
Questo è il testo della relazione per il Convegno Nazionale Docenti: “L’adolescente nel futuro. Ma quale futuro?”, organizzato dal CEIS a Roma il 9 marzo 2023
In che modo la scuola può aiutare gli studenti a crescere? Diciamo prima di tutto che esiste un enorme problema di disagio giovanile – fatto di dipendenze, abusi, autolesionismo, sofferenze profonde – sommerso e sottovalutato, che richiederebbe l’attivazione in tutte le scuole di seri sportelli d’ascolto psicologici. E bisognerebbe porsi il problema di che cosa fa e può fare lo sportello d’ascolto, anche dal punto di vista terapeutico: oggi la scuola, nel migliore dei casi, si limita a intercettare il disagio e a segnalarlo, senza che nell’ambito scolastico si possa svolgere un’azione terapeutica. Ma noi sappiamo che proprio agli studenti che ne avrebbero più bisogno difficilmente le famiglie daranno la possibilità dell’accesso all’aiuto psicologico; aiuto che d’altra parte non è fornito nemmeno dal servizio sanitario pubblico, se non in casi gravissimi, e non di rado nemmeno in quelli. L’aiuto allora, forse, andrebbe dato a scuola. Ma questo è un discorso difficile, che ci porterebbe troppo lontano. L’intento del presente intervento è ragionare su cosa possono fare gli insegnanti, che non possono sostituirsi ad altre figure professionali, per aiutare gli studenti a crescere.
È interessante partire da ciò che prevede l’articolo 33 della Costituzione:
«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».
Cosa significa libertà di insegnamento? Non è un diritto degli insegnanti all’arbitrio, come qualcuno vorrebbe far credere, ma quello delle future generazioni a incontrare una pluralità di pensieri, punti di vista, visioni del mondo, prospettive culturali, stili e metodologie di insegnamento, al di fuori di qualunque totalitarismo, fosse anche quello di una (tecno o buro) Pedagogia di Stato.
Da questo punto di vista, la libertà di insegnamento non è tanto un diritto, quanto un preciso dovere costituzionale degli insegnanti
Cosa significa questo dovere? Da cosa è motivato? In un recente incontro della nostra associazione (https://www.youtube.com/live/xyGALoBF6Z8?feature=share), il professor Bailone, dell’Università popolare di Torino, ha messo a fuoco un concetto importantissimo: il dovere degli insegnanti è aiutare gli studenti a pensare, in modo critico; e come può farlo? Esercitando lui per primo la libertà di pensiero. Gli insegnanti insegnano a pensare, mostrando agli studenti il processo del pensiero nel proprio stesso pensare insieme a loro. Un insegnante che pensa insegna a farlo anche agli studenti (il ruolo fondamentale dell’imitazione nell’apprendimento è confermato anche dalle neuroscienze, dopo la scoperta dei neuroni specchio); un insegnante parassitato dal “clero ministeriale”(ancora secondo la definizione del professor Bailone), che esegua soltanto ordini e indicazioni che arrivano dall’alto, insegna a NON pensare, semmai a ubbidire. Insegna che la cultura è burocrazia, non sguardo critico sull’esistente.
Se teniamo presenti queste considerazioni, e andiamo a leggere l’elenco dei campi in cui dovrebbe articolarsi la formazione coordinata dalla Scuola di alta formazione istituita dal governo Draghi con il famigerato decreto 36, ora legge 79, la contraddizione appare particolarmente stridente. Ecco qui:
– “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei”;
– “governance della scuola: teoria e pratica”;
– “leadership educativa”;
– “staff e figure di sistema: formazione tecnico metodologica, socio-relazionale, strategica”;
– “continuità e strategie di orientamento formativo e lavorativo”;
– “potenziamento delle competenze in ordine alla valutazione degli alunni”;
– “profili applicativi del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche”;
– “tecniche della didattica digitale”.
Ci si chiede dove sia qui la scuola, e il ruolo degli insegnanti PER gli studenti, di cui parleremo tra poco.
