
Abbiamo letto con profondo sconcerto l’articolo pubblicato da Stefano Stefanel su “Gessetti colorati”, intitolato “Disciplinarismo e pedagogia”; siamo stati a lungo in dubbio se considerarlo una parodia o un pastiche del linguaggio più astratto del buro-pedagogismo ideologico, poi abbiamo dovuto riconoscere che l’autore parlava sul serio.
La tesi di fondo dell’articolo è che i docenti “disciplinaristi” avrebbero il torto di insegnare la loro disciplina per autoritarismo e sete di potere, difendendo con il voto e con il rifiuto dell’interdisciplinarità (ad esempio quella dell’educazione civica) la propria posizione di forza. Un presunto rifiuto della pedagogia (attenzione, la pedagogia, come se si trattasse di un monolite) si inserirebbe in questa strategia di conservazione del potere.
Se non temessimo di offendere l’autore, conoscendo ciò che realmente accade all’interno delle scuole scambieremmo questo articolo per un sogno o un incubo a occhi aperti, in cui non c’è posto per un semplice fatto: gli insegnanti insegnano (terribile dover ribadire questa ovvietà) quello che sanno – e a differenza di altri sono titolati a farlo grazie a concorsi pubblici e specializzazioni – semplicemente perché pensano che quello che sanno possa essere importante per i propri studenti.
Ma esaminiamo l’articolo passo passo, quasi integralmente, facendo seguire dei commenti alle citazioni di brani:
“L’idea che lo studente migliore è quello che studia sulla carta e solo se autorizzato va sul web, il concetto di apprendimento inteso come forma guidata di conoscenza, i miliardi riversarti sul digitale ma collegati ad una cultura proibizionista sull’uso dei dispositivi di proprietà”.
Qui e altrove si confondono autoritarismo ed educazione. Forse conviene spiegare la differenza:
Autoritarismo: imposizioni immotivate, violente, decise arbitrariamente nel proprio interesse e per rafforzare un potere fine a se stesso.
Educazione: gli adulti si prendono la responsabilità di dire dei sì e dei no motivati, per motivi esplicitati e spiegati, nell’esclusivo interesse delle persone a cui vengono detti. Tra l’altro, di limiti e confini – magari da contestare e mettere in discussione, specie nell’adolescenza – le persone in crescita sono sempre in cerca, come sa qualunque psicologo dell’età evolutiva, perché sulla confusione non è possibile costruire nessuna libertà. Scambiare le legittime istanze libertarie degli adulti con una privazione di guida e di confini per bambini e adolescenti è un’operazione profondamente irresponsabile e narcisista.
Nel caso specifico, regolare l’uso dello smartphone in classe significa aiutare gli studenti a superare una dipendenza, a entrare in contatto da protagonisti con la realtà e con le persone in carne e ossa che hanno intorno, a poter concentrare l’attenzione sul qui e ora senza l’ansia dell’iperconnessione e del continuo scambio di messaggi con qualcuno presente/assente, a poter produrre quel vuoto rispetto all’adesione totale allo strumento tecnologico che è in realtà spazio per la parola, il pensiero, la relazione, la curiosità, la conoscenza.
“In teoria disciplinarismo e pedagogia dovrebbero essere strettamente collegate: se voglio insegnare qualcosa devo avere a che fare con un contenuto e questo contenuto sta per forza dentro una disciplina, che, a sua volta, richiede un determinato metodo per essere insegnata, cioè la pedagogia dovrebbe servire per transitare contenuti (e abilità e competenze che ne seguono) dalla mente di un sapiente alla mente di un non sapiente. Difficilmente vado ad imparare qualcosa che già so, difficilmente qualcuno mi insegna ciò che pensa io sappia o ritenga io debba sapere (i prerequisiti)“.
Qui e oltre si fa confusione tra una pedagogia, sempre presente nell’azione di chi insegna, e la pedagogia intesa come disciplina; in realtà la pedagogia sembra essere solo quella che l’autore – dalla sua posizione che non è quella di pedagogista ma di dirigente scolastico – ritiene tale.
Nel seguito dell’articolo, la confusione aumenta, con dei salti logici poco comprensibili: lo stesso autore sembra passare dall’identificazione tout court dell’insegnamento con la pedagogia all’idea di una disciplina specifica chiamata pedagogia che ha i suoi specialisti, di cui gli insegnanti non possono fare a meno. L’ambiguità porta al paradosso per cui l’insegnante, se insegna una disciplina, sembra non poter avere una propria cultura pedagogica, personalizzata, fatta di preparazione ed esperienza insieme; sembra cioè che non possa essere titolato a svolgere il lavoro che svolge, a meno che non si avvalga in ogni momento del suo lavoro dell’intervento di uno specialista che – scelto non si sa da chi – rappresenti in astratto la pedagogia. Si pone così nel cuore dell’insegnamento una scissione immaginaria apparentemente insanabile.
