
… dimenticando che “innovare”, a scuola, significa insegnare agli studenti a guardare il mondo con occhi nuovi
È uno spettacolo veramente singolare quello dei decrepiti futuristi che vedono in ogni normale lezione il fantasma di una terribile quanto inesistente lezione frontale unidirezionale, priva di dialogo e di relazione (qualche lontano trauma adolescenziale mai elaborato?); nelle spiegazioni sempre nuove degli insegnanti, anche quando siano calibrate sugli studenti e sull’argomento di cui si discute, un violento e passivizzante “riempire vasi”; in qualunque lavoro comune sulle conoscenze attraverso il pensiero e la parola umana il “nozionismo”; e poi si entusiasmano per le “opportunità didattiche” offerte dall’Intelligenza Artificiale, per le possibilità che il dialogo autistico con un programma capace di simulare il linguaggio umano senza comprenderlo – con tutta la sclerotizzazione banalizzante del pensiero che ne deriva – dovrebbe aprire agli studenti.
È l’eterno spettacolo della stupidità e del conformismo che si ripropongono in forme sempre nuove, ma anche la tradizionale disponibilità italica a mettersi comunque dalla parte del potere, lì dove girano i soldi dell’ “innovazione” e della “formazione”, e a trovare il modo di giustificare – anche nel mondo “intellettuale” – qualunque cosa voglia il padrone, in un inestirpabile “Franza o Spagna…”
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Un articolo molto bello e interessante su “Domani”, a proposito del presunto rapporto tra “innovazione didattica” e tecnologia: https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/scuola-illudersi-che-tecnologia-porti-innovazione-di-per-se-agjgn3vu. Vorrei aggungere soltanto una considerazione; nel farlo, ho in mente la lettura del libro di Stefano Borroni Barale L’intelligenza inesistente (Milano, Altreconomia, 2023), utilissimo per chi voglia riflettere criticamente e con cognizione di causa sull’argomento.
Il punto è questo: non c’è nessuna possibile educazione all’uso critico e consapevole degli strumenti digitali in assenza di un’autentica formazione culturale. Su cosa si possono misurare questi strumenti e i sistemi che utilizzano, infatti, se non si parte da un punto di vista esterno culturalmente fondato, che permetta di guardare l’oggetto tecnologico come un prodotto di qualcos’altro (conoscenze, scelte, interessi economici, fattori materiali, circostanze storiche, ideologia…)? L’alternativa è considerare il digitale come un mondo che si è fatto da sé da accettare e utilizzare passivamente (per essere in realtà a propria volta usati) e all’interno del quale “vivere”: non c’è infatti conoscenza possibile se non si ha l’opportunità di confrontare ciò di cui si ha esperienza immediata con qualcos’altro. Nel caso dell’Ai questo confronto poi sarebbe indispensabile, visto che le risposte che dà sono probabili, e non di rado sbagliate: il paradosso è che gli unici che potrebbero usare con qualche utilità questo strumento sono coloro che conoscono già la risposta a quello che chiedono, o che sono comunque in grado di individuare gli errori. Cosa che gli studenti, per ovvi motivi legati a una preparazione ancora da acquisire, non possono fare.
Naturalmente “formatori”, promoter aziendali improvvisatisi esperti di scuola, dirigenti affaristi premono (si capisce, dal loro punto di vista) affinché la formazione dei giovanissimi sia identificata con l’uso stesso degli strumenti digitali, con un addestramento che chiude tutti gli orizzonti del pensiero.
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Un articolo del “Corriere della sera” dà conto di una ricerca condotta al MIT di Boston, secondo la quale l’uso di Chatgpt per compiti di scrittura avrebbe ripercussioni negative sullo sviluppo delle connessioni cerebrali
(cfr. https://www.corriere.it/economia/intelligenza-artificiale/25_giugno_20/chatgpt-cervello-risultati-studio-mit-432a4af7-cc10-4e7a-aba8-e56ca5206xlk.shtml ).
Non era difficile immaginare che la capacità di elaborare ed esprimere pensieri fosse stimolata dall’esercizio del pensiero e della scrittura, e che la delega di alcune attività fondamentali (ricerca, categorizzazione e rielaborazione delle informazioni, ideazione, immaginazione, collegamenti, sintesi, formulazioni verbali…) a un sistema artificiale avrebbe provocato un’atrofizzazione di queste capacità; sono di quelle ovvietà di fronte alle quali i cultori delle “evidenze empiriche” e della sedicente “neurodidattica” si tappano tutti e due gli occhi: non possono certo correre il rischio di scontentare il padrone.
A fronte delle mistificazioni che proliferano nel campo della scuola attorno agli interessi economici, un giorno dovremo ricorrere al MIT anche per dimostrare che imparare a leggere e scrivere è meglio che rimanere analfabeti; o per far notare che l’uso dell’Ai negli esami universitari o nei concorsi per diventare insegnanti è una follia e un’assurdità devastante.
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Oggi il futuro unico e solo della didattica è l’Ai (potrebbe essere definito metaforicamente un “motore di ricerca” capace però, grazie a una continua ottimizzazione, di incrociare le informazioni e simulare il linguaggio umano su base probabilistica, senza ovviamente “comprendere” né le domande né le risposte che dà), un paio d’anni fa erano gli “ambienti d’apprendimento innovativi” e il metaverso, poco prima la “didattica digitale integrata” (cioè una comunicazione attraverso strumenti digitali anche quando si è faccia a faccia, per abituare alla quale, secondo qualcuno, la pandemia sarebbe stata un’ “opportunità”). Marketing che fluttua nel vuoto: nessun riferimento all’importanza dei saperi che strumenti e metodologie dovrebbero servire a veicolare; nessun tempo per verificare almeno se uno strumento è utile o no (mentre si accusano modalità didattiche fondate sul dialogo e sulla parola, che funzionano da sempre, di non si sa quali fallimenti); soprattutto, nessun riferimento all’esperienza concreta del lavoro scolastico e alla relazione educativa con gli studenti in carne e ossa, come se ogni sedimentazione dell’esperienza didattica e pedagogica venisse immediatamente cancellata da un presente senza spessore, come se l’insegnamento non dipendesse da chi lo pratica e da chi lo vive, in un processo che possiede una continuità e un senso, ma fosse gestito da mani lontane che apparecchiano ogni giorno un prodotto diverso da vendere.
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In mezzo al proliferare di individui straordinariamente ignoranti riciclatisi come “formatori” sull’uso dell’Ai a scuola, le illuminanti considerazioni di Enrico Nardelli, dell’università di Roma “Tor Vergata”, presidente di “Informatics Europe” e direttore del Laboratorio Nazionale “Informatica e Scuola” del CINI:
https://www.startmag.it/innovazione/tutti-i-nodi-dellia-vengono-al-pettine/
(in particolare sulla scuola cfr. https://link-and-think.blogspot.com/2023/11/intelligenza-artificiale-e-scuola-facciamo-chiarezza.html?m=1
e
https://link-and-think.blogspot.com/2024/01/il-ciclone-chatgpt-e-la-scuola-5-punti-chiave.html?m=1 ) ;
quelle di Stefano Borroni Barale, autore del libro L’intelligenza inesistente (Milano, Altreconomia, 2023; è in preparazione la seconda edizione, che uscirà a ottobre di quest’anno):
https://nostrascuola.blog/2024/12/29/breve-dialogo-sullintelligenza-artificiale/
e di Danela Tafani, docente di Filosofia politica all’università di Pisa:
https://centroriformastato.it/le-big-tech-e-il-racconto-dellintelligenza-artificiale/
