“Buonisti” e “rigoristi”

La categoria degli insegnanti è evidentemente molto debole, sostanzialmente incapace di opporsi a qualunque cosa  – dalle deliranti riforme che hanno devastato la scuola negli ultimi vent’anni, alla burocratizzazione soffocante, alle chiacchiere in didattichese che prendono il posto di qualunque autentico contenuto culturale e persino a un’enormità come la minaccia della regionalizzazione [e oggi alla deriva iper-tecnologica che trasforma la tecnologia da mezzo in fine che sostituisce lo stesso rapporto umano] – ; incapace anche di far valere la forza del numero, come invece riescono a fare categorie numericamente molto meno ‘pesanti’ della nostra.

Il paradosso è che altre categorie, specie quelle privilegiate e influenti, alzando la voce ben oltre la loro effettiva consistenza, riescono a imporre alla collettività delle scelte a volte corporativistiche e del tutto contrarie all’interesse generale; gli insegnanti, invece, che lavorano per il futuro e il bene della società tutta, non riescono mai a far sentire davvero la loro voce. Per non spingere l’analisi troppo in là, si potrebbe dire che questa debolezza dipenda tra le altre cose dalle divisioni che attraversano la classe docente; alcune di queste divisioni sono di ordine pratico, e riguardano interessi contingenti: ad esempio la lotta per far prevalere una modalità di reclutamento rispetto a un’altra; lotte che nella loro comprensibile urgenza fanno dimenticare che una modalità unica, chiara e culturalmente motivata di reclutamento, basata su capacità e preparazione, rappresenterebbe una garanzia per tutti. Queste divisioni, certamente, vengono incoraggiate ad arte da chi vuole indebolire ulteriormente la nostra categoria, secondo il principio del dìvide et impera.

Vi sono poi divisioni ‘culturali’, che riguardano l’interpretazione da dare al nostro lavoro, il senso che gli attribuiamo; e qui sembra che ci si divida soprattutto tra “buonisti” e “rigoristi”, secondo una polarizzazione che, a ben vedere, non dovrebbe neppure esistere. Cominciamo col dire che i due tipi spesso si accusano a vicenda (pensiamo ad esempio a cosa accade durante gli scrutini) di essere la rovina della scuola: i ‘rigoristi’ accusano i buonisti di mammismo, di giustificazionismo, di “psicologismo” (che è tale in realtà in assenza di un autentico approfondimento psicologico), di squalifica della funzione culturale della scuola e della professionalità dell’insegnante; i buonisti a loro volta accusano gli altri di essere freddi, non empatici, incapaci di entrare in relazione con i ragazzi, di essere disinteressati ai vissuti interiori dei propri studenti e anche per questo incapaci di coinvolgerli integralmente e di aiutarli a crescere.

Probabilmente questa divisione, è alimentata dal fatto che gli uni e gli altri vedono soltanto il lato peggiore della controparte: dietro il ‘buonismo’, certo, può nascondersi anche un sostanziale disinteresse per ciò che gli studenti imparano davvero o il rifiuto di assumere in pieno il proprio ruolo e di prendersi la responsabilità adulta di istruire ed educare; chi è ingessato nel proprio ruolo di docente tutto di un pezzo, a sua volta, può mascherare con la necessità di mantenere le distanze una profonda paura della relazione e un profondo turbamento di fronte a persone in crescita, con le loro necessità affettive e le loro grandi inquietudini. Sarebbe molto diverso se ognuno dei due ‘tipi’ riconoscesse invece le istanze positive che ci sono in chi è diverso da sé e cercasse di farle proprie, in vista di una relazione educativa più completa: a ben vedere, la necessità di far rispettare le regole, di ribadire la serietà della scuola e di ‘costringere’ gli studenti a essere preparati nelle diverse discipline e quella di una comprensione profonda del loro essere e di un rapporto umano affettuoso e costruttivo non sono affatto alternative, ma complementari; basti pensare, tra le altre cose, che far rispettare delle regole motivate corrisponde esattamente a un bisogno profondo, anche se inespresso e mascherato, di moltissimi studenti, spesso disorientati proprio dall’indifferenza e dalla mancanza di limiti posti dagli adulti. 

La sollecitudine per la crescita umana degli studenti e la richiesta della loro effettiva preparazione disciplinare, insomma, non possono che essere due facce della stessa medaglia, basate entrambe sulla centralità della parola e della relazione: l’apertura di contenuti culturali profondi e il lavoro sulle conoscenze richiedono un autentico rapporto umano e, viceversa, il rapporto tra insegnante e studente non può che passare in maniera prioritaria attraverso la condivisione dei contenuti disciplinari, la quale veicola, in sé e nelle modalità con cui si realizza, anche numerose istanze educative.

Un insegnante che senta di essere, al tempo stesso, un intellettuale che ha da offrire agli studenti dei preziosi strumenti culturali – sui quali essi possano misurare e far crescere la propria esperienza della realtà – e un educatore affettuoso (di un affetto che non è accondiscendenza ma fare il vero bene di chi si ha di fronte), ricomporrebbe dentro di sé questa divisione che non ha motivo di essere e sarebbe senz’altro più felice e soddisfatto del proprio lavoro; ed anche la compattezza della categoria ne beneficerebbe in positivo.

Articolo pubblicato il 16/5/2019 su Professione insegnante

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