
Quanto bisogna essere ingenui (o ottusi, o in malafede) e lontani da ogni rapporto vivo con il sapere e con l’insegnamento per pensare che un’ “innovazione” scolastica buona per tutte le occasioni possa essere calata in astratto dall’alto, a sostituire la lenta stratificazione umana e culturale di esperienze, conoscenze, confronti, tentativi, indispensabile per imparare a fare davvero un mestiere estremamente complesso e mai uguale a se stesso come quello dell’insegnante? E infatti…
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Quello dell’insegnante è un mestiere che richiede passione culturale, approfondite conoscenze disciplinari, consapevolezza di ciò che si sta facendo, capacità di comunicare e di entrare in relazione con le persone in crescita, tatto pedagogico, capacità di graduare flessibilità e determinazione nelle richieste agli studenti a seconda delle situazioni e delle difficoltà. Poiché mette in gioco la complessità degli esseri umani e realtà relazionali sempre diverse, in una triangolazione sapere-studenti-insegnanti che non è mai uguale a se stessa, il lavoro dell’insegnante acquista valore ed efficacia solo attraverso l’esperienza, e non c’è modo di standardizzarlo.
Le ricette pronte in questo campo non funzionano; anzi, a dire la verità, sono l’anti-scuola. È per questo che chi vuole vendere soluzioni “definitive” e a una dimensione – i piazzisti dell’Ai e degli “ambienti di apprendimento innovativi”, i fantagogisti dell’ “apprendimento autonomo” e delle “soft skills” o i fanatici no-voto… – deformano e banalizzano il discorso sulla scuola con cumuli di sciocchezze mentre, incuranti del senso del ridicolo, cercano di far passare per “scienza” la riduzione dell’esperienza scolastica alla misura della propria ignoranza o dei propri interessi molto poco culturali.
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Divertentissimi e sconcertanti quelli che con l’ “intelligenza artificiale” sono già alla quarta entusiasmante ricetta totale, definitiva e scientifica per la scuola; e ogni giorno l’ultima novità è quella di cui non si può fare a meno, mentre la penultima scompare giustamente nel nulla (così il fallimento commerciale del metaverso, significativamente, ne ha segnato la scomparsa anche dal ricettario pseudo-didattico).
Ai colleghi su cui questa retorica sembra fare presa, chiederei: ma non ce l’avete un’idea vostra di scuola, al di là di un marketing dell’ “innovazione” e della “formazione” che deve necessariamente presentare sempre nuovi prodotti? Ce l’avete qualcosa di importante e di urgente da insegnare? Dove siete stati fino a oggi? Con il tempo e l’esperienza non avete sviluppato un modo vostro di relazionarvi con gli studenti e di proporre certi saperi? Altrimenti dove si innestano tutti gli arricchimenti che continuano ad arrivare dal confronto con i colleghi, dalla relazione con le classi, dall’approfondimento culturale e didattico, dalle nuove intuizioni, dalla realtà? Non ce l’avete un pensiero vostro su cosa valga la pena insegnare, sul perché e sul come, che duri più dello spazio di un mattino, o del breve giro che porta alla prossima vendita? (cfr. https://www.vocedellascuola.it/il-discount-della-scuola/)
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Lasciare che un abuso sempre più precoce degli strumenti digitali impedisca nei bambini anche molto piccoli lo sviluppo di alcune capacità importantissime, poi naturalizzare l’assioma – fondato non si sa su cosa – che gli strumenti digitali, in quanto “innovativi”, sarebbero di per sé didatticamente più efficaci, specie con i “nativi digitali”. Ultimo passo, magnificare – anche qui non si sa su che basi – una presunta capacità dell’ “intelligenza artificiale” di risolvere le difficoltà cognitive e relazionali degli studenti, più e meglio di relazioni umane ed educative che i veri esperti dell’età evolutiva, sempre più inascoltati, individuano come cruciali e fondanti.
Insomma, nient’altro che delle efficaci e criminali strategie di marketing
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Piccoli bagni di concretezza…
Senti tanti discorsi deliranti sulle competenze, sull’AI usata per sviluppare l’ “intelligenza emotiva” [sic], sull’ “apprendimento autonomo”, sulle life skills, su un’ “innovazione continua” non si sa più rispetto a cosa, sull’inefficacia di una presunta “didattica trasmissiva” che sembra in realtà identificarsi con la didattica tout court, sugli orrori di una presunta lezione unidirezionale perché “frontale” (meglio quella dorsale?), sul “produci la tua uda in cinque minuti”, su una scuola “più contemporanea”, sull’inutilità delle conoscenze (meglio evidentemente l’ignoranza), sugli “ambienti di apprendimento innovativi”, sulla “neurodidattica”, sui dirigenti “promoter dell’innovazione” ecc ecc ecc, discorsi fatti da gente che non ha idea di cosa significhi insegnare e che non sa nemmeno come è fatto un adolescente, e poi…
Poi vedi i tuoi studenti quindicenni che rimangono a bocca aperta quando dici loro che luglio e agosto prendono i nomi da Giulio Cesare e da Augusto, che settembre, ottobre, novembre e dicembre si chiamano così perché un antico calendario faceva iniziare l’anno a marzo, che gennaio è legato al bifronte Giano, dio dei passaggi… “A professo’, sa che non c’avevo mai pensato, che i nomi dei mesi volevano dire qualcosa?”.

