Quando si dice INDIRE. Lettera aperta alle curatrici dell’edizione italiana di World-Centred Education, di Gert Biesta

Gentili Alessandra Anichini e Laura Parigi, innanzitutto vi ringraziamo di aver curato l’edizione italiana del libro World-centred education. A View for the Present (diventato Il mondo al centro dell’educazione. Una visione per il presente, Roma, tab edizioni, 2023, con una traduzione forse non felicissima del titolo) di Gert J.J. Biesta, dei più importanti e originali filosofi dell’educazione del nostro tempo.

Ci stupisce però che, proprio nell’introdurre il pensiero di Biesta, da noi particolarmente apprezzato, troviate l’occasione per criticare il nostro Manifesto per la nuova Scuola, scritto nel 2021 (https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/ ), con rilievi che ci sembrano francamente fuori bersaglio. Scrivete in particolare: 

La contrapposizione si dilata fino a trasformarsi in un vero e proprio conflitto tra sostenitori del “metodo” e sostenitori di “contenuto”, come se dovesse necessariamente stabilirsi una disputa tra chi crede nella formazione per la formazione, quasi a prescindere dai temi affrontati (in nome dell'”imparare ad apprendere”), e chi, viceversa, sostiene che la crescita dei soggetti passi dall’acquisizione del più alto numero possibile di conoscenze, rigorosamente disciplinari. Non sempre i sostenitori della tradizione sono i meno attenti ai valori democratici, anzi. Tutto questo confonde, crea strane convergenze, difficili da interpretare. A dimostrazione di questo, possiamo citare il significativo caso del Manifesto per la nuova scuola, proposto da un gruppo di docenti e firmato da autorevoli intellettuali italiani. «La scuola deve tornare a essere principalmente un luogo di conoscenza e relazione scrivono gli estensori del Manifesto; «Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali, la loro elaborazione e acquisizione – a partire da un’approfondita e reale alfabetizzazione – gli studenti potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società».
Dichiarazione incontestabile, che denuncia la crescente e preoccupante disattenzione nei confronti del valore della cultura. I contenuti culturali sono certamente il cuore della scuola e tuttavia ci sembra pericoloso rinnegare ogni tentativo di rinnovamento didattico che tenti (talvolta malamente, lo ammettiamo) di delegittimare una scuola autoritaria e classista, troppo spesso complice del divario tra studenti provenienti da diversi contesti sociali e culturali. Non basta, infatti, «restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale». È necessario anche chiedersi quanto dei contenuti consegnati agli studenti generi sapere autentico e utile alla formazione del soggetto, alla sua crescita critica e consapevole
.

Rispetto a quanto affermate, ci preme rispondere soprattutto su tre questioni:

  1. È verissimo che non tutti i contenuti sono uguali e che occorre una riflessione culturale e pedagogica approfondita su ciò che è utile proporre alle nuove generazioni e perché (si vedano in proposito le interessantissime considerazioni di Laval e Vergne sviluppate nel libro Educazione democratica e riportate qui: https://nostrascuola.blog/2022/12/21/la-scuola-democratica-per-davvero/ ); questa riflessione richiede però che si presti particolare attenzione alle conoscenze, ai fondamenti epistemologici e all’evoluzione delle discipline in cui queste conoscenze sono state organizzate. Purtroppo, come certo sapete, il dibattito sui contenuti, su cosa valga la pena insegnare alle persone in crescita e perché, è scomparso quasi del tutto dal discorso sulla scuola, sostituito dall’inquietante onnipresenza della questione delle metodologie, forme vuote che devono essere per definizione (e non si sa rispetto a cosa e secondo l’opinione di chi) “innovative” e naturalmente digitali. Torniamo allora a proporre che la parola “innovazione” sia sempre seguita almeno da un complemento di specificazione, da un complemento di causa e dalla spiegazione dettagliata dello scopo che si vuole perseguire. A questo proposito,
  1. Nel nostro manifesto non c’è affatto un rifiuto della riflessione sulle metodologie didattiche, tutt’altro. Se avete letto con attenzione ciò che chiediamo, avrete notato che vogliamo che si stabilisca un giusto rapporto tra mezzi e fini; il che significa che i metodi e gli strumenti didattici devono essere funzionali a determinate finalità educative, didattiche, culturali, senza diventare delle metodologie fini a se stesse, funzionali, per dirla tutta, solo al ricco mercato della “formazione” e dell’ “innovazione”. Siamo i primi a pensare che i contenuti e i metodi didattici che ne permettono l’acquisizione e la rielaborazione non possano che stare insieme; non esistono invece metodologie universali e valide a priori – in realtà forme vuote – applicabili o imposte in astratto a prescindere dalle specificità disciplinari, dagli argomenti affrontati, dalle conoscenze e dalle abilità su cui si vuole lavorare, dalle riflessioni che si vogliono suscitare, dalla qualità della relazione scolastica, dall’età degli studenti, dalla situazione educativa e dalle caratteristiche della classe. Ci sembra un’osservazione di semplice buon senso, che chiunque lavori concretamente con una classe per un periodo sufficientemente lungo non può che dare per scontata, se si considera l’insegnamento prima di tutto come capacità di entrare in relazione con con chi si ha di fronte. Per parafrasare Biesta, è difficile immaginare un’educazione incentrata sulle metodologie, che non tenga conto né della ricchezza e della specificità dei saperi disciplinari, né delle relazioni umane uniche e non standardardizzabili che si creano nella classe tra studenti e insegnanti.
  2. Proprio chi ha letto Biesta, non dovrebbe considerare “autoritarismo” (che è sempre fine a se stesso) la richiesta di un ruolo importante per la scuola e per gli insegnanti nel promuovere l’ “adultità” degli studenti, legata in Biesta al confronto con l’altro da sé, dove “altro” è inteso sia nel senso della relazione umana sia nel senso della conoscenza. È difficile che il volgersi verso questo “altro” avvenga in modo spontaneo da parte degli studenti, che tendono come tutti alla riproduzione inerziale dell’esistente e del già noto e devono perciò esservi indotti con un atto inizialmente unilaterale, che è assunzione di responsabilità adulta, da parte degli insegnanti. Scrive Biesta: «Se sostituiamo l’insegnamento-come-controllo con una presunta libertà di significazione, in realtà non facciamo altro che rafforzare la non-libertà dei nostri studenti: negli atti di significazione gli studenti rimangono con se stessi e ritornano sempre a se stessi, senza mai arrivare al mondo, senza mai raggiungere la (loro) soggettività. Si inizia così a delineare un approccio non egologico all’insegnamento, un approccio che non mira a rafforzare l’Io, ma a interrompere l’oggetto-io, a volgerlo verso il mondo, in modo che possa diventare un soggetto-sé» (Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p.77). L'”interruzione”, secondo Biesta, rappresenta addirittura il “momento iniziale di ogni processo educativo”. Questo tema è importante anche perché contrasta con la tendenza attuale a lasciare gli studenti lì dove sono, a impostare una didattica “per competenze” – e ora l’ “orientamento” – proprio intorno a delle presunte “inclinazioni” tutte al presente (o peggio, alle richieste di un certo tipo di “capitale umano” da parte dei territori), che vengono precocemente fissate e immobilizzate, con l’esclusione delle nuove generazioni da ogni possibilità di sviluppo umano e culturale in direzioni diverse e imprevedibili rispetto al già dato, attraverso l’apertura di orizzonti conoscitivi ed esistenziali nuovi.

