Quello che manca alla scuola

Nell’ambito di una critica alla pagina Il Gessetto (https://www.facebook.com/share/p/1ABgsqxCK4/), Christian Raimo fa un elenco piuttosto generico di quelle che a suo avviso sarebbero le cause del declino della scuola: “Mancanza di investimenti, mancanza di cultura pedagogica, mancanza di politiche progressiste, mancanza di aggiornamento didattico, mancanza di coscienza di classe dei docenti, mancanza di dibattito internazionale“. La mia impressione è che si mescolino qui cose molto diverse tra loro; soprattutto credo che Raimo salti dei passaggi importanti.

In un contesto di burocratizzazione della relazione educativa, dell’ingresso massiccio di interessi privati e di aziendalizzazione autoritaria della scuola pubblica, secondo l’ideologia del new public management (cfr.Laval, Vergne, Clémant, Drieux, La nuova scuola capitalista, Napoli, 2025), quelli che Raimo chiama “aggiornamento” e “cultura pedagogica” rischiano di diventare sempre più – nella manipolazione che se ne fa – strumenti di standardizzazione, di impoverimento e di devitalizzazione dell’esperienza scolastica, sia dal punto di vista umano che dal punto di vista culturale. Basti pensare all’assunzione di un linguaggio para-pedagogistico da parte di istituzioni burocratiche, di think-tank dell’economicismo neoliberale, di associazioni padronali, di fondazioni bancarie, di aziende Big Tech, tutte realtà che perseguono senz’altro finalità extra-scolastiche, extra-didattiche ed extra-educative (cfr. ad esempio https://nostrascuola.blog/2025/11/17/dalla-scuola-della-costituzione-alla-scuola-del-capitalismo/; oppure https://www.micromega.net/chi-detta-legge-nella-scuola-italiana).

Ma cosa sta succedendo davvero alla scuola italiana? Elenco a caso: “orientatori” e “facilitatori del benessere, delle emozioni e delle relazioni” preparati con 20 ore di corso on line, ideologia delle competenze (fino a prevedere quali aspetti della personalità degli studenti andranno fatti sviluppare: adattabilità, affidabilità, spirito imprenditoriale…), digitalizzazione forzata anche di ciò che non è digitalizzabile, con la trasformazione della scuola in un’enorme fiera Didacta e il consumo compulsivo, ad altissima obsolescenza, di strumenti e metodologie ormai scollegato da finalità educative e conoscenze significative; deliri sull’ “insegnamento” da parte di modelli linguistici automatizzati (o IA) che danno risposte sulla base di un’associazione probabilistica tra parole, con tutta la banalizzazione del “pensiero” che ne deriva; frammentazione di percorsi culturali lunghi e organici in una miriade di “progetti”, educazioni, pcto, “orientamenti”, con la decontestualizzazione delle conoscenze che ne deriva e lo smantellamento individualistico (con la scusa della “personalizzazione degli apprendimenti”) del gruppo-classe come “mente collettiva” e luogo del lavoro comune sulle conoscenze, delle emozioni condivise e degli affetti duraturi; concorsi per insegnanti a crocette in cui non si deve dimostrare la conoscenza profonda della disciplina che si insegnerà (conoscenza indispensabile a impostare qualunque didattica), espulsione di qualunque seria psicologia dell’età evolutiva nel discorso sull’educazione, in nome della retorica aziendalistica delle life skills, strapotere dei dirigenti “promotori dell’innovazione” che, imponendo le decisioni che arrivano dall’alto, cancellano la fondamentale collegialità della scuola…

Ecco, non vorrei che si pensasse di rimediare a tutto questo con delle ricette “pedagogiche” miracolose (abolizione dei voti, superamento di una fantomatica didattica trasmissiva ecc) che a loro volta, con la standardizzazione che portano con sé, vanno nella stessa direzione del problema.

A mio avviso dalla crisi della scuola si esce restituendo sostanza al principio costituzionale della libertà di insegnamento, che non è un diritto ma un dovere degli insegnanti, garanzia per la società che i giovanissimi non vengano irregimentati in totalitarismi (come quello economicistico, o neoliberista, o del “capitale umano”) che impediscono un’istruzione plurale e l’apertura di orizzonti liberi di conoscenza della realtà e di sé. Ovviamente la libertà di insegnamento è una responsabilità, che richiede la preparazione, la motivazione, l’esperienza (vissuta anche a livello collegiale e intergenerazionale), lo spessore umano e culturale degli insegnanti.
Per questo qualunque tentativo di farne degli esecutori – di direttive dirigenziali come di principi pedagogici astratti – contribuisce a depotenziare la scuola: solo chi pensa ed è in grado di pensare, e non chi esegue passivamente, può insegnare ad altri esseri umani a pensare.

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