
di Davide Viero
Questo documento è stato condiviso nel Tavolo per la scuola primaria del gruppo La nostra scuola
Che cos’è la Scuola primaria? Oggi è molto diversa da quella chiamata un tempo Scuola elementare. Infatti questa si chiamava così perché dava gli elementi di base sui quali innestare le future conoscenze; degli elementi che, una volta assodati, costituivano la radice e davano contemporaneamente una certa libertà al soggetto che li aveva acquisiti, dal momento che poteva muoversi utilizzandoli nelle più svariate situazioni che la vita e i successivi gradi di scuola gli presentavano.
A seguito della gerarchizzazione del percorso di studi, ora la scuola è diventata Primaria, perché è ciò che viene prima della Secondaria. È quest’ultimo il vero fulcro della primaria: non più il radicarsi nelle basi dei saperi in relazione all’età, ma anticipare temi ed argomenti che verranno affrontati poi. Ciò significa allontanarsi dallo sviluppo psicologico dell’alunno, con i suoi ritmi e specificità, e ricercare una nuova identità di scuola e di insegnante, che derivano dall’apparente facilitazione deresponsabilizzante verso la scuola successiva. Se la Scuola elementare era un albero radicato a terra (ovvero alle basi dei saperi e allo sviluppo infantile) e poi esso cresceva in alto libero e forte, ora quest’albero è rovesciato e sventola le radici per aria. Nella Primaria non si preparano davvero gli studenti alla Secondaria: nelle ultime classi della Primaria, infatti, si anticipano semplicemente gli argomenti della Secondaria (potenze, espressioni, analisi logica etc.) ma tutto questo senza approfondire e rendere sicuri il calcolo, la conoscenza del sistema metrico-decimale, i problemi, la lettura, la scrittura libera, il riassunto. Che cosa produce tutto questo? L’apparenza di essere preparati, quando in realtà ci si accontenta dei titoli dei capitoli che verranno affrontati, senza sapere cosa c’è scritto all’interno; anzi, precludendo il successivo sviluppo, perché senza la capacità di fare calcoli, senza la capacità di scrivere, di confrontarsi con un testo scritto, senza la capacità di ragionare e di dire con parole proprie diventa impossibile fare le espressioni, capire la geometria, riassumere; insomma, essere introdotti al programma necessariamente più astratto della Scuola media.
E tutti gli argomenti affrontati oggi alla Primaria vengono consumati in fretta, oseremmo dire accennati o affrontati attraverso una tecnica uguale per tutti, ma senza la comprensione vera e profonda che dà solo il sostare su di essi, quando li si affronta liberamente e da più punti di vista. Questa fretta di passare all’argomento successivo determina una scuola iper-selettiva proprio quando si pontifica sull’inclusione. Cosa c’è sotto la patina delle competenze e dei bei voti, se non l’ignoranza dei molti e la preparazione dei pochi? Perché lo vediamo: in una classe solo uno o due alunni hanno la capacità, unita alla maturità, per stare al passo e assimilare a fondo ciò che si fa in questo modo. Una gran massa, quella che Levi chiamerebbe la “zona grigia”, fa quel che deve fare grazie a tecniche semplificate (perché è comunque ‘sveglia’, anche se priva di quella maturità e prontezza che potrebbero emergere poi, in altre età), ma senza capire fino in fondo ciò che fa; e infatti le difficoltà emergono attraverso una semplice prova: basta riprendere un argomento dopo 2-3 mesi e questa ampia “zona grigia” risulterà completamente ignorante su tale argomento. È questa la preparazione con cui mandiamo gli studenti alla Scuola media? È questa la scuola che deve prepararli alla vita, come affermano frotte di pedagogisti e variopinti formatori (significativo però che essi non parlino mai di vita autonoma, legata perciò alla sfera intima di ognuno, quanto piuttosto di adattamento alla vita sociale nelle forme date)?