Intanto notiamo come i documenti ministeriali sulla scuola risentano tutti di uno stesso vizio, di cui parla il filosofo dell’educazione Biesta, in un preziosissimo libro pubblicato da poco in Italia:
«Learnification è un termine che si riferisce a una tendenza, relativamente recente, che mira a esprimere molto, se non tutto, ciò che c’è da dire sul tema dell’istruzione in termini di apprendimento. Questa si manifesta nell’abitudine di riferirsi a studenti, alunni, bambini e adulti, come “discenti” (learners), a riferirsi alle scuole come “ambienti di apprendimento” o “luoghi deputati all’apprendimento” e a vedere gli insegnanti come “facilitatori dell’apprendimento”. La ridefinizione dell’ “educazione degli adulti” (“adult education”) nei termini del ‘lifelong learning’ (“apprendimento permanente”) è un nuovo esempio della nascita di un “nuovo linguaggio dell’apprendimento”, così come lo è l’ubiquità dell’espressione “teachingandlearning”.
Il punto principale che desidero sottolineare è che il linguaggio dell’apprendimento NON BASTA a descrivere il processo educativo.
[…] Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno.
Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla»
(Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, pp.40-41).
Cosa manca infatti, in molti discorsi sulla scuola? Abbiamo cercato di metterlo in luce nel documento Manifesto per la nuova Scuola, redatto dal Gruppo “La nostra scuola” – Associazione “Agorà 33” e sottoscritto da alcuni dei maggiori intellettuali italiani (cfr. https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/).
Cosa abbiamo detto?
Che la scuola per funzionare, ha bisogno di due cose: la relazione e la conoscenza: il lavoro comune sulle conoscenze tra studenti e insegnanti infatti nutre la relazione e, reciprocamente, gli studenti si appassionano alle conoscenze anche attraverso la relazione con l’insegnante. In pratica, i contenuti culturali fanno da tramite di una relazione intergenerazionale che è indispensabile per le persone in crescita, perché permette loro di relazionarsi con un mondo adulto diverso da quello familiare, di rapportarsi al gruppo dei pari e di sperimentare dinamiche di gruppo e affettive all’interno della classe, in quella classe che rappresenta una vera e propria mente collettiva (tra parentesi, di questo non si tiene mai conto quando si parla di classi aperte, di DADA… Come se gli studenti non avessero bisogno di legami duraturi). Allo stesso tempo, attraverso il lavoro sulle conoscenze, gli studenti possono lavorare indirettamente anche all’elaborazione delle proprie dinamiche interiori. La conoscenza di sé e la conoscenza della realtà, che le discipline consentono di approcciare con ordine, senso del limite e gradualità, sono infatti due facce della stessa medaglia.
Ecco, chi sottrae importanza alle conoscenze (magari a favore di quelle astratte entità chiamate “competenze”, oppure in un’idea di interdisciplinarità che paradossalmente vuole eliminare le discipline), prosciuga anche il terreno su cui crescono la relazione scolastica e la relazione intergenerazionale studenti-insegnanti, che non è direttamente affettiva come quella familiare ma ha come punto di incontro i contenuti culturali e disciplinari significativi su cui si lavora insieme. La forma specifica di affetto dell’insegnante, in particolare, si traduce nel voler dare alfabetizzazione, conoscenze, cultura ai propri studenti; nel vederli crescere dal punto di vista umano e culturale.
Ma in che modo l’insegnamento può aiutare gli studenti a crescere? C’è un modo specifico che appartiene solo alla scuola, quello appunto del lavoro su contenuti culturali significativi insieme agli studenti, un lavoro che, come detto sopra, nutre la relazione e (insieme a una cornice di regole ragionevoli e motivate) aiuta indirettamente gli studenti anche a elaborare le proprie dinamiche interiori. Altra cosa invece è chiedere ai docenti di improvvisarsi psicologi e irrompere in queste delicatissime dinamiche in maniera esplicita, senza sapere davvero quali corde profonde delle persone in crescita si vanno a toccare, con i danni che possono derivarne. È la logica sottesa ad esempio al concetto di “competenze non cognitive”, in virtù delle quali si chiede agli insegnanti di entrare nel merito delle questioni relative alla personalità degli studenti, dandone addirittura una valutazione, come se la scuola fosse un centro di formazione e reclutamento precoce delle “risorse umane” che misura affidabilità, adattabilità e simili, invece che un luogo di istruzione, socialità e sviluppo integrale della persona.
