Chi c’è davvero dietro la protesta degli studenti all’Esame di Stato?

di Giorgia Loi
I fatti di questi giorni relativi a casi di studenti che protestano con prese di posizione drastiche contro l’Esame di Stato e più in generale contro il sistema dei voti, con le polemiche che ne derivano, sono diventati notizia, non perchè lo siano realmente, ma grazie all’enorme potere dei media, sfruttato da chi costruisce ad arte la notizia per veicolare un messaggio ben preciso: la scuola, cosí com’è, non funziona, gli studenti sono, loro malgrado, ostaggio di un sistema ormai superato che ne mortifica la vitalità.
La viralitá fa il resto: tifo da stadio e partigiani di entrambi gli schieramenti, testate che ribattono ossessivamente la notizia a caccia del click, spirito di emulazione, desiderio di visibilità. C’è chi eliminerebbe i voti, chi addirittura l’Esame di Stato, chi invoca la bocciatura come panacea di tutti i mali della scuola italiana, il ministro che promette severità e intransigenza in caso di futuri episodi analoghi di rifiuto delle prove d’esame. Qualcuno addirittura grida a gran voce dal proprio palcoscenico pretendendo di scrivere il manuale del perfetto insegnante e confondendo il teatro con l’aula.
E nel frattempo (soprattutto nei luoghi istituzionali) un dibattito serio e articolato sullo stato in cui versa la scuola italiana e sulla direzione che la politica da trent’anni le ha impresso, deve ancora aspettare. Il tracollo della scuola pubblica è conclamato, ma le ricette spacciate a destra e a manca, spesso da chi in aula non ha mai messo piede, tendono a semplificarlo, addirittura a banalizzarlo.
E invece appare urgente chiedersi se dobbiamo temere che in questo progressivo svuotamento nei contenuti della scuola, con la marginalizzazione della didattica, la mortificazione dei saperi disciplinari, l’invasione di attività altre e del Pcto, l’attacco all’attuale sistema di valutazione, ed ora perfino all’Esame di Stato, il vero obiettivo sia togliere valore legale al titolo di studio. Come è stato già detto e scritto anche da altri, il tutto servito attraverso una gradualità voluta, fondata su piccoli cambiamenti spacciati per necessari, e addirittura vincenti, a cui la massa si abitua facilmente. Se cosí fosse, che tipo di prospettiva si aprirebbe?
Quando parliamo di valore legale di una laurea o di un diploma intendiamo che ha validità ufficiale per l’accesso a concorsi pubblici, abilitazioni professionali, e determina punteggi o requisiti minimi. Questa è stata, dal 1948 e fino ad oggi, l’opportunità che la nostra Costituzione ha dato al figlio del medico come a quello dell’operaio: “La scuola è aperta a tutti. […] I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 34).
Il concetto di scuola pubblica come organo della democrazia nasce nel secondo dopoguerra, dalle macerie di una società fondata sul classismo e la discriminazione. Ecco perchè abolire il valore legale del titolo di studio ottenuto nella “scuola di tutti” sarebbe un pericolosissimo punto di non ritorno, l’antidemocrazia per eccellenza, perché favorirebbe scuole e università private in accordo con le imprese; un processo che è già in atto e che aggraverebbe l’aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche. Gli studenti di famiglie abbienti, infatti, potrebbero permettersi università prestigiose, o estere, acquisendo un vantaggio competitivo, mentre tutti gli altri sarebbero svantaggiati, anche se con pari merito.
C’è poi da considerare che, senza un riferimento legale, il mercato del lavoro diventerebbe poco trasparente: i datori di lavoro potrebbero avere difficoltà a valutare le competenze di chi proviene da atenei meno noti e ci troveremmo di fronte ad una frammentazione del sistema, perché ogni ente pubblico o imprenditore potrebbe usare criteri propri per valutare i candidati; si genererennero in questo modo confusione e incertezza. Infine, chi ha investito tempo e risorse in un percorso statale, per un titolo conseguito in precedenza, vedrebbe il proprio percorso svuotarsi di senso e di utilità.
È quello che succede negli Stati Uniti, dove i titoli di studio non hanno valore legale per l’accesso al lavoro o a concorsi pubblici e
il mercato del lavoro valuta le competenze, il prestigio dell’università, le esperienze lavorative e le soft skills: un iter che si riveste di meritocrazia, ma che, in realtà, maschera una forte disuguaglianza tra studenti di college al top (pochi) e tutti gli altri (la maggioranza).
Si comprende che questa frattura tra chi ha i diritti e chi no non si può accettare in una vera democrazia, e che tutto parte proprio dall’istruzione che deve riversarsi in misura e condizioni uguali su tutti, perché essa apre le porte alla partecipazione consapevole, critica e costruttiva al bene comune. La Costituzione è chiara in questo senso, ma è realtà solo in parte, come diceva Calamandrei; in buona parte è ancora programma, ideale, speranza, lavoro da compiere che necessita di uomini e donne formati e preparati nella differenziazione dei loro carismi.
