Gli insegnanti, gli studenti, la conoscenza

I

Qualche considerazione a margine del grido liberatorio di Valentina Petri, che rompe la crosta del conformismo e dell’istupidimento collettivo necessario alla commercializzazione di una “formazione” e di un’ “innovazione” fatte di ignoranza e di vuoto (cfr. https://nostrascuola.blog/2025/09/21/formazione-senza-cultura-una-riflessione-di-valentina-petri/ ).

Le metodologie didattiche richiedono come premessa la padronanza e la conoscenza approfondita dei contenuti disciplinari; non possono essere disincarnate ma sono legate a discipline, contenuti, finalità particolari. Su questa fondamentale base si impianta la capacità di stabilire un dialogo educativo con le persone in crescita, di entrare in relazione attraverso il lavoro sulle conoscenze, in quello che è lo stile personale di insegnamento. In questo senso, per un bambino o un adolescente una disciplina prende davvero il volto di chi gliela insegna.

Così il filosofo dell’educazione Gert Biesta, in Riscoprire l’insegnamento:

«Il punto principale che desidero sottolineare è che il linguaggio dell’apprendimento non basta a descrivere il processo educativo.
[…] Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno.
Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla» (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, pp.40-41).

Oggi occorre ricordare l’ovvio, e cioè che è molto diverso insegnare matematica ai bambini della primaria, letteratura agli studenti delle scuole medie, fisica o storia alle superiori. Il che cosa e il come si insegna sono inseparabili: non c’è una metodologia universalmente valida e indipendente dal percorso della conoscenza, dalla personalità di chi vi è coinvolto, dalla qualità della relazione e dai contenuti su cui si intende lavorare. Il sapere stesso non è mai un’acquisizione definitiva, nemmeno per gli insegnanti, ma un processo aperto, fatto di studio e scoperte culturali concrete e incessanti, che continua anche in classe insieme agli studenti. Mentre insegna l’insegnante continua a imparare: una conoscenza ripensata insieme alla classe prende un altro aspetto rispetto a quello che aveva prima che si entrasse in aula.

Occorre insomma una sintesi tra contenuti disciplinari sempre da riscoprire (solo la proposta di conoscenze autentiche, vive e di prima mano riesce a coinvolgere e a interessare i giovanissimi), esperienze e riflessioni altrui sull’insegnamento (quelle che poi diventano idee e proposte metodologiche) e la propria fondamentale esperienza (grande assente nei discorsi sulla scuola, come se gli insegnanti fossero una tabula rasa da “riaddestrare” ogni volta da zero); questa sintesi, che è la base dello stile personale di insegnamento, ogni insegnante deve compierla in sé e calarla nell’interazione mai uguale a se stessa con persone in crescita e classi diversissime tra loro. Per questo le ricette burocratizzate e di quarta mano dei “formatori” – che portano lontano dalla realtà, dal dialogo educativo, da ogni autentica istanza culturale e conoscitiva – sono quasi sempre inutili o dannose, tanto più se si presentano come assolute e definitive.

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II

Anche nel caso in cui non la si condivida – soprattutto nel suo senso letterale – bisognerebbe riflettere a fondo sulla frase di Don Milani che in Lettera a una professoressa scrive che l’insegnante è una persona che non ha interessi culturali al di fuori dell’insegnamento.

L’interpretazione di questa frase è tutt’altro che semplice: nella sua forza paradossale non può essere ridotta a una banale sottovalutazione dell’importanza della cultura (non da noi almeno, ammesso che il Priore di Barbiana intendesse proprio questo), a un’assurda squalifica degli interessi culturali, a vantaggio di un ipotetico “fare” didattico privo di retroterra.

In realtà ogni insegnante sa che la cultura è confronto, condivisione e continuo dialogo: con se stessi, con chi ci trasmette la propria conoscenza e visione dell’esistente attraverso la scrittura, anche a distanza di secoli, con chi ci insegna qualcosa o impara da noi faccia a faccia; non può esistere una cultura autistica, che non produca frutti di pensiero, che non voglia essere comunicata, che non voglia prolungare se stessa – in forme imprevedibili a priori – anche nella mente di altre persone. Ecco, la classe è il luogo privilegiato in cui le conoscenze non solo vengono trasmesse, ma prendono forme nuove sotto i nostri occhi: mentre insegna ai propri studenti, entrando in contatto con la loro irriducibile singolarità e con la ‘mente collettiva’ della classe, l’insegnante via via scopre cose che lui stesso non sapeva, o non sapeva di sapere; e le sue conoscenze prendono nuova vita, un nuovo senso, una nuova finalità che a sua volta lo spinge a coltivarle più a fondo. In questo circolo virtuoso del pensiero, insegnanti e studenti, pur nella differenza dei ruoli e con un livello di consapevolezza culturale molto diverso, elaborano insieme qualcosa che non esisteva prima del loro incontro.

Per questo chi insegna è pago di quello che fa in classe con i propri studenti, e non cerca altro (ad esempio forme di “carriera” o di potere): lavorando sulle conoscenze insieme alla classe non fa che rielaborarle e attualizzarle anche per sé; mentre gli studenti, a loro volta, vengono a contatto con qualcosa di cui spesso non sospettavano nemmeno l’esistenza. È un percorso che arricchisce tutti e fa bene a tutti.

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III

Confesso l’orribile verità: invece di compilare solo moduli e griglie cerco di continuare a leggere e a studiare, per avere qualcosa di interessante da dire in classe (e perché, lo dico sottovoce, quello che studio e insegno mi appassiona). Spero di riuscire, nonostante questo, a mantenere il posto da insegnante.