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Vorrei proporre un esempio, tra gli innumerevoli possibili, di come si possono toccare dinamiche sensibili senza porsi abusivamente come psicologi (cosa che purtroppo fanno tanti “formatori”), lasciando liberi gli studenti di sviluppare le proprie riflessioni. La letteratura aiuta sempre: gli studenti possano trovare rispecchiati nei temi e nei modi espressivi della letteratura (ma anche in qualunque altro contenuto culturale significativo) gli stessi contenuti interiori che li appassionano, li preoccupano, li fanno soffrire.
L’esempio è questo, che mette insieme lezioni realmente svolte sulla poesia provenzale, quanto di più apparentemente lontano – almeno dal punto di vista cronologico – dagli studenti e dal loro presente.
- Dopo un’introduzione generale, si procede ad una lettura antologica di testi che fa emergere una delle caratteristiche principali della poesia provenzale, cioè l’impegno richiesto all’uomo che voglia conquistare la donna di cui è innamorato (la poesia provenzale è uno strumento di corteggiamento). La pazienza, la fedeltà, la perseveranza, la forza di volontà, il coraggio, il rispetto, la discrezione sono qualità maschili (in alcune poesie anche femminili) senza le quali non è possibile alcuna conquista; proprio la presenza di queste qualità sembra colpire molto gli studenti di entrambi i sessi, specie quando essa viene collegata all’idea della gradualità del percorso amoroso, durante il quale l’uomo deve superare una serie di prove e ottiene dei segni progressivi di fiducia e di abbandono da parte della donna, dalla confidenza a parole fino al bacio e alla possibilità di un contatto fisico più intimo. La gradualità della conquista, che prevede passaggi precisi e codificati, rappresenta un modo per unire nell’amore la dimensione fisica e quella spirituale: l’attesa alimenta eros e attrazione e costringe ad una sublimazione che rende l’amore una dimensione che coinvolge l’essere umano nella sua interezza e gli permette di coltivare nel tempo le sue migliori qualità, prima fra tutte la fedeltà all’amore;
- Colpito dall’interesse mostrato dagli studenti per queste tematiche e già con un’idea di conduzione del dibattito in mente, sia pure aperta a quello che via via emerge, chiedo alla classe se un modello di amore come quello provenzale sarebbe attuabile e auspicabile ai nostri giorni. Chiedo in particolare quali siano le differenze, secondo gli studenti, tra le modalità provenzali di vivere l’amore e quelle contemporanee. Alcuni maschi mi dicono subito che il problema è che le ragazze, a loro dire, si concedono troppo facilmente; le ragazze dicono che sono i maschi che vogliono tutto e subito. Tralasciando altri passaggi intermedi, la conclusione del discorso è che la conquista e il rapporto amoroso sono caratterizzati dalla fretta, basata su un terribile malinteso e un paradosso: ragazzi e ragazze “corrono”, bruciano le tappe, credendo ognuno di fare ciò che l’altro si aspetta, e che in realtà non vuole. I maschi, in particolare, riescono a confessare che questo ruolo maschile, di colui che ha sempre e comunque fretta, crea in loro un forte stato di ansia, che sarebbe evitabile attraverso una conoscenza paziente e graduale della ragazza di cui sono innamorati, con una progressione lenta della tenerezza e dell’intimità. Insomma, si mostrano piuttosto consapevoli del fatto che il ruolo maschile stereotipato a cui si sentono costretti non rispecchia ciò che vogliono davvero;
