
di Enrico Campanelli
Capita sempre più spesso di leggere articoli sulle attività dell’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa). L’ultimo è quello relativo alla pubblicazione sul sito dell’Istituto del documento dal titolo “Anticipare per governare il cambiamento. Il Sistema di Istruzione e Formazione di fronte alle sfide del cambiamento generazionale”, elaborato in occasione dell’audizione dell’Istituto presso la Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali della transizione demografica del 27 maggio 2025 (cfr. https://www.orizzontescuola.it/dal-docente-stanziale-al-tutor-di-prossimita-il-piano-dellindire-che-ridisegna-la-professione-insegnante-nella-scuola-comunita-educante-del-futuro/:
“Una rete scolastica ‘a geografia variabile’ dove le sedi fisiche assumono funzioni diverse e complementari: è il baricentro della trasformazione in arrivo, con hub disciplinari/laboratoriali, centri metodi/innovazione, punti riconoscimento competenze e spazi intergenerazionali a servizio di comunità e studenti.
La logica è quella dell’ecosistema educativo: non più plessi omologhi, ma nodi specializzati che cooperano su base intercomunale, capaci di certificare micro-competenze, accelerare la didattica laboratoriale e aprire le porte alla coprogettazione con il territorio; […] la macchina organizzativa poggerà su una struttura del personale più flessibile. I docenti core avranno assegnazioni stabili in scuole polo o school point, presidieranno continuità didattica e coerenza curricolare, cureranno l’integrazione tra discipline e servizi. Accanto, i docenti itineranti – specialisti disciplinari o metodologici – opereranno su più sedi, in presenza e a distanza, attivando percorsi modulari, laboratori e supporti mirati nelle aree con minori numeri o bisogni specifici.
A completare l’assetto, i tutor di prossimità: figure con competenze certificate per la facilitazione dell’apprendimento nei contesti multiciclo e minigrade, il raccordo scuola-famiglie, l’innovazione metodologica e la documentazione delle competenze. Una triade pensata per garantire copertura capillare, qualità uniforme e risposta veloce ai fabbisogni formativi…”).
Durante la lettura si viene proiettati in una distopia che ricorda le atmosfere tetre di Blade Runner: ho visto docenti core con le piaghe da decubito, abbarbicati alle cattedre delle school point, presiedere continuità didattica e coerenza curricolare; ho visto docenti itineranti sollevare le elitre e volare da un paese all’altro, per addestrare alunni lontani; ho visto tutor di prossimità certificare competenze con due enormi timbri al posto delle mani. Fuor di metafora, ma non di distopia, purtroppo, nel documento si delinea un assetto della futura scuola, un cosiddetto ‘ecosistema educativo’, talmente burocratizzato e sbrindellato che la figura del docente perde ogni valore culturale; il suo fondamentale ruolo di intellettuale, la continuità delle relazioni umane e la cultura stessa svaniscono completamente in una rete di compiti impersonali nella quale viene meno ogni traccia della semplicità, essenzialità ed unità della triade docente-sapere-alunni, che ha bisogno di tempo, libertà e pochi ma essenziali spazi e strumenti per operare e dare i suoi frutti. Spazi e strumenti di tutt’altra natura rispetto a quelli aziendalizzati e burocratizzati che ormai sono la base comune della politica scolastica di ogni governo e di ogni parte politica.
Spacciata come soluzione per ottimizzare le risorse in vista del calo demografico, una tale mostruosità non è in realtà che una cortina fumogena per nascondere l’ennesimo taglio di risorse per la scuola ed un ulteriore passo verso lo smantellamento della scuola pubblica della Costituzione da sostituire con una rete di officine territorializzate per l’addestramento alle competenze utili alle imprese.
