Contro l’omologazione, per una scuola a trecentosessanta gradi

A chi dice di non demonizzare la “didattica a distanza” (nessuno ovviamente si sogna di farlo per il passato, visto che è stata l’unico modo di mantenere un legame sia pur minimo e insufficiente con i nostri studenti) e le nuove tecnologie, rispondo che ciò che bisogna evitare è l’appiattimento che aziendalisti, burocrati ed enti privati che nulla sanno della scuola vogliono imporci a tutti i costi nel nostro lavoro. Il mio compito prioritario, da insegnante di Lettere, è quello di far sì che gli studenti escano da scuola con un pizzico di intelligenza e di sensibilità in più, che allarghino il loro orizzonte linguistico (il che vuol dire allargare anche il proprio mondo e la propria capacità di “vedere”), che sappiano leggere un libro e capiscano quello che dice, che acquisiscano un po’ di consapevolezza della profondità storica in cui è radicato il nostro presente (il che significa non darlo per scontato o assolutizzarlo come inevitabile; premessa per poter contribuire un giorno, da persone consapevoli, agli sforzi per un futuro migliore), che siano in grado di maneggiare qualche idea e qualche contenuto culturale significativo che possa aiutarli ad arricchire la propria vita e a dare un senso alla loro esperienza; e non mi serve che qualcuno che non ne capisce nulla venga a dirmi come devo farlo.  Non mi sottraggo a priori, ma so che per insegnargli altro – ad esempio un corretto uso delle nuove tecnologie – ci sono persone che ne sanno infinitamente più di me, e questo dovrebbe essere il bello di una scuola capace di offrire una preparazione a trecentosessanta gradi.

È grave se per fare la mia parte spesso mi bastano le parole, lo strumento più straordinario che abbiamo (a quanto pare bastano anche i miei studenti, che ne sono affamati: gli adulti parlano raramente con loro…), se molte volte non mi serve altro? Devo preoccuparmi del fatto che i miei studenti capiscono quello che dico loro anche se non uso la Lim? Sì, dovrei preoccuparmi, visto che in alcune scuole, per spingere gli insegnanti a usare a prescindere le ‘nuove metodologie’, hanno tolto di mezzo le lavagne, pericolose istigatrici al ‘vecchio’. Bisognerebbe invece ricordare che nuove tecnologie e nuove metodologie sono degli utili strumenti, da utilizzare se e quando servono, non un’ideologia; che al centro della scuola ci sono i rapporti umani, i contenuti e i saperi (parole aborrite dai cultori di una “didattica per competenze” che tende sempre più a coincidere con un vuoto siderale) e che è un paradosso perverso trasformare i mezzi in fini, come se fossero diventati essi stessi IL contenuto, l’unico possibile: si pensa così tanto a ‘come’ dire, che ci si trova a non avere più nulla di importante da dire, nulla più che sia degno dello sforzo di trasmissione del sapere che ogni vero insegnamento richiede, qualunque strumento si utilizzi per attuarlo.

Insomma, quello che si contesta non sono certo le nuove tecnologie, né il loro uso didattico, ma una tendenza totalitaria e ideologica all’omologazione e all’impoverimento culturale, per cui tutti dovrebbero insegnare le stesse cose e tutti dovrebbero farlo allo stesso modo. Se penso al mio ambito disciplinare, sospetto – ed è più che un sospetto, in realtà – che i fanatici del nuovo a tutti i costi non lascino grandi tracce del loro passaggio nei propri studenti, troppo impegnati come sono a riflettere sugli strumenti da usare e meno attenti alla sostanza – anche umana – della trasmissione culturale. Invece ho trovato colleghi di discipline “tecniche” che oltre a insegnare benissimo la loro materia, raccontavano (perché l’atto del raccontare è fondamentale a scuola) a studenti che pendevano dalle loro labbra di Leopardi o della Seconda Guerra Mondiale…

È curioso che, in questo appiattimento, proprio coloro che dovrebbero occuparsi di certi temi – che richiedono soprattutto capacità di ‘sedurre’ gli studenti attraverso il piacere della scoperta e una profonda passione culturale, che poi è la passione per le infinite esperienze di conoscenza di sé e della realtà che l’umanità ha accumulato nel corso della sua storia – a volte quasi se ne vergognino, e sentano il bisogno di mettere davanti a tutto le “nuove tecnologie” (o i peggiori luoghi comuni del didattichese) anche dove non servono, per una paura del tutto ingiustificata di essere considerato “vecchi”; una paura che quelli che dentro sono giovani davvero, qualunque sia la loro età, non hanno mai, perché a rendere tutto nuovo sono sempre la passione, l’originalità e la profondità di ciò che si ha da dire. E gli studenti, che non cercano qualcuno che scimmiotti il loro (presunto) mondo, ma qualcuno che sia in grado di aprire loro un altro mondo, se ne accorgono immediatamente.

***

P.S. Ora che il periodo “Dad” ringraziando il cielo è finito, speriamo che qualcuno si ricordi del fatto che i ragazzini non sono dei professori universitari con cui scambiare liberamente informazioni e conoscenze on line, ma persone che vanno motivate e rialfabetizzate quasi da zero, parola per parola, e che vanno guardate in faccia e interpellate ogni due minuti per sapere quanto stia ‘passando’ di quello che diciamo loro. Altrimenti per fare l’insegnante basterebbe un ripetitore meccanico (e chissà che non sia questo l’obiettivo finale sognato da molti…).

Pubblicato il 5/6/2020 su Professione insegnante

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