Tornare a scuola

Il paradosso del patagogista. Secondo qualche sedicente esperto gli studenti, ancora sprovvisti di sufficienti basi culturali e impossibilitati perciò a contestualizzare le conoscenze, andrebbero lasciati il più possibile all’apprendimento “autonomo”; gli insegnanti invece, che hanno alle spalle dei lunghi e approfonditi percorsi conoscitivi, dovrebbero essere sottoposti a una formazione coatta – abbiamo sentito persone con grandi responsabilità nel campo dell’istruzione parlare di “riaddestramento” – che li spinga soprattutto a non interferire proprio con l’ “apprendimento autonomo” degli studenti.

Ma da dove arriva questa idea dell’insegnante “facilitatore” (e oggi anche “orientatore”), che non deve insegnare nulla, o il meno possibile? Basta prendere una teoria parziale come quella di Rogers – nata in un altro ambito, quello psicologico, dove pure è tutt’altro che indiscutibile, in un altro contesto, in un’altra epoca storica, per rispondere ad altre necessità – e applicarla immediatamente, per giustificarne lo smantellamento, alla realtà scolastica che c’è, fondata su una relazione intergenerazionale di cui le persone in crescita hanno un grandissimo bisogno e su un lavoro comune, strutturato e progressivo sulle conoscenze, che bambini e adolescenti non possono compiere da soli. Chiunque insegni a scuola sa che oggi “autoapprendimento” significa lasciare i giovanissimi esattamente lì dove sono, in balia di contenuti social e digitali di scarsissimo valore e attendibilità, impossibili da vagliare criticamente e da contestualizzare in assenza di un punto di vista culturale esterno ad essi.

Ed ecco qui la ricetta: «Secondo Rogers lo sviluppo della personalità è autorealizzazione. Perché ciò avvenga Rogers sostiene che l’insegnante, l’educatore, il terapeuta debba essere fondamentalmente un “facilitatore”, che accetta pienamente il cliente, (il discente, lo studente, il paziente), ed instaura con lui un rapporto empatico che permette alla persona di lasciar fluire emozioni e stati d’animo.
Secondo la Pedagogia non direttiva di Rogers, è necessario un cambiamento nel ruolo di chi insegna, che deve in prima istanza cambiare in modo radicale il proprio approccio della didattica.
Alla base del pensiero di Rogers vi è l’idea che nulla “può essere insegnato” ma solo
autonomamente appreso. Per- tanto, il ruolo dell’insegnante è quello di essere un implementatore delle risorse autonome del
fanciullo, che spingono all’autoapprendimento.
Sostanzialmente, l’insegnante, “il facilitatore”, è una figura che non impone la “conoscenza”, non svolge delle semplici lezioni salendo in cattedra, cioè mettendo una distanza fra chi sa e chi deve imparare
» (fonte http://www.pedagogia.it, voce Carl Rogers).

Il brano si commenta da sé. Bisognerebbe però chiedersi perché questa spinta a marginalizzare il ruolo educativo degli adulti riceva tanto sostegno a livello politico, mediatico, accademico. La risposta va forse cercata nella volontà di sostituire l’influenza di adulti affettuosi, che vogliano il bene di bambini e adolescenti (un bene che include alfabetizzazione, istruzione, cultura) con l’impersonalità del mercato, che richiede clienti, utenti, consumatori e futuri esecutori, non persone colte e consapevoli della complessità dell’esistente. L’ha scritto in modo magistrale e quasi profetico Lucio Russo più di vent’anni fa, al tempo della “riforma” della sedicente autonomia scolastica:

«La grande maggioranza degli studenti della nuova scuola finirà semplicemente con l’assumere l’uno o l’altro degli infiniti ruoli di mediazione tra produzione e consumo nati per alimentare il mercato distribuendo in rivoli minimi parte della ricchezza che sgorga da poche sorgenti lontane e inaccessibili.

Le capacità e le competenze richieste per tali ruoli sono minime e diminuiscono di anno in anno. Le continue ondate di innovazione tecnologica, che immettono nel mercato prodotti sempre nuovi, spesso basati su tecnologie raffinate, richiedono in compenso masse di consumatori “evoluti”, attenti cioè alle novità, capaci di mutare continuamente le abitudini di consumo, abbastanza “colti” per recepire rapidamente i messaggi pubblicitari e leggere manuali di istruzioni, ansiosi di superare l’amico e il vicino nella rapidità di acquisto dei prodotti dell’ultima generazione, consumando in rapida successione i prodotti lanciati via via sul mercato.

In definitiva la nuova produzione, concentrata e automatizzata, richiede più conoscenze ai suoi clienti che ai suoi dipendenti. La nuova scuola deve quindi preparare soprattutto consumatori, oltre che contribuenti ed elettori. Queste figure, a differenza dei tecnici e dei dirigenti, possono ignorare i processi produttivi e, tanto più, fare a meno di qualunque tipo di cultura generale
» (Lucio Russo, Segmenti e bastoncini, Milano, Feltrinelli, 2016 [1ª ed.1998, 2ª ed. 2000], pp.18-19).