Di fronte a certe oscenità, c’è da chiedersi quale sia davvero l’autonomia di INDIRE, come ente di ricerca scientifica, nei confronti della politica scolastica dei vari governi. Il dubbio è lecito poiché si legge spesso sui giornali di sperimentazioni più o meno improvvisate attuate da istituti scolastici su varie tematiche (in particolare ultimamente su metodi alternativi di valutazione) con metodi che di scientifico non hanno nemmeno l’ombra. Basti pensare che la valutazione degli esiti di molti progetti sperimentali si basano sul giudizio di chi li ha realizzati (docenti) e di chi ne ha usufruito direttamente o indirettamente (alunni e genitori). È facile immaginare gli enormi bias che affliggono ‘ricerche’ fatte in questo modo. Tale metodologia, tuttavia, è parte integrante del modo di operare di INDIRE, che utilizza una rete di oltre 1500 istituti (tra scuole ‘capofila delle idee’ e ‘scuole adottanti’) per la sua missione di generare e diffondere innovazione. Si tratta di una evidente distorsione linguistica poiché una reale sperimentazione prevederebbe un’ipotesi di lavoro, una fase operativa ed infine una seria valutazione dei risultati in seguito alla quale si decida in un senso o nell’altro. Con INDIRE, invece, si ha l’impressione che prima si stabilisca la tesi (magari imboccata dalla politica) e poi si accrocchi una “sperimentazione” che dimostrerà il teorema preconfezionato, per arrivare infine ad imporre per legge la tesi di partenza. È quello che con ogni probabilità si farà anche per l’introduzione delle competenze non cognitive dal prossimo anno scolastico in base alla legge 22/2025. C’è da scommettere che anche stavolta la mistificazione coglierà nel segno, poiché la sperimentazione darà ottimi risultati, confermati dalla soddisfazione di alunni, docenti e genitori.
Dubbi sulla reale autonomia dell’INDIRE sono stati sollevati anche da vari sindacati ed associazioni in seguito al colpo di mano con il quale il governo Meloni, nell’ottobre scorso, ha imposto un cambio di presidenza e di statuto all’Istituto, potenziando di fatto l’influenza del MIM su di esso. In particolare, con tale riordino, il MIM ha imposto a INDIRE di erogare corsi di specializzazione ‘semplificati’ per docenti di sostegno (scatenando le ire di chi la specializzazione l’aveva conseguita con costi e fatica) e, più in generale, ha espanso il ruolo dell’Istituto nell’ambito dell’innovazione didattica, della formazione del personale docente, dello sviluppo di servizi digitali per la didattica e del sistema nazionale di valutazione. La maggior parte di questi compiti sono più di natura tecnico-operativa che di ricerca, il che riduce sempre più il ruolo dell’ente a braccio operativo delle politiche ministeriali.
Non si rilevano, a mia conoscenza, esternazioni pubbliche critiche dell’INDIRE nei confronti dei provvedimenti del Ministero: i suoi documenti sono sempre presentati come supporto tecnico alle riforme in corso (autonomia scolastica, digitalizzazione, PNRR, formazione docenti) e non si trovano note critiche o rapporti ufficiali che mettano in discussione la bontà, l’efficacia o la coerenza delle politiche ministeriali. Si dirà che potrebbe essere una naturale conseguenza dell’adesione fedele del MIM alle indicazioni dell’INDIRE ma la realtà insegna che quando la politica ha le sue priorità da far valere non c’è indicazione tecnica che tenga (si pensi a quante volte il Ministero, di ogni colore politico, ha ignorato i pareri del CSPI su vari temi).
Chi è veramente INDIRE e cosa fa si capisce meglio analizzando in dettaglio i principi contenuti nel Manifesto delle Avanguardie Educative, manifesto del movimento Avanguardie Educative nato nel 2014 che è il braccio operativo di INDIRE per l’attuazione delle sperimentazioni. E’ composto da sette punti (per uno sviluppo dei quali si rimanda al documento ufficiale rintracciabile sul sito dell’Istituto):
1. Trasformare il modello trasmissivo della scuola
2. Sfruttare le opportunità offerte dalle ICT e dai linguaggi digitali per supportare nuovi modi di insegnare, apprendere e valutare
3. Creare nuovi spazi per l’apprendimento
4. Riorganizzare il tempo del fare scuola
5. Riconnettere i saperi della scuola e i saperi della società della conoscenza
6. Investire sul “capitale umano” ripensando i rapporti (dentro/fuori, insegnamento frontale/apprendimento tra pari, scuola/azienda, ecc.)