“Da oltre cento anni la pedagogia è stata considerata una “materia” a sé stante, non necessariamente collegata al suo compito: far apprendere. Infatti, in alcune scuole si studia la pedagogia come una forma di pensiero filosofico minore, interessante, ma con valore più storico-sociale che metodologico. Il problema, però, è un po’ più complesso e va a toccare le discipline così come sono state codificate e così come si sono imposte, le uni a scapito delle altre. Da questo punto di vista Le parole e le cose di Michel Foucault ha dimostrato che le discipline sono strumenti di potere (politico) e che talune hanno preso il sopravvento, mentre altre vivono nell’ombra. In Italia questa evidente stortura ha dato vita al costrutto artificiale delle “classi di concorso”, una struttura di sapere che è diventata struttura di potere con un valore economico molto forte, strettamente collegato ai posti di lavoro che è in grado di farsi riconoscere”.
Una nota sull’uso delle parole: adoriamo Foucault, che però ha dato un’interpretazione delle strutture di potere, non ha “dimostrato che”. Questo è il problema di tutte le chiese: prendere delle idee aperte, isolarle dal contesto in cui sono state formulate e a cui sono applicate e trasformarle in dogmi, in certezze da sovrapporre alla realtà; il che porta a un atteggiamento profondamente regressivo, al servizio delle reali dinamiche di potere – quelle ad esempio che spingono allo smantellamento della scuola pubblica e democratica – sulla base della trasformazione delle idee in formule fisse trasferite e in contesti completamente diversi rispetto a quelli in cui sono state prodotte, con una strumentalizzazione che può portare alle affermazioni più assurde. Qualunque insegnante che guardi la realtà con i suoi occhi sa che oggi il problema della scuola non è l’eccessiva strutturazione delle conoscenze, che devono avere una loro inevitabile progressività e devono essere colte nella loro dimensione storica, ma il suo opposto.
Nel merito, fare del lento strutturarsi storico delle discipline un “sistema di potere” che serve a “dare posti di lavoro” significa negare il senso stesso della cultura, un processo di costruzione delle conoscenze che non può che avvalersi del contributo di tanti e che richiede una lenta stratificazione. La finalizzazione scolastica di questo processo è il modo in cui gli studenti vengono introdotti alla possibilità di partecipare alla costruzione della conoscenza, – a meno che non si immagini ogni studente come un Adamo solitario e isolato dal resto dell’umanità che ricomincia da capo e scopre il mondo da zero, invece di una persona che può reinterpretare soggettivamente il già dato, rielaborarlo, attualizzarlo, metterlo in discussione, criticarlo e superarlo dopo averlo conosciuto.
Il fatto che le conoscenze si siano lentamente strutturate in discipline con i propri metodi e i propri fondamenti epistemologici non esclude l’interdisciplinarità ma ne è il presupposto: ci chiediamo se l’autore di questo articolo avrebbe potuto sviluppare le sue brillanti riflessioni interdisciplinari se qualcuno a suo tempo non gli avesse insegnato a leggere e scrivere, non gli avesse insegnato l’ortografia e la sintassi, se non gli avesse insegnato a ragionare attraverso i contenuti della letteratura, della matematica o della filosofia. Vorremmo sapere se pensa davvero che uno studente nutrito di soli contenuti interdisciplinari potrà un giorno fare altrettanto.
In realtà l’insegnare separatamente contenuti disciplinari che una persona già istruita è in grado di collegare serve semplicemente a dare ordine ed evitare di confondere e disorientare le persone in crescita con una proposta di conoscenza illimitata che la mente umana non può contenere, e metterle in grado di trovare loro i collegamenti tra le conoscenze appartenenti a diverse discipline, senza imporre dall’alto degli immangiabili pastoni interdisciplinari (fermo restando che gli insegnanti l’interdisciplinarità la praticano tutti i giorni, quando occorre e quando ve ne sia motivo, cfr.oltre).
Poi, di certo, i confini tra le discipline possono spostarsi: ma dev’essere uno spostamento prodotto dalla storia delle idee e da reali esigenze culturali, non imposto dall’alto: basti vedere cosa ha prodotto nelle scuole la ristrutturazione delle classi di concorso durante il ministero Gelmini, che pure ha cominciato a introdurre con gli “assi disciplinari” un’interdisciplinarità tutta burocratica tanto cara a certo pedagogismo che riduce l’insegnamento a vuota astrazione.