La Scuola primaria offre quindi l’apparenza di una preparazione al futuro (in questo caso, alla Scuola media), ma è invece fondata su un’autoreferenzialità che persegue le forme e l’apparire e preclude anche la possibilità di assimilare contenuti necessari in chi maturerà più avanti, possibilità che significherebbe davvero seminare per il futuro.
Oltre a ciò, risulta oggi necessaria un’attenta riconsiderazione delle oramai innumerevoli certificazioni, che si radicano nelle richieste di performatività sui soggetti in crescita e sono spesso il frutto di una protensione al risultato da raggiungere in modo immediato, rapido e univoco. Tutto questo produce un modello selettivo che premia chi possiede già le caratteristiche per riuscire e riserva agli altri un modello patologico di risulta che, attraverso la certificazione dello status quo, neutralizza il disallineamento verso quanto richiesto. La certificazione, fondata sull’allineamento, produce perciò una frantumazione del gruppo classe, con la sua intrinseca capacità di far tendere ognuno verso l’alto e ipostatizza una lacuna rispetto al risultato atteso, senza incaricarsi di sanarla con un lavoro volto all’apprendimento. Il tutto mentre ci si accontenta, mediante la certificazione, di compensare e dispensare l’alunno invece che lavorare al suo compimento. Il vero insegnante non dovrebbe semplicemente certificare, ma compiere ciò che vede possibile, ampliando di volta in volta, col suo agire, la sfera del possibile stesso.
Purtroppo la certificazione, gran parte delle volte, dimostra una distorsione educativa fondata sul piano giuridico-burocratico, e perciò indifferente alla relazione umana nella sua mediazione attraverso i contenuti; relazione nella quale si mostrano capacità, potenzialità e ricchezza affettiva. Significativo che nei cassetti delle cattedre non ci siano quasi più sacchetti di caramelle o che il racconto dei bambini prima di iniziare la lezione sia diventato evento raro; tutte cose che facevano capire come la “severità” del tempo restante fosse un elemento necessario al bene dello stesso studente in una relazione densa di senso. Oggi la “furia del fare” è impersonale ed autoreferenziale, non radicandosi più in una relazione dove anche la stessa severità era la cifra della rilevanza dell’allievo.
Cosa fare per invertire questa rotta che è epocale e non solo relativa alla scuola?
Bisogna agire su più piani: dei contenuti, dell’identità, dei metodi ed istituzionale.
Contenuti
– ritornare a mettere al centro i contenuti essenziali necessari per progredire poi nel sapere (lettura, scrittura di testi, elaborazione di riassunti, lettura da parte dell’insegnante soprattutto nei primi anni, calcolo, sistema metrico-decimale, elementi di base della geometria euclidea, risoluzione di problemi);
– necessità di lavorare sul piano espressivo: scritto, orale, visivo e musicale. Quattro ambiti dove il linguaggio e il lessico sono essenziali e dove, nonostante la loro ipertrofia nel presente, si riscontrano le maggiori e crescenti carenze da parte degli alunni. L’osservazione, il commento e la riproduzione guidata dall’insegnante di opere d’arte, nonché l’ascolto guidato di musica, unitamente all’espressione orale e alla correzione di quanto scritto, devono diventare elementi centrali della scuola, necessari per accrescere gusto e interpretazione anche del presente. Perché solo se l’immagine e il suono vengono legati al linguaggio diventano figura e musica, arricchimenti che ampliano l’esperienza. Lo stesso concetto soggettivo di bello si affina e prende corpo da queste esperienze, portando frutti nel gusto e nella vita poi.
Il tema dell’identità
Nell’alunno si devono stabilire i fondamenti culturali necessari per la sua espressione soggettiva e umana nella sfera comunitaria e collettiva. Si tratta di individuare e radicare un nocciolo comune che permetta il riconoscimento delle differenze, pur nella loro pluralità, per una convivenza prodiga e attenta all’altro, che vada oltre la dimensione individualistica e competitiva oggi sempre più dominante.