Ci sembra insomma paradossale che ci si accusi di voler separare metodi e contenuti, di trascurare la funzione educativa di ciò che viene proposto agli studenti o di dare per scontati i contenuti disciplinari: siamo infatti i primi a contestare questa separazione, la scomparsa della riflessione sulla validità culturale ed educativa dei contenuti disciplinari, la negazione del carattere dinamico della conoscenza (oggi congelata in poche “competenze” stabilite a priori secondo indicazioni di realtà esterne alla scuola, anche sotto forma di “soft skills”, a sostituire ogni seria psicologia: cfr. https://www.micromega.net/chi-detta-legge-nella-scuola-italiana/ ) e della sua natura profondamente relazionale e interpersonale.

Piuttosto, visto che si parla di Biesta, ci saremmo aspettati da parte vostra un’autocritica più decisa, non a livello personale ma a nome dell’istituzione di cui fate parte; ci sembra infatti che INDIRE, presso cui lavorate come ricercatrici, forse per la sua natura e funzione eserciti una forte spinta proprio verso quella che Biesta chiama “learnification”*, cioè, semplificando, verso l’introduzione nel discorso educativo e culturale di una forte burocratizzazione e di un formalismo astratto e privo di sostanza. Basti pensare alle frontalissime lezioni unidirezionali e prive di possibilità di interlocuzione – inflitte ai docenti neo-immessi in ruolo – il cui unico contenuto è “basta con la lezione frontale”, “basta con le conoscenze”, con corteo di astratta ideologia competenziale al seguito; oppure a ciò che accade nei corsi per i cosiddetti “orientatori” (cfr. https://laletteraturaenoi.it/2024/06/10/se-20-ore-vi-sembran-poche-la-formazione-indire-per-orientatore-e-tutor/ ); oppure, ancora, a quanto viene proposto a “Didacta”, “fiera dell’innovazione” patrocinata da INDIRE. Questo è un assaggio del programma di quest’anno: https://fieradidacta.indire.it/it/programma-didacta-italia-puglia-2024.

Si potrebbe anche parlare della “Scuola di alta formazione”, della cui gestione INDIRE, insieme a INVALSI, ha buona parte della responsabilità. Nel famigerato “decreto 36” (poi legge 79) del governo Draghi che la istituisce, così vengono definiti – dopo uno striminzito riferimento ai contenuti disciplinari – gli ambiti di “formazione” degli insegnanti di cui la suddetta scuola dovrà occuparsi: 

– “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei”;

– “governance della scuola: teoria e pratica”;

– “leadership educativa”;

– “staff e figure di sistema: formazione tecnico metodologica, socio-relazionale, strategica”;

– “continuità e strategie di orientamento formativo e lavorativo”;

– “potenziamento delle competenze in ordine alla valutazione degli alunni”;

– “profili applicativi del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche”;

– “tecniche della didattica digitale”.

Ci sembra difficile riuscire a trovare un esempio altrettanto emblematico di learnification a-(o anti-)culturale, dove tra l’altro non c’è nessun cenno alla fondamentale psicologia dell’età evolutiva, che forse si pensa di sostituire con la “leadership educativa”, più adatta a uno stage motivazionale aziendale che alla scuola. Si tratta di una visione dell’insegnamento in completa antitesi a quella che teorizza Biesta. Proprio per questo ci stupisce che il riferimento polemico si rivolga al nostro manifesto piuttosto che ad alcune tendenze rappresentate proprio da INDIRE, come se si cercasse un modo per depotenziare il messaggio fortemente critico che il pedagogista anglo-olandese rivolge alle politiche delle riforme scolastiche che anche in Italia si stanno definitivamente affermando**. 

