Probabilità e mistificazioni

I

Da molto tempo autorevoli esperti e istituzioni nazionali e internazionali hanno lanciato l’allarme sulle conseguenze negative dell’iperconnessione e di un uso eccessivo di alcuni strumenti tecnologici sulle capacità cognitive e la crescita emotiva dei giovanissimi.

Ultimamente però stanno spuntando anche delle “controincheste” in cui si afferma, in buona sostanza, che attorno a smartphone e simili ci sarebbe un eccessivo allarmismo e che i danni di cui si parla sarebbero più un timore adulto di fronte al nuovo che un’effettiva realtà, la diffidenza dei “boomer” verso le inedite modalità relazionali e comunicative di bambini e adolescenti, la riedizione dell’eterna scontentezza dei vecchi nei confronti dei giovani. Problema risolto, insomma… Peccato che in questi discorsi ci si dimentichi di qualche dettaglio.

Intanto andrebbe spiegato che nuove tecnologie, social, strumenti digitali, espedienti psicologici che li rendono attraenti e strategie pubblicitarie che servono a commercializzarli sono produzioni degli adulti, rispetto ai quali i giovanissimi – tutt’altro che protagonisti – rappresentano esclusivamente un target, dei potenziali clienti, un mercato. Chiaramente nessuna strategia pubblicitaria o meccanismo cattura-attenzione potrebbe rendere dipendenti le persone se non si impiantasse a sua volta su un vuoto di affetti, di pensiero, di prospettive, di attenzione e sollecitudine adulta nei confronti dei giovanissimi.

Proviamo a guardare la cosa da questo punto di vista, prendendo come cartina di tornasole la scuola, ultimo luogo in cui i giovani sono considerati persone che vanno aiutate a crescere e non clienti o “capitale umano”. Da una parte ci sono degli immensi interessi economici a trasformare sempre più precocemente i giovanissimi in utenti fidelizzati completamente dipendenti da certi strumenti, dall’altra degli insegnanti che con grande preoccupazione toccano con mano tutti i giorni le conseguenze dell’abuso di questi stessi strumenti su capacità e conoscenze degli studenti (per dare un esempio davvero semplicistico e banale ma forse efficace, basterebbe evocare l’immagine dello studente che non riesce a stare sveglio in classe perché ha passato buona parte della notte sui social).

Lasciando stare per un momento gli studi contrapposti, naturalmente scientifici e sempre definitivi (tanto quello che serve a darsi ragione in questo campo, come in tutte le scienze umane, si trova sempre, se uno ha il tempo e la giusta abilità nel fare cherry-picking), dimenticando anche il fatto che la numerosità e l’attendibilità degli studi sui pericoli di un certo uso del digitale suggerirebbero quanto meno l’adozione di un principio di precauzione, bisognerebbe porre una domanda di buon senso: da quale direzione è più probabile che arrivino le mistificazioni? Dal lato degli immensi interessi economici – e, guarda caso, poi scopri che dietro molte nuove “ricerche” trasudanti ottimismo ci sono le aziende del digitale – o da quello degli insegnanti che non hanno niente da perdere o da guadagnare, se non il futuro dei propri studenti?

II

Corsi di formazione per insegnanti – certamente ben retribuiti – il cui unico contenuto è che non bisogna insegnare e non bisogna dare voti.

La maggior parte degli aspiranti insegnanti è costretta a sottomettersi a questo supplizio per poter lavorare a scuola; e mentre in questi corsi si blatera in astratto di un’unidirezionalità trasmissiva inesistente in una relazione scolastica asimmetrica ma reciproca e si travisa completamente il significato dei processi di conoscenza, equiparati senza se e senza ma al “nozionismo”, si impedisce ai partecipanti – grazie alla vera unidirezionalità dell’online – di replicare alle bestialità dette dai “formatori”.

III

Il nostro lavoro è fatto per metà di preparazione culturale, per l’altra metà di relazione. Il che significa che la “formazione” propinata ai nuovi insegnanti o in corsi di vario genere – basata su prediche astratte riguardanti le “competenze in azione”, l’inutilità della “lezione frontale”, l’ “iceberg delle competenze” e simili – è del tutto inutile o dannosa.

La cultura e la capacità di relazionarsi con le persone in crescita richiedono tempo ed esperienza; e, duole dirlo, oltre a mancare spesso sia di cultura che di capacità relazionali, la maggior parte dei “formatori” non ha nel proprio orizzonte mentale né il tempo né l’esperienza, visto che ha per ‘mission’ la vendita di ricette preconfezionate e di finte soluzioni da smerciare il più velocemente possibile.

IV


L’introduzione del “docente tutor” e del “docente orientatore” sembra un’altra mossa per:

– ridurre l’insegnamento e la relazione educativa a burocrazia (come quando si pensa di poter conoscere gli studenti e le loro attitudini facendogli compilare un questionario), attraverso un aggrovigliarsi delle mansioni e della struttura organizzativa sempre più inestricabile e fine a se stesso. La prospettiva è sempre quella: sottrarre progressivamente tempo e sostanza culturale, relazionale, educativa, umana, a una scuola dove si faccia sempre meno e si certifichi sempre di più;

– spezzare il legame tra insegnanti, classi e discipline. D’ora in poi (com’era già successo con il “poteziamento”) non sarà più possibile dare per scontato che l’insegnante insegni, che sia cioè un profondo conoscitore di una disciplina e che sappia – per studio ed esperienza – come farla conoscere anche ai propri studenti. L’insegnante diventa uno che fa di tutto un po’, perde un altro pezzo di radicamento nel sapere e nel rapporto affettivo con le proprie classi (veicolato dal lavoro comune e continuativo su dei contenuti culturali importanti e non da un improvvisatissimo psicologismo di quinta mano), va a svolgere mansioni per le quali non ha nessuna competenza specifica, con il rischio di produrre grossi danni nelle menti e nelle vite delle persone in crescita; proprio mentre continuano a mancare in moltissime scuole veri sportelli d’ascolto, attivi tutti i giorni, con psicoterapeuti qualificati, gli unici che potrebbero porsi come ‘orientatori’ in modo professionale, rispettoso e sensato;

– creare ulteriori spaccature nel corpo docente. È facile immaginare i contenziosi, le controversie e le tensioni che si creeranno nelle scuole tra docenti disciplinari e tutor che non sanno niente della disciplina su cui intervengono (né, ovviamente, degli studenti sottoposti alle loro “cure”) ma che saranno addestrati e preparati per imporre una buro-pedagogia di Stato.

Se si volesse davvero dare più attenzione agli studenti, come si dice di voler fare, senza proseguire sulla strada della disarticolazione e della privatizzazione della scuola pubblica, la prima cosa da fare sarebbe far diminuire il numero di studenti per classe. Il resto serve a tutt’altro.



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