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Dietro la “personalizzazione degli apprendimenti” (che c’è sempre stata ma che viene ora furbescamente confusa con la personalizzazione degli insegnamenti, a chiudere gli studenti nell’orizzonte ripetitivo del già noto) c’è la spinta a privatizzare non solo la scuola ma ogni dimensione sociale. È la logica dell’ “orientamento”, escludere cioè precocemente e frettolosamente bambini e adolescenti da interi campi del sapere per cui non sarebbero “portati” o a cui non sono destinati; il tutto ignorando tre fatti fondamentali: 1) le propensioni delle persone in crescita cambiano anche radicalmente nel corso del tempo (ed è proprio il tempo, fondamentale in ogni formazione, che non si vuole più concedere); 2) nessuno può desiderare di conoscere qualcosa se prima non gliene viene mostrata l’esistenza; 3) l’interesse di bambini e adolescenti per conoscenze e contenuti culturali dipende anche dal modo in cui vengono proposti e, soprattutto, dalla relazione educativa che si instaura con gli adulti (molti di noi, da studenti, hanno sperimentato come spesso si studi non per senso del dovere o per senso di di responsabilità ma perché si nutrono affetto, stima, fiducia nei confronti dell’insegnante).

Degli individui isolati sono dei clienti e degli utenti migliori, che comprano invece di vivere e coltivare relazioni con gli altri, con se stessi e con il sapere. Non a caso sempre più spesso ai nostri studenti mancano anche le parole per dare voce al proprio malessere e alle proprie sofferenze.

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La vera scommessa della scuola è quella di riuscire a unire un’istruzione pubblica di qualità, ricca di contenuti, di saperi e di conoscenze, con l’inclusione e l’attenzione ai bisogni profondi delle persone in crescita. È giustissimo richiedere l’impegno degli studenti ma bisogna anche cercare il modo migliore per ottenerlo, non attraverso metodologie astratte e astruse ma soprattutto attraverso la parola, il dialogo, la relazione, l’autorevolezza. Dopo tutto non c’è nessun bambino che sia inadatto allo studio “per nascita”…

«… diremo che l’insegnamento come dissenso consiste nel rifiuto di accettare qualsiasi pretesa di incompetenza, in particolare se proviene dallo studente; l’insegnamento come dissenso si esplicita pertanto in un appello a un futuro modo di esistere dello studente, un modo di esistere ancora imprevedibile, sia dal punto di vista dell’educatore sia da quello dello studente. […] Ritengo che una qualsiasi posizione meno ambiziosa – qualsiasi progetto educativo che proceda solo sulla base di ciò che è possibile, è visibile, di cui abbiamo prove – corra il rischio di ostacolare questo futuro» [a proposito di tutte le stupidaggini sull’ “orientamento”] (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022, pp.13-14).

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Come si fa a parlare dei danni della didattica per competenze se questa didattica nelle nostre scuole non viene praticata, ma prevale lo schema io professore spiego, tu studente ascolti e ripeti? Questa è in sintesi un’interessante obiezione rispetto ai discorsi fatti nell’ambito del nostro gruppo sull’argomento.

Risponderei che, tranne eccezioni, lo schema io professore spiego, tu studente ascolti e ripeti è un fantasma polemico più che una rappresentazione di ciò che accade davvero nelle nostre scuole, dove l’interazione reciproca tra studenti e insegnanti è continua, pur nell’ovvia asimmetricità dovuta al fatto che l’insegnante, avendo in certi campi del sapere una preparazione che gli studenti ancora non hanno, può compiere un’indispensabile contestualizzazione delle conoscenze, che vengono comunque rielaborate insieme alla classe, attraverso un dialogo che le rende vive, nuove e mai del tutto uguali a se stesse.

La “didattica per competenze” è più detta che praticata, è vero, semplicemente perché è uno schema astratto che si applica male alla viva realtà scolastica. E il problema è proprio questo: che tutta la burocrazia, le programmazioni e i discorsi sull’insegnamento siano impregnati di questa retorica del tutto inefficace sul piano concreto introduce nella scuola una continua scissione tra ciò che si fa e ciò che si dice, una scissione nel processo complesso e unitario della conoscenza e un continuo senso di alienazione nel lavoro stesso dell’insegnante, costretto a incasellare il proprio lavoro dentro schemi astratti decisi fondamentalmente dalla burocrazia ministeriale. Tutto questo, no, non fa bene alla scuola e tanto meno agli studenti, che – se è vero che la scuola è fatta soprattutto di relazione – hanno bisogno di avere a che fare con delle persone intere, credibili, responsabili e consapevoli di ciò che fanno, e non con degli esecutori sottoposti a una continua recita burocratica.

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