Fine della scuola?

Le parole vuote e le promesse mirabolanti passano e la scuola, da vent’anni a questa parte, va sempre peggio. Massimo Recalcati, nel libro L’ora di lezione, parla della “burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante, che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’Istituzione e non a quelle degli allievi”.

La diagnosi è tristemente esatta: io penso che tutti noi insegnanti ci stiamo accorgendo del fatto che anno dopo anno ci stanno progressivamente costringendo a smettere di insegnare, attraverso l’instillazione del terrore, la compiacenza verso le famiglie, il lassismo per quieto vivere, lo squallore ministeriale, gli infiniti cavilli della burocrazia, il legalismo furbo che blocca qualunque tentativo di educare, la squalifica dell’ora di lezione, le attività senza senso e le infinite perdite di tempo, il trionfo della mediocrità e dell’ignoranza, il conformismo programmistico e competenziale senza nessuna sostanza educativa e culturale. Gli insegnanti che amano la scuola sono stati lasciati soli. A farne le spese sono, e saranno sempre di più, i nostri studenti, apparentemente coccolati, in realtà devastati dall’incuria, dall’indifferenza e dalla paura degli adulti. 

Questo smantellamento della scuola passa attraverso una strategia fatta di azioni convergenti, tutte orientate allo stesso obiettivo:

1) La squalifica del lavoro degli insegnanti: da una parte si blandiscono le persone, con “elargizione” di assunzioni senza criterio e senza regole stabili (invece, cosa che tutti dicono e nessuno fa, le assunzioni dovrebbero avvenire secondo una modalità unica e chiara, attraverso un solo canale, definito accuratamente in modo da poter effettuare una selezione giusta, rispettosa e motivata dei futuri docenti); dall’altra, si mette in atto una strategia quasi punitiva nei confronti dei “beneficiati”, con norme che creano un’universale precarizzazione degli insegnanti (“potenziamento”, “ambiti disciplinari” ecc.), tolgono loro ogni certezza di poter svolgere serenamente il proprio lavoro, spezzano il legame fondamentale tra l’insegnante e la classe. In più, si dà per scontato che chi lavora nella scuola non abbia già un compito estremamente impegnativo da svolgere – quello, appunto, di insegnare – e lo si soffoca con una burocratizzazione metastatica dell’organizzazione scolastica (progetti su progetti, programmazioni, montagne di documenti senza senso che non servono a niente e sono inutili già nella mente di chi li propone), come a dire: “almeno così fai qualcosa”, produttivo come scavare e riempire sempre la stessa buca. Per non parlare degli “aggiornamenti” on line, sontuosamente vuoti, che utilizzano la fuffa di un didattichese fine a se stesso, imparaticcio e orecchiato, e che soprattutto evitano come la peste la lettura di libri (cui molti adulti, prima ancora che i ragazzi, sembrano diventati allergici), la conoscenza approfondita della propria materia, un’autentica preparazione psico-pedagogica.

Si vuole far passare sempre di più l’idea, insomma, che quello dell’insegnante sia un generico impiego di concetto, e non una professione delicatissima che richiede una motivazione, una preparazione e un talento specifici.

2) La modalità principale della distruzione della scuola è poi quella della squalifica del lavoro in classe e dell’ora di lezione. Di fatto, si impedisce il contatto fondamentale, la creazione di un autentico rapporto umano ed educativo, tra gli studenti e gli insegnanti; un rapporto che avrebbe bisogno di una nettissima riduzione del numero di studenti per classe (in classi di trenta alunni è praticamente impossibile che l’insegnante possa parlare con i propri studenti, cioè dedicarsi a quello che è il centro del proprio lavoro), e ancor di più di chiarezza delle regole e dei ruoli: agli insegnanti dovrebbero essere garantiti strumenti semplici ed efficaci – di cui l’istituzione, dalla singola scuola all’intero sistema educativo, si assuma la responsabilità – per mettere in chiaro, dal primo minuto di lezione, che il rispetto delle regole e l’impegno sono le condizioni indispensabili (con modalità diverse all’interno e al di fuori dell’obbligo scolastico) per la permanenza nella classe e per la continuazione del percorso scolastico. Se vengono dati loro dei limiti chiari – e se questi limiti sono opportunamente motivati e accompagnati da accoglienza, ascolto, rispetto affettuoso da parte di insegnanti che sanno quello che fanno – gli studenti, dopo una prevedibile opposizione iniziale, si adeguano. Ciò che li confonde è sempre la mancanza di chiarezza e di attenzione da parte degli adulti; indifferenza, abulia, disprezzo per l’istituzione, atteggiamenti oppositivi e provocatòri (volti in realtà a mettere alla prova gli adulti), nullafacenza, depressione, disorientamento e rabbia diminuiscono man mano che i limiti contenitivi si rafforzano, rassicurano e proteggono, senza lasciare possibilità e spazi ad alternative distruttive. 

