituibile): al di là della questione del voto, è l’attenzione personalizzata che i bambini cercano dagli adulti; definizioni grigiamente burocratiche e standardizzate per loro sono totalmente inutili. E si scorge dietro l’angolo un certo rischio di omologazione, d’altra parte sottostante a tutta la retorica delle “competenze”: delle conoscenze che vengono date loro gli studenti possono fare un uso libero e imprevedibile, con importanti possibilità di soggettivazione e rielaborazione personale; le “competenze” invece rappresentano un punto di arrivo predeterminato, più simile all’addestramento che all’istruzione o all’educazione.

Per tornare alla questione dei voti: abbiamo fatto cenno alla scuola primaria, e alla necessità di evitare voti e giudizi poco compatibili con una personalità ancora in formazione. Voler riproporre le stesse considerazioni per tutte le fasce d’età e voler estendere frettolosamente la già problematica e caotica abolizione dei voti della primaria a tutti gli ordini di scuola, affermando recisamente che i voti, di loro, “scoraggiano l’apprendimento” (affermazione smentita da innumerevoli esperienze di studenti, insegnanti e famiglie), significa compiere un’operazione molto grossolana, ai limiti della mistificazione.

È infatti grave che questa presunta verità – i voti scoraggiano o addirittura “bloccano” l’apprendimento – venga fatta passare non come opinione personale (a modo suo legittima), corrispondente a una posizione ideologica o a certi interessi pratici, ma come una certezza risultante da una ricerca scientifica. Le sperimentazioni scientifiche, come si sa, richiedono tempi lunghi e una grandissima accortezza nella raccolta dei dati (che facilmente dicono quello che si vuol far dire loro), così come nelle interpretazioni che se ne danno, e hanno bisogno di tenere conto di un’infinità di variabili (compresi in questo ambito la specificità del contesto educativo e la qualità della relazione), tanto più per ciò che riguarda esseri umani tutti diversi tra loro, come accade nel campo dell’educazione. Ma da chi fa affermazioni apodittiche sull’inutilità o la dannosità del voto è stato svolto davvero un lavoro di questo tipo? O si è andato a cercare, in limitatissime “sperimentazioni” e con un accurato cherry-picking tra la sconfinata letteratura pedagogica e docimologica, proprio quello che si voleva “dimostrare” a tutti i costi?


D’altra parte, gli “sperimentatori” evitano accuratamente di prendere in considerazione dati di realtà come lo sconcerto di famiglie, studenti e docenti di fronte alle descrizioni standardizzate e incomprensibili elaborate per la scuola primaria; o meglio, attribuiscono questo smarrimento non all’astrusità di descrizioni che dicono senza dire e non comunicano nulla, ma alla mancanza di abitudine e cultura pedagogica di chi legge, con uno strano rovesciamento tra cause ed effetti, che permette di giustificare qualunque imposizione dannosa o controproducente in nome di una “scienza” che non esiste.

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Scendiano allora nel merito delle questioni. La volontà di assegnare i voti, in certi ragionamenti, viene ricondotta a una sorta di sadismo e di desiderio di potere da parte degli insegnanti; addirittura le viene attribuita una connotazione politica negativa, con un salto logico che scambia (o finge di scambiare) la chiarezza per autoritarismo; autoritarismo che non passa certo per il voto in sé, ma semmai per il rifiuto di spiegarlo, come in certe posizioni realmente autoritarie e conservatrici, tutt’altro che rare proprio negli ambienti accademici che propongono queste teorie.

In realtà se gli insegnanti ritengono importante poter assegnare dei voti, che devono essere assolutamente motivati e SEMPRE accompagnati da una spiegazione, nell’ambito di una relazione educativa fatta di comunicazione e di ascolto, in vista di un miglioramento delle conoscenze e delle abilità, è perché con gli studenti trascorrono buona parte del loro tempo e li conoscono: ne conoscono ad esempio il bisogno di raggiungere obiettivi concreti (non in termini di competizione ma in termini di risposta visibile a quello che fanno) e soprattutto il bisogno di chiarezza, vero appiglio in età come la pubertà e l’adolescenza in cui spesso prevalgono l’insicurezza e lo smarrimento, e in cui la confusione può essere intollerabile. Ecco, una descrizione che non sia mai accompagnata dalla chiarezza di un voto può creare negli studenti una certa difficoltà a sintetizzare in un simbolo delle vicissitudini scolastiche complesse, come complessa è la loro identità, e un disorientamento senza appigli che non ha niente di evolutivo, mentre semmai appaga un certo pensiero pedagogico che si pone solo dal punto di vista degli adulti, senza tenere in conto la specificità dei bisogni delle persone in crescita.