“L’ostilità dei disciplinaristi nei confronti dell’educazione civica sta tutta qui [!]: l’educazione civica è una disciplina chiara e obbligatoria che non ha prodotto nuovi posti di lavoro. QUINDI [maiuscolo redazionale] la sua trasversalità va abbattuta. Finora non ci sono riusciti, ma chi ha pazienza vedrà presto nascere le cattedre di educazione civica con tanto di abilitazione“.
Qui, con un altro salto logico, si passa all’educazione civica, che gli insegnanti rifiuterebbero per non inquinare la propria “purezza disciplinare”. In realtà gli insegnanti non sono contrari all’educazione civica, visto che moltissimi contenuti di tante discipline sono già, in sé, educazione civica; sono invece contrari a una burocratizzazione dell’educazione civica che, anziché permettere il libero collegamento tra conoscenze di diverse discipline, quando ve ne sia un motivo valido, induca gli insegnanti a cercare collegamenti artificiosi, forzati e pretestuosi tra le discipline, solo per adempiere a un obbligo. Siamo appunto al centro del tentativo di trasformare autentiche istanze educative e culturali in burocrazia imposta dall’alto. Proprio quello che si rimprovera non alla pedagogia e ai pedagogisti, come qualcuno vorrebbe far credere, ma a ben determinati settori di pedo-burocrazia ministeriale o para-ministeriale, che perseguono scopi politici non sempre dichiarati e hanno sempre fornito giustificazioni a posteriori per ogni passo avanti nello smantellamento della scuola pubblica.
“La trasmissività vista come l’elemento base della disciplina: io ti racconto, ti spiego, ti argomento quello che devi imparare, tu studi e lo impari. La trasmissività impone la conferenza, la cultura del contenuto, la spiegazione anche di ciò che è già chiaro, la meta-spiegazione artigianale (la lezione in classe) di quello che è oscuro, il riassunto virtuoso, la chiacchiera diventata orazione“.
Quando qualcuno critica la dimensione artigianale della scuola è inevitabile sentire un brivido lungo la schiena: l’alternativa all’artigianato – indispensabile di fronte a un’irriducibile varietà di situazioni educative, rapporti umani, conoscenze, singolarità – non può essere che il totalitarismo astratto della “metodologia” che da strumento flessibile diventa idolo e prende il posto del “che cosa” insegnare e perché – si veda cosa sta accadendo oggi con il digitale – magari rivestito con i panni di un’improbabile “scienza” pedagogica.
“Il manuale o il libro di testo in cui è codificato il riassunto di tutto lo scibile disciplinare, in fascicoli da compulsare e leggere annualmente, visto che tutto è diviso per annualità e prevede una chiara spesa da sostenere come base per accedere a quel sapere codificato, stantio e immobile, ma comunque certo, almeno nei limiti di quanto la comunità disciplinare ha deciso sia certo in quel momento“.
Il libro di testo in realtà non è che il punto di partenza del lavoro della classe, che con la guida dell’insegnante può diventare una comunità ermeneutica, esplorare strade impreviste e sempre nuove, interpretare e contestualizzare lo stesso libro di testo.
“La memoria come ricordo di ciò che è stato trasmesso attraverso conferenze (anche operative: gli esperimenti nei laboratori) e che deve essere esercitata senza supporti tecnici e multimediali in quelle che sono le prove disciplinari per eccellenza, cioè i compiti in classe e le interrogazioni.
La pedagogia, dunque, viene sempre più vista come un elemento di ostacolo alla disciplina, quasi che il piegarsi alle esigenze del discente debole sia un cedimento inaccettabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare“.
Altro incredibile salto logico, segnato dal “dunque”: viene dato per scontato, non si sa su quale base, che l’insegnamento della disciplina escluda il “piegarsi alle esigenze del discente debole”, che qualcuno consideri l’aiuto agli studenti più deboli un “cedimento inaccetabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare”. Ancora, si esclude assurdamente che l’insegnamento di una disciplina possa incentrarsi sulla dimensione relazionale e il tatto pedagogico. Ed è ancora più curioso che – a fronte di una crescita molto preoccupante del disagio giovanile – si esalti il valore salvifico di una “scienza” pedagogica che ricomprende in sé anche la didattica senza mai accennare a forme di conoscenza profonda delle persone in crescita, rappresentate dalla psicologia e dalla psicoanalisi.