L’insegnante, che necessita di una forte consapevolezza culturale e politica (nel senso ampio di polis), deve rispondere non alle domande che gli vengono poste, ma alle condizioni che generano tali domande. Un insegnante che oggi deve tapparsi le orecchie con la cera affinché la sua identità non venga ammannita dall’istituzione attraverso il sentirsi parte di essa in modo mimetico, dopo che la stessa istituzione ha reso insignificante l’identità soggettiva attraverso una standardizzazione delle metodologie e l’adattamento passivo a ciò che viene richiesto. Egli non deve sentirsi guidato da un padre padrone, ma esercitare democraticamente il suo pensiero all’interno dell’istituzione, conoscendo la sfera giuridica che regola le diverse questioni riguardanti il proprio lavoro. L’identità dell’insegnante non deve sorgere che dal confronto dialettico con i suoi alunni e con i contenuti culturali; un’identità che viene ricevuta mentre la si esercita.
Un’identità forte che, attraverso il dialogo, permetta di non subire la pressione né di genitori armati di mille strumenti di comunicazione e controllo, né della “completezza” dei libri di testo, oramai tutti somiglianti e sempre più vasti a causa della concorrenza tra case editrici, ma che agisca con decisione verso ciò che ritiene importante, anche se ciò esula dallo stesso libro.
Serve perciò un libro di testo essenziale, che sia un supporto e non l’esclusivo punto di riferimento del programma; un libro per questo aperto alle peculiarità della classe, alle quali l’insegnante deve rispondere inventando esercizi specifici ed adeguati (la partecipazione degli alunni cambia, quando colgono un esercizio inventato per loro anche lì per lì dall’insegnante, piuttosto che un esercizietto estratto all’interno di una serie numerica). Un insegnante che mantenga la barra sullo sviluppo psico-fisico degli alunni e che di conseguenza tralasci gli argomenti del testo troppo astratti per le capacità intellettive di chi ha davanti.
Altrettanto importante è evitare l’identità limitata e irresponsabile del funzionario-esecutore di quanto gli viene imposto dalla moda didattica del momento. Lo sguardo dell’insegnante deve infatti prima fondarsi sulla relazione umana profonda ed essere così attento ai piccoli segnali che indicano un disagio familiare degli alunni. Quest’insegnante deve essere sollecito e coraggioso attivandosi, nei casi più gravi, presso i vari servizi senz’alcuna paura di affrontare situazioni che esulano dalla didattica.
Egli non deve guardare solo all’aspetto nozionistico, ma portare l’attenzione degli alunni anche su quei comportamenti irrispettosi dell’altro oggi sempre più frequenti; e correggerli. Anche se ciò porti a frizioni con i genitori.
Un insegnante attento al linguaggio e alle singole parole che usa. Perché queste generano mondi. Di questa creazione l’insegnante si deve sentire responsabile.
Metodi
– l’agire in classe deve essere fondato sul soffermarsi sui contenuti essenziali con tempi distesi adeguati all’approfondimento, anche attraverso l’uso di materiali concreti che facciano vedere e radicare i concetti. I bambini infatti non hanno ancora completato lo sviluppo del pensiero astratto.
