
Sarebbe bello contro-analizzare tutto il documento del gruppo ‘Condorcet’ (sì, quello di Marco Campione), che ‘critica’ il Manifesto per la nuova Scuola, ma non si può chiedere troppo al proprio masochismo; mi limito a due lacerti iniziali:
Come Gruppo Condorcet non abbiamo dubbi che le personalità qui citate abbiano letto, riflettuto e condiviso la semantica e i nessi conseguenti di questo manifesto, ma forse non hanno colto a fondo la logica generatrice dell’appello che, invece è tanto appariscente quanto implicitamente retriva. In buona sostanza, come in questo caso “la nuova scuola” è assai vecchia e occorre sostenerla in evoluzioni “evidence based”, invece di ancorarla ad idee morte e sepolte”.
Da notare la sintassi involuta e il lessico approssimativo (“le personalità qui citate abbiano letto, riflettuto e condiviso la semantica…), da lettori appassionati di circolari più che di libri, compensati però da una sicura padronanza (“evidence based”) della lingua inglese. Soprattutto, stupisce il fatto che i membri del gruppo “Condorcet” siano così sicuri di avere capacità di comprensione superiori a quelle dei firmatari (Canfora, Barbero, Ginzburg, Prosperi, Settis, Zagrebelsky…) che, a differenza loro, non avrebbero capito “la logica generatrice dell’appello”. Insomma, un incipit di straordinaria involontaria comicità. Ma ecco spiegata anche a noi la “logica generatrice” del nostro appello:
Ogni persona è unica. Le persone non sono riconducibili ad una serie di competenze, come non sono riconducibili ad una serie di conoscenze [splendida regressione all’infanzia: siccome nel manifesto avevamo scritto che le persone non sono riconducibili a una serie di competenze, ecco che viene subito precisato che non sono riconducibili nemmeno a una serie di conoscenze. Manca solo la linguaccia]. Tutto ciò che viene detto nel “Manifesto” sull’umanità [?] del processo di insegnamento-apprendimento è condivisibile, ma l’alternativa storica alla “scuola delle competenze” è la “scuola delle conoscenze” e, spesso, le conoscenze sono intese in senso restrittivo e in falsa opposizione alle prime contro le quali si sono schierate orde [!!!] di pedagogisti di ogni orientamento [???] stigmatizzando la questione [la questione? Si può stigmatizzare una questione? E “la questione” è “scuola nozionistica”?] come “scuola nozionistica”. Di fatto, la lotta contro le competenze tende a ripristinare “la vecchia buona scuola”, quella che nessuno ha mai frequentato perché se si pensa al secolo scorso, negli anni venti era selettiva, negli anni trenta era razzista, negli anni quaranta era bombardata, negli anni cinquanta e sessanta è tornata ad essere selettiva e negli anni settanta e ottanta ha iniziato a diventare “scuola di massa” ed ha cominciato faticosamente ad evolvere nel senso dell’inclusione (dei disabili, degli stranieri, degli italiani studenti e delle studentesse con disturbi specifici di apprendimento o con bisogni educativi speciali) [grande scorcio storico che ha il torto di essere – diciamo così – un po’ approssimativo e di mescolare cose che non c’entrano nulla l’una con l’altra]. Vale la pena ricordare che la Generazione X frequentava le scuole superiori al 50% della popolazione, mentre oggi arriviamo a percentuali stabilmente sopra il 95%. Forse non piace la scuola di massa [???], ma è quella che include tutti e vorremmo che ci si interrogasse su come fare in modo che inclusiva lo sia per davvero perché “la Repubblica rimuove gli ostacoli”, ma la nostra società subisce alti tassi di dispersione di cui molti parlano, ma di cui pochi propongono e promuovono soluzioni [al terzo “ma” chiunque si arrenderebbe].
Più in generale occorre osservare il fatto che negli anni cinquanta, sessanta e settanta del secolo scorso, la gran parte degli scolari italiani acquisiva certe competenze a casa, dove si imparava a fare il contadino, il muratore o l’artigiano, mentre a scuola si imparava a “leggere, scrivere e far di conto”, ma anche a vedere le cose dall’alto [???]. Oggi, in una demografia [sic] quasi completamente inurbata, le competenze offerte dalla società moderna sono modeste (anche quelle digitali sono “di uso” non di progettazione), spesso solo quelle di ambito sportivo che daranno il pane [sic] a qualche fortunato e bravo calciatore, ma non a tutti. Se un tempo la scuola doveva razionalizzare [???] per compensare l’ignoranza diffusa, oggi deve industriarsi per fornire delle competenze perché con quelle si lavora e si mantiene una famiglia. Spiace osservare che non tutti hanno un mestiere ereditato dai genitori [e qui qualunque commento sarebbe crudele] e che molti hanno bisogno di competenze come il pane. Perché con queste si guadagneranno il pane [Fantastico il richiamo pietistico-deamicisiano per giustificare la volontà di lasciare quelli che devono “guadagnarsi il pane” nell’ignoranza di non meglio precisate “competenze”, a fare gli schiavi inconsapevoli e sottopagati, mentre i figli di chi può permetterselo – dopo lo smantellamento della scuola pubblica di qualità – impareranno a leggere e a scrivere, acquisiranno conoscenze approfondite e faranno il lavoro che più gli aggrada. Alla faccia dell’ “ascensore sociale” che la scuola dovrebbe rappresentare. D’altra parte, un renziano è per sempre].