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Su questo, si può anche aggiungere quanto fa notare Davide Viero, insegnante e saggista (La scuola del macchinismo. Passaggi per un’altra antropologia, Milano-Udine, Mimesis, 2020) in un articolo in corso di pubblicazione sull’argomento: “Se la valutazione viene assimilata ad una mera descrizione di un livello raggiunto (concezione idiografica), essa sarà una fotografia senza vita dello status quo. Di come il soggetto, così individuato, è (tralasciando, ça va sans dire, la soggettività e la parzialità di qualunque descrizione), con pochi riferimenti agli strati di possibilità non compiute presenti in lui. Inoltre, tale approccio privilegia una dimensione solipsista ed individualista dal momento che, al di fuori dell’individuo così fotografato non esiste altro, essendo questo individuo del tutto irrelato.
Diversamente, una valutazione di impronta nomotetica dà delle possibilità di confronto: se uno studente prende un voto, significa che si è posizionato a quel livello su di una scala che ne prevedeva anche di più elevati e che è possibile raggiungerli. Nello stesso momento in cui il voto “arresta” la soggettività, esso ne indica anche una possibilità di raffinazione e perfezionamento. Inoltre il voto, essendo altro rispetto al soggetto al quale è attribuito, apre una dialettica che può essere costruttiva”.


Riflessione prossima al pensiero di Biesta, che mostra come compito essenziale dell’insegnamento sia quello di portare lo studente al di fuori di ciò che già è, non quello di confermarlo nella condizione attuale: “Diremo che l’insegnamento come dissenso consiste nel rifiuto di accettare qualsiasi pretesa di incompetenza, in particolare se proviene dallo studente; l’insegnamento come dissenso si esplicita pertanto in un appello a un futuro modo di esistere dello studente, un modo di esistere ancora imprevedibile, sia dal punto di vista dell’educatore sia da quello dello studente. […] Ritengo che una qualsiasi posizione meno ambiziosa – qualsiasi progetto educativo che proceda solo sulla base di ciò che è possibile, è visibile, di cui abbiamo prove – corra il rischio di ostacolare questo futuro” (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022, pp.13-14).

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Occorrerebbe anche aprire una parentesi sui reali obiettivi, extra-educativi ed extra-didattici, di alcuni sostenitori dell’abolizione del voto, che per singolare combinazione sono anche dei grandi sostenitori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.
A questo proposito e non a caso, coloro che chiedono in buona fede la sostituzione del voto con descrizioni dei punti di forza e di debolezza nelle valutazioni intermedie, fanno poi fatica a trovare ipotetiche modalità di passaggio da tali descrizioni a delle valutazioni finali che devono essere comunque numeriche e quantificabili, se si vuole preservare il valore legale del titolo di studio. Nessuno finora, ci pare, ha saputo spiegare chiaramente perché, ad esempio, attribuire una valutazione numerica negativa solo a fine percorso, e non anche in itinere, quando ci sono ampi spazi per il recupero di conoscenze e abilità fondamentali, sarebbe utile e vantaggioso per gli studenti. A meno che, appunto, non si pensi di eliminare progressivamente tutti i voti e per questa via il valore legale del titolo di studio nella scuola pubblica, senza dirlo esplicitamente e mettendo tutti di fronte al fatto compiuto al momento opportuno. Quale sarebbe l’effetto di questa abolizione, in termini di regresso sociale, di spinta alla privatizzazione dell’istruzione di qualità e di classismo anticostituzionale, ognuno può capirlo da sé.