Insomma, speriamo che il vostro discorso sulla necessità di tenere insieme contenuti culturali e metodi di insegnamento segni anche un ripensamento profondo del ruolo di INDIRE (su cui cfr. anche https://www.roars.it/dopo-linvalsi-ora-tocca-allindire-bacchettate-dalla-corte-dei-conti/). Saremmo felici di un riscontro che permetta di aprire una seria discussione in proposito. Grazie,

Gruppo La nostra scuola 

Associazione Agorà 33

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*«Learnification è un termine che si riferisce a una tendenza, relativamente recente, che mira a esprimere molto, se non tutto, ciò che c’è da dire sul tema dell’istruzione in termini di apprendimento. Questa si manifesta nell’abitudine di riferirsi a studenti, alunni, bambini e adulti, come “discenti” (learners), a riferirsi alle scuole come “ambienti di apprendimento” o “luoghi deputati all’apprendimento” e a vedere gli insegnanti come “facilitatori dell’apprendimento”. La ridefinizione dell’ “educazione degli adulti” (“adult education”) nei termini del ‘lifelong learning’ (“apprendimento permanente”) è un nuovo esempio della nascita di un “nuovo linguaggio dell’apprendimento”, così come lo è l’ubiquità dell’espressione “teachingandlearning”.

Il punto principale che desidero sottolineare è che il linguaggio dell’apprendimento non basta a descrivere il processo educativo. 

[…] Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno

Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla».

Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, pp.40-41

** «Ecco, per esempio, una dichiarazione del rapporto UNESCO tratto dallo Shanghai lnternational Forum on Lifelong Learning, tenutosi nel 2010:

“Viviamo in un mondo complesso e in rapida evoluzione sociale, economica e politica, al quale dobbiamo adattarci acquisendo sempre più rapidamente nuove conoscenze, abilità e attitudini, in un’ampia gamma di contesti. Un individuo non sarà in grado di attrontare le sfide della propria vita a meno che non diventi un Lifelong Learner e una società sarà sostenibile solo se si evolve in una società in continuo apprendimento”.

Questo è solo un esempio di come possa essere utilizzato – forse potremmo dire sfruttato – il tema dell’insegnamento al fine di perseguire un’agenda politica molto precisa, che vada a vantaggio di un particolare segmento della società e dei suoi specifici interessi. Stando a questa citazione, l’apprendimento sembra essere al servizio di un’economia capitalista globale, che ha bisogno di forza lavoro flessibile e adattabile. In tale contesto, l’apprendimento è descritto come un atto adattivo, senza che ci si chieda a cosa ci si dovrebbe adattare e perché, prima di ‘decidere’ di farlo. La ‘libertà di apprendere’ dell’individuo […] sparisce, così come è assente una concezione dell’apprendimento al servizio della democrazia […]. L’apprendimento diventa un dovere al quale non ci si può sottrarre, il che conferisce una sfumatura ironica alla parola lifelong presente nell’espressione lifelong learning.

Siamo di fronte a un chiaro esempio di dinamica relativa alla ‘politica dell’apprendimento’, nel contesto della quale i problemi politici – le questioni relative all’economia, all’occupazione e alla coesione sociale, per esempio – sono trasformati in problematiche di apprendimento e agli individui è assegnato il compito di risolverle attraverso l’apprendimento».

«La domanda che non viene mai posta è se l’ambiente a cui il sé sta cercando di adattarsi sia un ambiente a cui ci si dovrebbe adattare, un ambiente a cui valga la pena adattarsi. Il sé – e forse dovremmo dire il sé adattabile e adattivo – non può mai generare, da solo, un criterio con cui valutare ciò a cui si sta adeguando. È quindi preso, in quanto ‘oggetto’, da ciò a cui si sta adeguando, un problema che ho cercato di esemplificare servendomi dell’immagine del robot aspirapolvere» (Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p.43, p.75).

2 pensieri riguardo “Quando si dice INDIRE. Lettera aperta alle curatrici dell’edizione italiana di World-Centred Education, di Gert Biesta

  1. sono d’accordo! Di fatto si ignorano le persone degli allievi nella loro complessità, diventano “capitale umano” adattato a una logica aziendalistica. La scuola deve avere tutt’altre finalità: “formare cittadini sovrani e responsabili” avrebbe detto il mio don Milani. Ma si mira proprio a deresponsabilizzare!

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