Questo agire dev’essere altresì fondato sul dialogo e sull’ascolto partecipato, non sul modello comunicativo che sottostà alle mille metodologie oggi in voga. Perché con il dialogo si impara ad ascoltare (oggi è una criticità delle nuove generazioni), a vedere altre vie non immediate; per il bambino il dialogo significa cogliere che c’è l’insegnante al suo fianco e che non è lasciato da solo, in balia della fredda tecnica. L’insegnante, in questo dialogo, deve argomentare, mostrando sempre più, anno dopo anno, un’interpretazione soggettiva dei contenuti, che apra a sua volta a domande ancora senza risposta. Solo così si sproneranno gli allievi a ricercare a loro volta un’interpretazione soggettiva di testi ed eventi;
– gli argomenti non vanno consumati con fretta produttiva, ma ci si deve soffermare a lungo su di essi, così da dare loro la possibilità di radicarsi nel soggetto;
– gli argomenti vanno visti ed affrontati da più punti di vista, così da dare a tutti la possibilità di trovare il proprio. Ciò serve anche ad aprire la mente al possibile che non si è visto prima, alle sfumature di senso e di significato;
– prestare attenzione alla prospettiva degli ultimi e degli sconfitti, come momento importante per rompere la riproduzione/implementazione del sempre uguale;
– gli argomenti già affrontati vanno ripresi anche successivamente, magari quando altri contenuti li richiamino o gli siano vicini. Tutto questo non produce una scuola noiosa perché, con una riduzione degli alunni per classe, è possibile seguire le diversità di ognuno. Inoltre, il soffermarsi sugli argomenti ma con punti di vista diversi dà a tutti la possibilità di esercitarsi in modo sentito, sorretti dall’attenzione dell’insegnante e dallo sperimentare la novità anche nella stessa cosa. Il sostare in questo modo fa sì che il più gran numero di alunni per classe assimilerà i contenuti essenziali secondo le proprie peculiarità soggettive;
– l’agire dell’insegnante deve tendere all’unità della classe. Perché è questa tensione che chiama tutti verso l’alto, al contrario della tendenza atomizzante attuale, che molte volte porta ad una dispersione/appiattimento. Un insegnante che pretenda dal gruppo classe, correggendo gli errori e proponendo attività con il giusto ritmo dettato dalla sua maestria, è ingrediente fondamentale. La differenziazione eventuale e momentanea delle attività deve essere volta a far sì che il singolo non si stacchi dal gruppo perdendo così il beneficio della collettività.
– il rifiuto della competizione per rendere frizzante la scuola (nei momenti della valutazione per test e della quantità in relazione agli altri) e la ricerca del dialogo con l’interesse profondo che comporta.
Piano istituzionale
– eliminare tutti i progetti che arrivano dall’extrascuola ed implicitamente danno una direzione eteronoma e frammentata alla scuola (l’insegnante può sempre crearne e costruirne di propri concordanti col suo modo di insegnare). Non di rado essi sono belli, sì, ma sono slegati tra loro; ed essendo finiti in sé favoriscono un atteggiamento di fruitori/consumatori che non aiuta l’interpretazione e l’approfondimento.
– limitare l’adesione alle varie “giornate” dedicate alla Terra, ai nonni, all’inclusione e via elencando. La scuola deve perseguire l’universalità nell’ora di lezione con i suoi contenuti culturali e non accoglierla come somma di stimoli provenienti dall’esterno dopo che la si è allontanata con l’iperspecialismo.
– non accettare che sia l’esterno a dettare i ritmi e le attività, o la competizione a favorire l’interesse. Questo deve avere origine nel soggetto nel suo confronto con i contenuti culturali.
– riduzione del numero di alunni per classe, così da poter seguire con attenzione e in modo mirato tutti gli studenti senza quell’indifferenza che si palesa quando la tecnica agisce al posto dell’insegnante, una tecnica uguale per tutti ed indifferente ai singoli.
– orario scolastico. Meno ore giornaliere, su sei giorni alla settimana, perché la dimensione culturale è diversa da quella produttiva. Aumentare le ore contraendo i giorni è strategia adatta alla produzione di fabbrica, dove l’efficienza si può ottenere comunque. Il lavoro intellettuale, incentrato su canoni culturali, lascia segno profondo se affrontato per poco tempo ma tutti i giorni. Altrimenti è labile e l’attività compilativa (in una giornata da 5 ore o più per bambini dai 6 anni in su è preponderante) comporta un abituarsi ad affrontare le questioni culturali con spirito di fabbrica e pragmatico, che fa perdere il senso della valenza formativa della scuola.
– rivisitazione dei programmi all’interno dei PTOF e a livello ministeriale. Non è possibile che bambini di 11 anni non sappiano dove sia una città italiana, una provincia e quali siano le caratteristiche di un territorio; che non sappiano dove sia una città o uno Stato europeo. Non è possibile che non sappiano cosa sia successo dal Medioevo ai giorni nostri, che rimangano senza punti di riferimento di fronte ad una commemorazione, alla intitolazione della via dove abitano, davanti a fatti che richiamino altri fatti storici. È ora di finirla e cambiare i programmi di studio. Non si può delegare la “conoscenza” degli argomenti alla connessione digitale che è per forza di cose estemporanea e non rigorosa, anche perché se si ignora l’esistenza di una cosa non la si può neppure ricercare attraverso i mezzi tecnologici; il che restringe l’orizzonte e abitua i futuri alunni a un ruolo di consumatori di ciò che di volta in volta gli viene dato: meri utilizzatori di strumenti che gli verranno forniti da altri.