- Per completare il discorso con il punto di vista femminile, espresso con più riservatezza, ricorro alla visione di un film, dicendo genericamente che è collegato alle tematiche letterarie affrontate, senza dire come. Il film è The breakfast club, un grande capolavoro nella possibilità di rispecchiamento e di identificazione con i personaggi che offre agli adolescenti e nelle emozioni e riflessioni che è capace di suscitare (devo la conoscenza di questo film allo psicoanalista Alessandro Zammarelli, membro fondatore del nostro gruppo, le cui riflessioni sono presenti anche in vari altri passaggi di questo intervento. D’altra parte il gruppo La nostra scuola è nato proprio con l’idea di mettere a confronto e far dialogare insegnanti ed esperti dell’età evolutiva, con la distinzione chiara dei ruoli e l’arricchimento reciproco). In una scena del film, le due protagoniste, Claire ed Allison, in presenza dei maschi (i cinque protagonisti sono tenuti chiusi a scuola per l’intera giornata del sabato, a scrivere un tema e a riflettere su qualcosa di grave – non si sa cosa – che ciascuno di loro ha commesso), portano avanti un importantissimo dialogo: Allison finge di essere particolarmente disinibita, per costringere l’altra, Claire, a confessare se è mai stata con un ragazzo oppure no. Ad un certo punto (cito dal doppiaggio italiano) Allison dice pressappoco: “questa domanda è una trappola, se dici sì sei una puttana, se dici di no sei una suora”. Quando Claire perde il controllo e urla di essere vergine Allison, che si era finta ‘ninfomane’, risponde: “sono vergine anch’io, ma farei l’amore con un ragazzo che mi ama davvero”. A questo punto il dibattito in classe si sposta sulla falsa alternativa, che condanna sempre la donna, tra l’essere troppo poco disponibile o troppo disponibile. Il discorso ritorna circolarmente sulla poesia provenzale: gli studenti sembrano concordare sul fatto che questa falsa alternativa possa essere superata attraverso l’idea ‘provenzale’ che l’amore fisico rappresenti l’ultima tappa di un percorso che preveda la scoperta dell’intimità attraverso l’amore e l’affetto, la conoscenza reciproca, una confidenza che cresca col tempo, man mano che l’altra persona si rivela degna di fiducia e di abbandono.
Ecco, questo è un esempio di come il lavoro sulle conoscenze possa diventare educativo senza volerlo essere esplicitamente, utilizzando le conoscenze come modalità per spingere gli studenti a pensare. Senza conoscenze, a partire da una reale e approfondita alfabetizzazione, questo lavoro non è possibile. E spesso, la critica alle conoscenze e ai saperi priva il discorso scolastico di sostanza, lo fa girare a vuoto su metodologie fini a se stesse, con una terribile inversione mezzi-fini. Lo aveva capito già tantissimi anni un grande scrittore quasi dimenticato come Lucio Mastronardi:
Le lezioni le tiene una professoressa di pedagogia. “Cari maestri, mettetevi in mente che il fanciullo non è un vaso da riempire…” esordì la professoressa. “Ma un vaso da vuotare!”, sghignazzò Nanini […] La professoressa si irritò: “Ma un focolare da accendere”, disse […]. Si ricordi che sta parlando con una funzionaria del gruppo A…” […]. “Una lezione sul ferro per la quarta elementare […]. Come farebbe lei a spiegare il ferro?”, domandò a una maestrina. “Guarderei quello che dice il sussidiario”, rispose la maestrina. “Ah!”, urlò quella con una faccia disgustata, “il libresco! Ancora il libresco! Per fare una lezione sul ferro cominceremo a portare la scolaresca a casa di un minatore!”. “Impossibile, urlò Nanini, “a Vigevano non ci sono i minatori!”. La professoressa dopo un momento di smarrimento si riprese: “Quando andate a fare le gite scolastiche, scegliete un luogo dove ci siano minatori…”
(Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, Torino, Einaudi, 1962, pp.112-113).
La scuola della conoscenza, che molti vorrebbero eliminare a favore dell’addestramento a “competenze” predeterminate, è quella in cui gli studenti sono liberi di applicare a sé quello che imparano. Il che significa, naturalmente, che debbano imparare qualcosa di significativo e non necessariamente vicino alla loro esperienza quotidiana: altrimenti si escluderebbe a priori l’accesso ad altri mondi di significazione e la possibilità della messa in discussione del proprio orizzonte esistenziale e conoscitivo attraverso il confronto con altre realtà e altre modalità di pensiero, rappresentate dalle diverse discipline nella loro ricchezza e nei loro fondamenti epistemologici.