7. Promuovere l’innovazione perché sia sostenibile e trasferibile.
In questo programma si ritrovano chiaramente tutti gli elementi fondamentali che caratterizzano la politica scolastica da almeno trent’anni e, a proposito di autonomia, non sono certo di provenienza INDIRE, che del resto dichiara esplicitamente nel proprio statuto che agisce “nel quadro degli obiettivi fissati in sede europea ed internazionale”.
Il primo punto del manifesto è l’ormai compulsivo attacco alla lezione frontale, fondato sulla mistificazione che questa porterebbe a una modalità di apprendimento passiva e inefficace e su un immaginario modello, del tutto irrealistico, rintracciabile, forse, in qualche monastero altomedievale. Cito dal documento un passo illuminante che illustra la lezione ideale nella visione dell’ente:
L’insegnante che trasforma la lezione in una grande e continua attività laboratoriale, di cui è regista e facilitatore dei processi cognitivi, anche grazie all’utilizzo delle ICT; che lascia spazio alla didattica collaborativa e inclusiva, al brainstorming, alla ricerca, all’insegnamento tra pari; che diviene il riferimento fondamentale per il singolo e per il gruppo guidando lo studente attraverso processi di ricerca e acquisizione di conoscenze e competenze che implicano tempi e modi diversi di impostare il rapporto docente/studente.
Un minestrone in cui c’è tutto il repertorio linguistico del pedagogismo attualmente dilagante, lontano anni luce dalla concretezza e dalle esigenze del lavoro quotidiano in classe, ed anche da posizioni più prudenti, che pure esistono, che affermano:
Innanzitutto occorre precisare che l’apprendimento collaborativo rappresenta attualmente una sorta di mitologia del nostro tempo avvolta da molte ingenuità; all’opposto molte ricerche mettono in evidenza le criticità che questo concetto implica; esso non è una condizione “naturale”, richiede che si costruiscano specifiche condizioni in partenza: una differenza troppo elevata di expertise, una scarsa motivazione, inadeguate skill metacomunicative e metacognitive, in genere sono fattori che interferiscono pesantemente sul processo collaborativo, sino a renderlo del tutto sconsigliabile. Così oggi si definiscono collaborative situazioni del tipo dei comuni dialoghi su web forum, gran parte dei quali sono improntati a futilità e dispersione (Antonio Calvani, curiosamente in un intervento del 2007 riportato sul sito dell’INDIRE).
Mai che vengano riportate nelle relazioni ufficiali le posizioni discordanti, critiche o semplicemente più prudenti: quando c’è da battere la grancassa pro politiche ministeriali, le note discordanti vanno adeguatamente attenuate.
Nel secondo e terzo punto si ritrova la deferenza che anche a livello delle istituzioni europee si mostra nei confronti delle aziende del settore informatico e degli ambienti di apprendimento. Verso queste aziende è stata dirottata la maggior parte delle risorse del PNRR destinate all’istruzione, quando invece si sarebbero potute finalmente destinare alla ben più efficace politica di riduzione degli alunni per classe, politica che tra l’altro avrebbe dovuto essere naturalmente suggerita dal citato calo demografico ma che evidentemente era (ed è) troppo lontana dai reali obiettivi del piano.