– ripensare la valutazione abbandonando la logica dei test, che portano alla triade risultato-misurazione-competizione, oltretutto su risposte già conosciute. Nulla nella vita è più stupido che rispondere a domande la cui risposta è già scritta.
Inoltre si assiste oggi all’espropriazione della valutazione (molte volte un auto-esproprio praticato nei Collegi docenti), con l’insegnante che seleziona singole frasette preconfezionate da apporre in modo paratattico al Documento di valutazione. Proprio quando se ne afferma la centralità in riferimento al sistema, si assiste alla sua corrispettiva insignificanza sul versante umano, con documenti tutti uguali e che nulla dicono di ciascuno. È ora che l’insegnante si riappropri della valutazione attraverso l’esercizio della soggettività unita alla responsabilità; rispondendo non al potere burocratico, ma ai piccoli uomini che ha davanti e redigendo documenti che siano rivelativi dell’alunno non solo nelle parti note, ma soprattutto in quelle meno note. Vero terreno, questo, dove deve radicarsi ogni insegnante;
– correggere l’attuale “modularizzazione” del tempo pieno. Negli ultimi anni si è affermata la compresenza non più dei due insegnanti per classe, ma di tre o più, spesso frammentati. Il che rende difficoltosa la realizzazione di laboratori e altre attività, modalità di lavoro molto importanti in virtù delle molte ore passate a scuola. Sarebbe infatti impensabile tenere seduti per tutto il giorno bambini dai sei anni.
È inoltre importante sottolineare come le ore di sostegno assegnate agli alunni certificati siano legate all’orario del docente e non alle ore effettive di frequenza che, nel caso del tempo pieno, sono quasi doppie rispetto a quelle di coloro che frequentano l’orario antimeridiano. Così l’insegnante si trova in difficoltà a seguire gli alunni più bisognosi.
Desideriamo ribadire l’importanza della Scuola elementare: farla bene significa gettare una base fondamentale per ogni altro passo nella cultura e nella vita. Se viene a mancare questa base per tutti, fornita in modo democratico, si pregiudica il futuro comunitario e soggettivo di ognuno, con la restituzione di un’apparenza di preparazione quando nei fatti si riduce la soggettività a un’individuazione di consumatori passivi e duttili, malleabili e mimetici perché vuoti; e proprio per questo succubi di un esterno che di volta in volta ammannisce un senso eteronomo il cui adattamento costituisce la cambiale per avere un’identità.
Insegnare i fondamenti del sapere in modo aperto, dialogico, radicato e rigoroso porta a risultati non predeterminati. E proprio per questo liberi ed umani.
Si sta distruggendo la scuola nelle sue finalità formative e didattiche più profonde.
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Già…
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Concordo pienamente su tutti i punti di questo interessantissimo articolo. Nella mia carriera di insegnante elementare ho sempre cercato di preparare gli alunni vedendoli come futuri cittadini e non come consumatori dando loro gli strumenti critici necessari per il raggiungimento dei loro obiettivi e la loro felicità e ne raccolgo ancora i frutti (affettuosi) dopo anni.
Grazie per il Suo impegno
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❤
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Gentile Liliana,
la ringrazio delle sue parole.
Chi ha l’idea di uomo (e di conseguenza di scuola) espressa nelle sue parole, è necessario che la faccia sentire: nelle assemblee, nei cortili, nelle aule, negli Organi collegiali. E si comporti coerentemente con essa nella pratica quotidiana. Si deve realizzare altro e di conseguenza contrastare tutto ciò che oramai risulta insopportabile. Non lo si deve più tollerare.
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