Ma ad alcune lobby [no, non possono averlo scritto] interessa ripristinare l’idea di scuola che ha frequentato [come faccia una lobby a frequentare un’ “idea di scuola” è un mistero; soprattutto, sarebbe bello vedere un verbo concordato con il suo soggetto: che so, singolare con singolare, plurale con plurale. Infine, è incredibile che persone con con evidenti agganci politici, che spiegano senza ridere come nei documenti ministeriali ci sia più pedagogia che nel nostro manifesto, diano dei lobbisti a dei poveretti come noi, che siamo soli con le nostre idee] e che ha superato brillantemente, quella dei licei che hanno dato respiro, troppo spesso grazie al capitale sociale e familiare, alle proprie carriere, dimenticando i dispersi [sic: a quando il ritorno dalla campagna di Russia?]. Parlare di NEET è scomodo perché mette in discussione la scuola della lezione frontale [chi scrive questa roba sconclusionata evidentemente non sa che gli studenti temono come la morte i momenti di “didattica innovativa”, durante i quali entrano in uno stato di noia metafisica, perché si accorgono – loro sì – che l’insegnante non è minimamente attento a loro come persone né è appassionato di ciò che insegna, ma è concentrato unicamente sui mezzi, che diventano fini a se stessi].
Insomma, un’accozzaglia di cose di cui sfuggono il senso e la coerenza (anche se il filo conduttore è sempre quello: la volontà di sottrarre spessore culturale ed educativo alla scuola di tutti), scritte con molto sussiego da qualcuno che sembra avere qualche difficoltà con l’uso della lingua. Il nostro manifesto, che vuole che la scuola pubblica svolga il ruolo che le è assegnato dalla Costituzione, quello cioè di favorire l’emancipazione di tutti i futuri cittadini attraverso l’istruzione, è tacciato di essere classista e poco attento agli ultimi da chi, appunto, vuole smantellarla. Incredibile spudoratezza, sì.
Un’ultima chicca sul principio costituzionale della libertà di insegnamento, considerato nel documento Condorcet “un diritto costituzionale erede di una comprensibilissima e storica iper reazione al fascismo“. E infatti, “paradossalmente, di conseguenza, per ottenere uno spettro più ampio di didattiche nella scuola, occorrerebbe abolire la libertà di insegnamento“. Perfetto, ecco a cosa puntano quelli che vogliono un insegnante-esecutore degli ordini del primo portaborse ministeriale che passi.
L’interpretazione della libertà di insegnamento (considerata nient’altro che “un’ iper-reazione” dei padri costituenti al fascismo) rivela tutta l’incomprensione del senso della scuola da parte dei redattori di Condorcet: qualcuno dovrebbe spiegare loro che la libertà di insegnamento non è una garanzia di ‘impunità’ corporativista dei detestati insegnanti, chiusi nel loro ‘narcisismo’; è invece la libertà artigianale di adattare ciò che si vuole insegnare alla classe e alla situazione, con una pluralità di metodi, strumenti e approcci, con la garanzia di mantenere la centralità culturale ed educativa di ciò che si insegna, senza essere imprigionati da mode didattiche o da totalitarismi metodologici che riducono l’insegnante a un applicatore di ‘tecniche’ standardizzate, magari adottate per motivi – diciamo così – extra-culturali ed extra-didattici (e incredibile e paradossale è anche l’accusa a chi difende la libertà di insegnamento di non volere la professionalizzazione degli insegnanti, che sarebbe invece garantita dalla loro riduzione a esecutori passivi di metodi imposti loro dall’alto prima ancora che abbiano qualunque contenuto culturale da proporre).
Questo, purtroppo, è ciò che succede quando a parlare di scuola sono persone che esprimono posizioni astratte e ideologiche, senza sapere molto della concretezza dell’insegnamento e di quello che accade davvero in classe.
Manifesto per la nuova Scuola