“Il discente forte – ed è questo il punto di grande ambiguità del concetto di merito – è perfettamente inserito nello specifico disciplinare ed apprende per trasmissione, tradizionalismo manualistico, memoria. Siamo dunque di fronte ad un problema molto serio che vede la disciplina come strumento delle élite e la pedagogia come strumento del popolo. Il sapiente è un disciplinarista se comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento che non può permettere alla disciplina di scendere verso la banale comprensione, il modesto impegno, il poco interesse; mentre è un pedagogo se cerca di raggiungere il popolo col sapere“.
Non si sa da dove arrivi – non certo dalle nostre aule – questa sconcertante e grottesca distinzione tra “sapiente” che da “disciplinarista” “comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento e “pedagogo” che cerca “di raggiungere il popolo col sapere”. Questa visione esclude la realtà, quella per cui il docente è una persona che attraverso la relazione condivide delle conoscenze e dei contenuti culturali con i propri studenti, lavora insieme a loro all’acquisizione e alla rielaborazione di quelle conoscenze e sa come farlo, anche attraverso l’incentivazione della motivazione e le pratiche di recupero delle carenze.
“Con il termine dispregiativo di “pedagogismo” si indica la china facilitatrice verso concetti e apprendimenti non facilitabili e come tali necessari più per il mantenimento del potere della disciplina che per migliorare l’apprendimento della stessa in studenti comunque giovani e generalisti“.
No, con pedagogismo si intende la riduzione della scuola, dei contenuti culturali e dell’insegnamento a burocrazia e metodologie astratte, scollegate dalla concreta situazione educativa e dalle finalità didattiche.
“Tutto questo lo aveva già detto Foucault molto chiaramente, ma il pensiero pedagogico novecentesco (Montessori, Dewey, Gardner, Brunner) ha sottovalutato la forza del potere economico sotteso alla disciplinarietà dei saperi […]“
Sul solito frullatore di nomi ormai buttati lì a caso (tanto che Bruner diventa Brunner) si veda oltre.
“Gli specialisti ci sono sempre stati nella storia dell’umanità e sempre ci saranno: non è mai stato questo il problema. Ma i disciplinaristi non sono degli specialisti, sono, forse, dei cultori della materia, cioè competenti dentro i limiti di una disciplina. La contaminazione è inutile in uno specialista, ma viene ritenuta pericolosa da coloro che non sono specialistici, ma sono solo disciplinaristi, perché la contaminazione fa perdere potere alle discipline. La struttura enciclopedica è una “lotta mortale” tra discipline, che vogliono avere più voci riconosciute possibili, perché tante sono le voci, tanto è il potere. Le arti del trivio e del quadrivio una battaglia simile l’hanno disputata circa mille anni fa“.
Chi trova traccia nella scuola di questa “lotta mortale” ce lo segnali, per favore.
“Se torniamo a noi lo svilimento della funzione della pedagogia, soprattutto nelle scuole superiori, non è un modo per preservare il rigore e la precisione disciplinare, ma solamente per delimitare il campo del potere. Discipline che si contaminano, che agiscono su base multidisciplinare e interdisciplinare alla fine finiscono per perdere la loro specificità e a trasformarsi in altro. […] Ed è una battaglia che ha reso le discipline più arcigne, desiderose di essere trasmesse, ma ostili verso la pedagogia, cioè verso quell’azione del docente che comprende come raggiungere la mente del discente, non per riempirla, ma per farla diventare migliore“.
Qui se non altro ci siamo risparmiati la seconda parte del solito luogo comune degli studenti che non sono vasi da riempire, ecc.
“Per questo servono i voti e non le valutazioni formative: per delimitare il campo della disciplina. Se il voto è negativo viene sancito il “debito disciplinare”, cioè quel terreno incerto e di controllo per cui l’insegnante non deve trovare metodi nuovi per raggiungere risultati di apprendimento che non ha raggiunto con i metodi trasmissivi, sperimentali, misurativi in vigore, ma semplicemente rubricare l’insuccesso, quella debolezza disciplinare che non permette di andare avanti. Più le discipline sono obsolete più sono difficili e astruse e per questo forti, perché essendosi tramutate in classi di concorso alimentano la schiera di chi insegnerà quella disciplina nella scuola italiana”.
Tutto il ragionamento di Stefano Stefanel sembra segnato da un’ossessione per la tematica del potere: curioso, per un dirigente ben inserito nella burocrazia scolastica.
