Piccola antologia gramsciana

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I nuovi programmi, quanto più affermano e teorizzano l’attività del discente, e la sua collaborazione operosa con il lavoro del docente, tanto più sono disposti come se Il discente fosse una mera passività [grassetto mio]. Nella vecchia scuola lo studio grammaticale delle lingue latina e greca, unito allo studio delle letterature e storie politiche rispettive, era un principio educativo, in quanto l’ideale umanistico, che si impersona in Atene e Roma, era diffuso in tutta la società, era un elemento essenziale della vita e della cultura nazionale. Anche la meccanicità dello studio grammaticale era avviata dalla prospettiva culturale. Le singole nozioni non venivano apprese per uno scopo immediato pratico-professionale: esso appariva disinteressato, perché l’interesse era lo sviluppo interiore della personalità, la formazione del carattere attraverso l’assorbimento e l’assimilazione di tutto il passato culturale della moderna civiltà europea.
Non si imparava il latino e greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente. La lingua latina e greca si imparava secondo grammatica, meccanicamente; ma c’è molta ingiustizia e improprietà nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha a che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinati e metodici.

[…] Il latino si presenta (così come il greco) alla fantasia come un mito, anche per l’insegnante. Il latino non si studia per imparare il latino; il latino, da molto tempo, per una tradizione culturale-scolastica di cui si potrebbe ricercare l’origine e lo sviluppo, si studia come elemento di un ideale programma scolastico, elemento che riassume e soddisfa tutta una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche; si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere che continuamente si ricompone in vita, per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo.
[…] Negli otto anni di ginnasio-liceo si studia tutta la lingua storicamente reale, dopo averla vista fotografata in un istante astratto, in forma di grammatica: si studia da Ennio (e anzi dalle parole dei frammenti delle Dodici Tavole) a Fedro e ai cristiano-latini: un processo storico è analizzato dal suo sorgere alla sua morte nel tempo, morte apparente, perché si sa che l’italiano, con cui il latino è continuamente confrontato, è latino moderno. Si studia la grammatica di una certa epoca, un’astrazione, il vocabolario di un periodo determinato, ma si studia (per comparazione) la grammatica e il vocabolario di ogni termine In ogni periodo (stilistico) determinato: si scopre così che la grammatica e il vocabolario di Fedro non sono quelli di Cicerone, né quelli di Plauto, o di Lattanzio e Tertulliano, che uno stesso nesso di suoni non ha lo stesso significato nei diversi tempi, nei diversi scrittori. Si paragona continuamente Il latino e l’italiano: ma ogni parola è un concetto, un’immagine, che assume sfumature diverse nei tempi, nelle persone, in ognuna delle due lingue comparate. Si studia la storia letteraria dei libri scritti in quella lingua, la storia politica, le gesta degli uomini che hanno parlato quella lingua.
Da tutto questo complesso organico è determinata l’educazione del giovinetto, dal fatto che anche solo materialmente ha percorso tutto quell’itinerario, con quelle tappe ecc. Si è tuffato nella storia, ha acquistato una intuizione storicistica del mondo e della vita, che diventa una seconda natura, quasi una spontaneità, perché non pedantescamente inculcata per volontà estrinsecamente educativa. Questo studio educava senza averne la volontà espressamente dichiarata, col minimo intervento “educativo” dell’insegnante: educava perché istruiva. Esperienze logiche, artistiche, psicologiche erano fatte senza rifletterci su, senza guardarsi continuamente allo specchio, ed era fatta specialmente una grande esperienza sintetica, filosofica, di sviluppo storico-reale [grassetto mio].

[…] Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la propria materia, o la nuova serie di materie, in un ordine didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se istruttivo, cioè ricco di nozioni concrete [grassetto mio]. Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi [grassetto mio].

[…] Il moltiplicarsi di tipi di scuola professionale tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in queste differenze, tende a suscitare stratificazioni interne, ecco che fa nascere l’impressione di una sua tendenza democratica. […]. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni cittadino può diventare governante e che la società lo pone, sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare” [grassetto mio].

Antonio Gramsci, Anche lo studio è un mestiere [ma da Quaderni dal carcere 12,2], Roma, Edizioni di Comunità, 2021, pp.13-20 [passim].

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