Il quarto punto è un capolavoro di mistificazione. Per INDIRE l’ora di lezione è un ‘rigido steccato’ che parcellizza il sapere in tante unità temporali distribuite nel corso dell’anno e ritiene che vada superata sostituendola con ‘segmenti, moduli e unità formative’. Ora, se si vuole dare un senso a questa affermazione (perché non si capisce come ‘segmenti, moduli e unità formative’ possano sottrarsi alla divisione in unità temporali distribuite nel corso dell’anno…) si deve necessariamente pensare che tali ‘segmenti, moduli e unità formative’ non siano altro che brandelli di nozioni, decontestualizzati e ricomposti in ‘pillole’ (apparentemente) autoconsistenti (forse qualcuno preferirebbe parlare di UDA?) della durata di non più di qualche ora, che possano essere ‘somministrate’ senza una cronologia precisa e nei ritagli di tempo che le ormai frenetiche attività extracurricolari consentono. Questa modalità di confezionare e dispensare il sapere è infatti del tutto coerente con un tempo scuola in cui la frammentazione è ormai divenuta sistemica, per cui ad esempio è già perfettamente normale vedere due o tre alunni alzarsi nel bel mezzo della lezione e chiedere di uscire per 10 minuti perché devono andare a ‘confessarsi’ con il tutor orientatore. Come non vedere che questa sì è la vera parcellizzazione del sapere? Che si tratta di uno smembramento e di una bignamizzazione di percorsi complessi e dotati per loro natura di una cronologia necessaria, che ne distruggono completamente ogni coerenza, struttura e valore formativo? Va da sé che anche la cosiddetta riorganizzazione del tempo del fare scuola si inserisce alla perfezione nel piano di demolizione di una scuola focalizzata su un sapere davvero formativo ed emancipante per far posto ad una scuola che addestri forza lavoro.
Il quinto ed il sesto punto incarnano i totem delle competenze (in particolare alle soft skills), del legame con il territorio, del life-long learning e del capitale umano, tutti accomunati da una concezione aziendalista della scuola. Per sostenere una tale visione è però necessario screditare il ‘sapere scolastico’ connotandolo come ‘sconnesso’ da quello che informa la società. Siamo di fronte ad un apparente ossimoro (il sapere diffuso nella società non dovrebbe provenire dalla scuola?) ma che tale non è, poiché di fatto si tratta della sostituzione del sapere in quanto tale, disinteressato, aperto, libero, con l’idea di un sapere asservito alle esigenze della produzione economica, idea che in sostanza definisce il concetto di società della conoscenza. Dove, se non nella scuola, dovrebbe essere tramandato il sapere libero? Quando, se non nei preziosi anni dell’adolescenza, dovrebbe essere coltivato il pensiero critico e la riflessione libera sul sapere stesso? Una società della conoscenza che non si fondi saldamente su cultura, riflessione e senso critico non può che produrre cittadini schiavi (basti pensare alle nefaste conseguenze dell’abuso dei social media o ai rischi insiti nell’idolatria inconsapevole dell’intelligenza artificiale, che sono prodotti tipici della cosiddetta società della conoscenza). Anche l’idea, apodittica, di una scuola che debba essere fortemente legata al territorio (in particolare con il suo tessuto economico) e il concetto del life-long learning (apparentemente intriso di buon senso ma che in realtà ‘eufemizza’ un modello di umanità priva di identità, di stabilità sociale, perché sempre pronta a reinventarsi al servizio del mercato del lavoro) sono in contrasto, la prima, con l’idea di una formazione culturale libera da interessi e condizionamenti di sorta, davvero democratica perché uguale per tutti indipendentemente dal luogo in cui si vive e, il secondo, con il sacrosanto principio di un modello economico con al centro l’umano e non viceversa.
Il settimo punto, infine, chiude il cerchio e delinea chiaramente la natura dell’INDIRE che, lungi dal comportarsi da libero generatore di ricerca educativa, è in realtà il braccio operativo del MIM cui è assegnato il compito di attuare in modo efficiente (ma qui efficiente fa rima con surrettizio) le politiche scolastiche corredandole di una parvenza di scientificità. Lo scopo dichiarato è quello di ridurre ad un algoritmo ‘le buone pratiche’ (guarda caso proprio quelle prodotte dalle scuole appartenenti alla rete dell’INDIRE) per diffonderle come un protocollo industriale a tutte le scuole, dimenticando la natura sempre nuova, riconfigurabile, imprevedibile dell’atto dell’insegnare e la differenza tra la condivisione delle idee, rispettosa della libertà di insegnamento, e la sperimentazione fasulla funzionale all’implementazione di una politica scolastica già decisa altrove sulla base di obiettivi del tutto estranei alla scuola della Costituzione.