Invece, per compiacere famiglie che non di rado sono state incapaci di educare i propri figli, l’istituzione scolastica si lascia ricattare, diviene sempre più accondiscendente, un’accondiscendenza dietro la quale si nascondono la paura della responsabilità educativa e l’indifferenza; in questo modo, invece di rappresentare modalità diverse di rapporto col mondo, entrambe indispensabili alla crescita, famiglia e scuola tendono sempre più a coincidere (genitori e figli che rimangono in contatto continuo attraverso gli smartphone anche durante le ore di lezione rappresentano l’immagine più emblematica e più terrificante di una simbiosi incapace di allontanamenti), si attua un’identificazione quasi totale tra disfunzionalità della famiglia e disfunzionalità della scuola, regole e limiti saltano di continuo. Il che, come vede chiunque voglia vedere, lascia in realtà gli studenti sempre più soli e li disorienta sempre di più. 

Segno della squalifica dell’ora di lezione è poi il fatto di renderla sempre più evanescente e sacrificabile, facendo passare il messaggio che qualunque altra attività, anche la più scadente, viene prima del lavoro in classe: è il caso di attività di alternanza scuola-lavoro francamente ridicole (come le noiosissime lezioni, all’interno dell’istituto, dei “maestri del lavoro”, spesso bruttissima copia delle lezioni degli insegnanti); è il caso di attività progettuali vuote e senza senso, utili solo a far passare l’idea che la scuola “fa qualcosa” (come se l’ora di lezione non fosse in sé infinitamente significativa), che “innova”, che “si muove”, nella logica dell’ “autonomia scolastica” e della concorrenza tra istituti. Sono spesso gli studenti stessi a chiedere, ad implorare di poter evitare certe attività progettuali, schiacciati dal senso di noia che esse – come tutto ciò che è vacuo, inutile e senza senso – producono e instillano.

3) La terza modalità di distruzione della scuola è lo scambio perverso e paradossale tra mezzi e fini, che prevede che l’adozione di metodi e strumenti preceda burocraticamente e sostituisca, anziché seguire e assecondare, le necessità concrete della trasmissione culturale e del rapporto educativo. Un esempio per tutti, l’imposizione di un’ideologia delle “competenze” fondata sull’illusione di una completa trasparenza, misurabilità e prevedibilità del processo educativo, inutile e capace di sottrarre enormi quantità di energia al lavoro dell’insegnante, spesso distruttiva e capace di desertificare ogni passione educativa e culturale. Tale ideologia (insieme all’esaltazione acritica delle “nuove tecnologie”) spinge allo svuotamento della sostanza dell’insegnamento e pone l’accento su una continua e snervante certificazione del nulla, rispetto alla quale la passione conoscitiva e i contenuti – quelli che dovrebbero essere capaci di coinvolgere emotivamente ed intellettualmente gli studenti nella loro naturale curiosità e nel loro bisogno di trovare un senso alle cose – scompaiono del tutto. La scuola che abbiamo conosciuto, e che funzionava benissimo, era fondata sul valore paradigmatico delle “storie”; quelle della letteratura, certo, con i suoi personaggi spesso più vivi delle persone in carne ed ossa, ma anche quella delle idee, delle parole, delle teorie scientifiche e delle innovazioni tecnologiche. È attraverso il confronto con le storie che lo precedono, e con l’immenso patrimonio culturale dell’umanità, che l’individuo in crescita può lentamente costruire un senso pieno della propria identità. Quello che avviene oggi, la ridicola pretesa di fornire “competenze” a prescindere dai contenuti, è invece funzionale a sfornare frettolosamente monadi sradicate, prigioniere di un presente istantaneo e solidificato, schiavi, lavoratori e consumatori a disposizione di un caporalato economico universale. 

Ecco, oggi ci aspettiamo un completo rovesciamento di queste modalità di distruzione del senso stesso della scuola e siamo pronti ad attuarlo in prima persona. Non ci accontenteremo di niente di meno.

Articolo pubblicato il 13/9/2018

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