Certo, qualcuno potrebbe chiedermi: perché perdi tempo con un libro di cinquant’anni fa come Il romanzo del Novecento, di Giacomo Debenedetti (raccolta di quaderni di appunti per cinque anni di lezioni universitarie, dal ’60 al ’66), invece di fare corsi sul metaverso, sull’ “intelligenza artificiale”, sulla “valutazione educativa”? Beh, ad esempio perché Debenedetti in due sole pagine riesce 1) a spiegare con straordinaria chiarezza qual è il cuore concettuale della psicoanalisi; 2) a mostrare le sue applicazioni nelle discipline antropologiche e allo studio delle manifestazioni culturali della vita dei popoli; 3) a connetterlo all’interpretazione del romanzo Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi. Se fa tutto questo in due pagine, ci si può immaginare cosa possa fare nelle settecento totali che compongono il libro, che sono tutte così: come quando spiega la differenza tra un vero romanziere, che riesce a dare un senso di necessità e di destino alle vicende che racconta, e un grande scrittore che però non è un narratore, come Pasternak, che compie dei salti di trama arbitrari e inspiegabili, per legare tra loro i momenti lirici che davvero gli interessano; e connette (Debenedetti) questo procedimento all’antideterminismo della fisica contemporanea per quanto riguarda il movimento delle particelle atomiche.

Altro che l’interdisciplinarità tutta astratta e svuotata di cultura dei burocrati travestiti da pedagogisti: Debenedetti, dai lontani anni ’60, ce li fa apparire ancora di più come dei chiacchieroni incapaci di pensiero e dei ripetitori di formule vuote e stantie; quello che in effetti sono.

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IV

Fa quasi male sentire ancora qualcuno di un’associazione un tempo nobile come MCE, magari in buona fede, che dice che a scuola si parla troppo di saperi e poco di metodologie.

La considerazione ovvia che viene da fare è che separare le metodologie da ciò che concretamente si vuole insegnare le riduce a pure astrazioni, ma non c’è solo questo; è che per i saperi disciplinari, per il lavoro comune su conoscenze significative – che sono poi risposte a domande di senso e tentativi di dare un ordine alla realtà, così importanti per le persone in crescita – passano la relazione e il dialogo educativo tra studenti e insegnanti, che altrimenti cade nel vuoto (o in quella finta intimità tautologica e statica del “come state?” “Bene”, nella quale gli studenti non si aprono affatto). E il dialogo, come dice Francesco Di Bartolo (https://rivista.clionet.it/vol7/introduzione-al-dossier-2/), non è una metodologia ma un’attitudine, il sentire chi si ha di fronte, la capacità di entrare in contatto con l’altro e la disponibilità a pensare insieme.

Se li si prende sul serio, gli si fa capire che si tiene a loro e che voler insegnare loro qualcosa di importante è una forma di affetto e di attenzione, gli studenti rispondono.

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V

Noi tendiamo a sopravvalutare la libertà della nostra vita psichica, diceva Freud.
In effetti i contenuti inconsci emergono quando possono e devono, non quando vogliamo noi.

Dante non dice qualcosa di troppo diverso, sia pure attraverso il mito religioso del peccato originale, che con il suo peso impedirebbe l’esercizio del libero arbitrio: si sale quando si può, quando c’è luce, la luce della grazia; quando invece fa buio è inutile insistere negli sforzi pure meritevoli che ti hanno portato fino a un certo punto. Bisogna fermarsi, stare attenti semmai a non scendere troppo e aspettare il ritorno del sole:

Com’ è ciò?”, fu risposto. “Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d’altrui, o non sarria ché non potesse?”.

E’l buon Sordello in terra fregò ‘l dito,
dicendo: “Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo ‘l sol partito:

non però ch’altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.

Ben si poria con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso”.


Ecco, quando parliamo di queste cose, inaspettatamente i nostri studenti si fanno attentissimi; molto di più di quando pensiamo di rincorrerli a vuoto e senza passare per il pensiero sul terreno dei “nativi digitali”, immaginando un loro presunto interesse per l’ “intelligenza artificiale” e simili (in realtà quella che a noi sembra una novità entusiasmante, per loro è spesso la banale e ripetitiva realtà quotidiana, che ha un puro valore strumentale). Quando insomma recitiamo malissimo la parte di quelli vicini ai giovani e dei “contemporanei” (secondo la definizione di una dirigente “illuminata” e ignorantella) anziché mostrarci agli studenti come persone a tutto tondo, che hanno approfondito alcuni campi della conoscenza, su cui hanno qualcosa da dire, e ne parlano con loro, prendendoli sul serio.

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VI

E mentre si punta a tagliare un anno di scuola negli istituti tecnici e professionali, avendo cura di far iniziare l’addestramento già dai quattordici anni, con i rappresentanti delle aziende a “insegnare” nelle scuole; mentre i dirigenti-promoter più o meno prezzolati ti spiegano quant’è meravigliosa l’ “intelligenza artificiale”, quanto loro sono innovatori e che bisogna “cambiare”, tu cominci a correggere parola per parola il primo elaborato di una studentessa di prima che conosce poco l’italiano e che dice di voler fare il medico. Ci riusciremo, piccolé.

2 pensieri riguardo “Gli insegnanti, gli studenti, la conoscenza

  1. Per mia esperienza l’insegnamento è un’esperienza totalizzante in cui il docente vero esprime tutto se stesso in un rapporto dove i confini tra le persone è come se si annullassero. Questo, forse voleva dire don Milani, che lo visse così.

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