
Alcune considerazioni a proposito di un argomento ‘caldo’ e complesso su cui esiste un dibattito molto interessante:
1) Le certificazioni DSA possono essere senz’altro uno strumento prezioso di aiuto per alcuni studenti, ma non sembra che la loro moltiplicazione, che spesso porta con sé con una connotazione marcatamente burocratica – assolvere un dovere più che voler realmente aiutare delle persone – possa sempre apportare vantaggi all’attività didattica, anzi…
Tralasciando le situazioni in cui quella del DSA, agli occhi di studenti, genitori, dirigenti e, talvolta, anche insegnanti, diventa una sorta di etichetta che non solo tutela gli studenti nelle difficoltà riconosciute (cosa che gli insegnanti avveduti hanno sempre fatto e fanno tutti i giorni) ma costituisce una sorta di rinuncia a priori all’insegnamento, che a sua volta, in una sorta di circolo vizioso, accresce le difficoltà anziché farle diminuire, molti, tra cui chi scrive, hanno il sospetto che alcune diagnosi finiscano per semplificare, misconoscere o ‘coprire’ una realtà ben più complessa;
2) L’impressione, ad essere sinceri, è che in diversi casi – ovviamente non in tutti – si faccia intervenire il neurologo quando ci vorrebbe lo psicologo (o lo psicoterapeuta, o lo psicoanalista, in ordine crescente di specializzazione): non pochi ‘disturbi dell’apprendimento’ (e naturalmente quelli riconducibili all’area adhd) infatti hanno alla base un disagio e un malessere profondi, non di rado di origine familiare; succede spesso che i ragazzini scontino le questioni irrisolte degli adulti, vivano climi affettivi non adeguati alla crescita e sviluppino così problematiche psicologiche anche gravi, che incidono poi pesantemente sui processi di apprendimento. Questo disagio andrebbe riconosciuto, accolto ed elaborato con strumenti adeguati, non trasformato in un’etichetta rigida e immutabile (quando non sottilmente stigmatizzante), che chiude la bocca ad ogni ulteriore approfondimento sui vissuti profondi di bambini e ragazzi e fornisce loro un’identità fittizia incentrata sul problema, che le persone in crescita fanno facilmente propria (fino alla frase tristemente significativa “sono un DSA”).
Come ricorda lo psicoanalista Stephen Mitchell, oggi sappiamo che nello sviluppo delle stesse reti neuronali delle persone in crescita l’influenza dell’ambiente e delle relazioni affettive è fondamentale:
“Abbiamo scoperto che buona parte dell’equipaggiamento che poi diverrà la biologia, la costituzione vera e propria dell’adulto, non è presente fin dalla nascita, ma si forma nei primi anni di vita, nel contesto dell’accudimento linguistico, familiare e interpersonale di cui il bambino ha bisogno per sopravvivere. Ora sappiamo che il cervello del neonato è sviluppato solo in parte. Le cellule nervose e i percorsi neurali, alla nascita, sono incompleti e sono plasmati in misura significativa dalle esperienze che il bambino fa con le altre persone. I pattern di attivazione e quiescenza, le soglie di eccitazione e rilassamento, i ritmi diurni – molte caratteristiche che prima ritenevamo costituzionali o temperamentali, e quindi puramente innate, sono in parte plasmati dalle prime interazioni con i caregiver. Siamo arrivati a comprendere quanto siano formativi questi primi anni di vita e quanta cultura sia inscritta nei nostri corpi. La biologia e la cultura, la natura e la cultura, non costituiscono strati o livelli separati ma si compenetrano nel corso dello sviluppo precoce, mentre stabiliscono i percorsi neurali” (Stephen Mitchell, L’amore può durare?, Milano, Cortina, 2003, pp.42-43).
Alcune diagnosi, che si presentano come oggettive e all’avanguardia, sembrano riproporre in realtà un approccio positivistico di stampo ottocentesco alle difficoltà cognitive, scollegate dalla loro dimensione affettiva e dalla storia personale e ricondotte esclusivamente a cause biologiche o ‘organiche’ (oggi genetiche);
3) Questo approccio, presentato come uno strumento di aiuto per gli alunni con gravi difficoltà, può diventare una modalità frettolosa di rinuncia alla responsabilità pedagogica, specie se comporta il mancato investimento di risorse, che sarebbero necessarie ad esempio per un autentico recupero didattico e un autentico sostegno psicologico – attraverso sportelli d’ascolto realmente funzionanti – o per permettere agli insegnanti di lavorare in maniera davvero personalizzata, grazie a una drastica riduzione del numero di studenti per classe.
Non dobbiamo mancare di ribadire che le difficoltà di apprendimento non di rado sono segnali di un malessere più profondo, che può avere una lunga storia e che andrebbe accolto, interpretato e affrontato alla radice. Alle volte, invece di far firmare loro un PDP, si dovrebbe poter consigliare ai genitori di intraprendere un percorso terapeutico familiare;
4) Se prendiamo ad esempio l’ “iperattività”, dobbiamo dire che essa può avere delle cause psicologiche che nella burocrazia scolastica vengono completamente sottaciute. A volte il bambino/ragazzo iperattivo è sottoposto, in famiglia, a un rigido controllo; è, in qualche modo, un prigioniero di dinamiche psicologiche che lo fanno soffrire e da cui cerca disperatamente di svincolarsi, anche attraverso le manifestazioni cinetiche.
Più spesso, la causa è apparentemente opposta: l’iperattivo è un bambino, o un ragazzo, a cui non sono stati dati limiti, oppure gliene sono stati dati di sbagliati, cioè non utili o dannosi per la sua crescita. In ogni caso, l’iperattivo è alla ricerca dei giusti limiti che non ha e che non ha ancora trovato nel corso della sua crescita.
Se questo è vero, la diagnosi che lo fa diventare ‘speciale’ e intoccabile – almeno nell’interpretazione più banalizzante e burocratica del disturbo, “non gli possiamo dire niente, è iperattivo” – lo danneggia ulteriormente: agli insegnanti infatti viene spesso raccomandato di “lasciarlo fare”, di non dargli cioè, ovviamente nei modi adeguati, quei giusti limiti e quelle regole motivate di cui ha un disperato bisogno. Paradossalmente, quella che dovrebbe essere un’accortezza pedagogica nei confronti dello studente diventa così, con l’aggravante dell’ “obbligo di legge” formale qualche volta sventolato come una minaccia, la sua ulteriore condanna;
5) Questa medicalizzazione, anche incentrata su un cognitivismo spersonalizzato e banalizzante, che sostituisce l’ascolto e l’interpretazione dei sintomi, rafforza un certo ruolo del bambino o dell’adolescente – vittima di dinamiche più grandi di lui e caricato di pesi che non sono i suoi: quello del “figurante predestinato” (secondo la definizione del grande psicoanalista francese P.-C. Racamier), colui cioè che deve incarnare una patologia familiare che in realtà appartiene a tutti, e che proprio per questo è costretto ad assumere un’identità di malato: “mio figlio è un DSA;
6) La psicoanalisi ci insegna che i genitori non vanno di certo colpevolizzati, anche se le sofferenze dei figli possono derivare da dinamiche familiari: essi stessi infatti sono condizionati da ciò che a loro volta hanno ricevuto. L’importante è che si attivino percorsi di consapevolezza che portino a spezzare certe catene di sofferenze affettive (che a volte prendono la forma di difficoltà cognitive, di disturbi dell’attenzione o di iperattività) che si trasmettono attraverso le generazioni.
Articolo pubblicato il 5/7/2018