In realtà la fantomatica terribile “didattica trasmissiva” unidirezionale, con l’insegnante che tiene una conferenza senza curarsi di chi ha di fronte e gli studenti che assorbono passivamente, con la cattedra e la predella, i vasi, l’imbuto ecc. ecc., sono cose che non esistono più da nessuna parte e che servono solo come straw man argument per giustificare lo smantellamento delle discipline, dei saperi e delle conoscenze nella scuola pubblica. È questa la vera faccia del potere, che si tenta in ogni modo di nascondere dietro un apparente progressismo.
Inoltre Stefanel non prende nemmeno in considerazione l’idea che dietro l’assegnazione dei voti non ci sia una dinamica di potere, ma la volontà di dare un’indicazione chiara agli studenti su come stiano lavorando e sulle conoscenze acquisite fino a quel momento. Va da sé che ogni insegnante degno di questo nome accompagna il voto – indispensabile al mantenimento del valore legale del titolo di studio – con una spiegazione esauriente, all’interno di una relazione educativa anche affettiva (non ipocritamente “affettuosa”), che consiste nel fare il bene delle persone che si hanno di fronte.
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In conclusione, ci piacerebbe riportare alcune parole di un filosofo dell’educazione come G.J.J.Biesta, esempio di un pensiero pedagogico profondo e attuale, basato sulla realtà, al di fuori del solito frullatore di nomi citati nel segno di un attivismo astratto, anacronistico e ammuffito, spesso collaterale agli interessi dei decisori politici e a quelli della burocrazia ministeriale.
Purtroppo attraverso questa collateralità si continua a fornire qualunque giustificazione al progetto di smantellamento della scuola pubblica della conoscenza. E qui è fondamentale sciogliere un equivoco: quello che molti insegnanti rifiutano, in realtà, non è “la pedagogia” ma le scempiaggini di una decrepita setta pedagogico-ministeriale che ha già fatto innumerevoli danni.
Ecco qualche brano del libro di Biesta, che consigliamo a tutti gli insegnanti che vogliano riempire nuovamente di senso il proprio lavoro, sempre più spesso svuotato dalla burocrazia:
«Negli ultimi vent’anni, in numerose pubblicazioni accademiche e documenti di politicy dell’insegnamento, è apparsa spesso la tesi secondo cui il cosiddetto insegnamento tradizionale – un’organizzazione dell’educazione tale per cui l’insegnante parla e gli studenti dovrebbero ascoltare e assorbire passivamente informazioni – è da considerarsi inefficace e obsoleto […]. Si noti come l’opposizione fra “tradizionale” e “d’avanguardia” sia già di per sé stantia, e non dovremmo nemmeno dimenticare che criticare l’insegnamento tradizionale è, oggigiorno, una mossa tradizionalista».
«Learnification è un termine che si riferisce a una tendenza, relativamente recente, che mira a esprimere molto, se non tutto, ciò che c’è da dire sul tema dell’istruzione in termini di apprendimento. Questa si manifesta nell’abitudine di riferirsi a studenti, alunni, bambini e adulti, come “discenti” (learners), a riferirsi alle scuole come “ambienti di apprendimento” o “luoghi deputati all’apprendimento” e a vedere gli insegnanti come “facilitatori dell’apprendimento”. La ridefinizione dell’ “educazione degli adulti” (“adult education”) nei termini del ‘lifelong learning’ (“apprendimento permanente”) è un nuovo esempio della nascita di un “nuovo linguaggio dell’apprendimento […]. Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno.
Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla […]».
«…l’apprendimento sembra essere al servizio di un’economia capitalista globale, che ha bisogno di forza lavoro flessibile e adattabile. In tale contesto, l’apprendimento è descritto come un atto adattivo, senza che ci si chieda a cosa ci si dovrebbe adattare e perché, prima di ‘decidere’ di farlo. La ‘libertà di apprendere’ dell’individuo […] sparisce, così come è assente una concezione dell’apprendimento al servizio della democrazia […].
La domanda che non viene mai posta è se l’ambiente a cui il sé sta cercando di adattarsi sia un ambiente a cui ci si dovrebbe adattare, un ambiente a cui valga la pena adattarsi. Il sé – e forse dovremmo dire il sé adattabile e adattivo – non può mai generare, da solo, un criterio con cui valutare ciò a cui si sta adeguando. È quindi preso, in quanto ‘oggetto’, da ciò a cui si sta adeguando, un problema che ho cercato di esemplificare servendomi dell’immagine del robot aspirapolvere» (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022, p.40-41,56,75 [passim]).
Gruppo La nostra scuola
Associazione Agorà 33
Questo il testo integrale dell’articolo:
http://www.gessetticolorati.it/dibattito/2022/12/10/disciplinarismo-e-pedagogia/