Come spiegano benissimo Laval e Vergne, teorici dell’educazione democratica :
«Più ci si mantiene vicini all’esperienza sensoriale e sociale degli studenti, più [secondo Dewey] se ne facilita l’accesso alla conoscenza. Il dilemma qui è capire se, a forza di confondere l’esperienza sociale con quella scolastica, non si corra il rischio di svalutare le conoscenze scolastiche in ciò che esse hanno di specifico e formalizzato, e quindi di rendere meno comprensibile per ragazzi di umili origini ciò che devono imparare a scuola e che non possono imparare al di fuori. Infatti, appropriarsi dei saperi scolastici implica che si comprenda anche la necessità della distanza che esiste tra la realtà vissuta e la formalizzazione, sistematizzazione e progressione di tali saperi. A tal punto che occorre chiedersi seriamente se la democrazia scolastica non consista piuttosto nell’aiutare gli studenti a uscire dalle loro esperienze immediate per accedere alla ragione scritta, alla pratica riflessiva sulla lingua, alla cultura scolastica, a quello che Bernstein chiamava il ‘codice elaborato’, senza per questo che prevalga in essi un senso di alienazione. La difficoltà pratica dell’istruzione consiste quindi nel garantire che l’universo dei saperi, dei simboli e dei concetti costituisca oggetto di esperienze cognitive specifiche e interessanti in se stesse, senza essere immediatamente respinte come prive di interesse in quanto lontane dalla ‘vita reale’. È questa esperienza specifica dei saperi scolastici che permette allo studente di prendere le distanze dalla realtà sociale in cui è immerso» (Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, 2022, pp 119-120).
E ancora Gert Biesta: «La domanda che non viene mai posta è se l’ambiente a cui il sé sta cercando di adattarsi sia un ambiente a cui ci si dovrebbe adattare, un ambiente a cui valga la pena adattarsi. Il sé – e forse dovremmo dire il sé adattabile e adattivo – non può mai generare, da solo, un criterio con cui valutare ciò a cui si sta adeguando. È quindi preso, in quanto ‘oggetto’, da ciò a cui si sta adeguando, un problema che ho cercato di esemplificare servendomi dell’immagine del robot aspirapolvere» (Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p.75).
D’altra parte, l’abbiamo detto, la spinta neoliberista a trasformare l’istruzione in addestramento e in adattamento alla realtà così com’è, con la cancellazione di una cultura che è sempre forza trasformativa e riserva di senso critico rispetto all’esistente, è insita nella logica delle “competenze”, quella che un certo pensiero pedagogico purtroppo troppo spesso si presta a giustificare. Lo spiega in maniera inequivocabile lo storico Boarelli, con le cui parole concluderei:
«Questa visione dell’educazione attiva è in profondo contrasto con quella praticata attraverso le ‘competenze’. L’educazione attiva, per essere veramente tale, deve porsi l’obiettivo di fornire ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per incidere sulla realtà, per modificarla attraverso una comprensione individuale e un’azione comune. L’approccio per ‘competenze’, al contrario, si basa su una adesione alla realtà esistente come se questa possedesse una realtà propria (il reale non è razionale, sosteneva Dewey). Non si propone di sottoporla a una lettura critica, tanto meno di cambiarla. Il suo scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per adattarvisi. La sua azione è modellata sugli individui singoli, privi di legami sociali, che devono essere dotati di propri ‘portafogli’ di competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare da un loro uso accorto sul ‘mercato’. In questo modo le finalità individuali e sociali vengono separate, viene ricostituita un’opposizione artificiale tra dimensione personale e dimensione comunitaria.
Non stupisce che questa visione pretenda di fare tabula rasa di una ricca tradizione pedagogica costruita intorno al nesso tra individuo e società, tra educazione e democrazia. Stupisce, semmai, che un nuovo filone pedagogico si presti a legittimare questa mutazione. Nella costruzione delle ‘competenze’, i pedagogisti arrivano a giochi già fatti. Il loro ruolo prevalente è diventato quello di fornire – a posteriori – un quadro teorico di riferimento a un concetto che nasce, come abbiamo visto, su un terreno diverso rispetto a quello educativo.
Per renderlo credibile, si cerca di costruire intorno ad esso una genealogia, alla ricerca di radici antiche e padri nobili, senza preoccuparsi troppo dell’eterogeneità delle correnti di pensiero chiamate in causa. Lo scopo è piuttosto quello di fornire una narrazione che ‘concili l’inconciliabile’, di legittimare il fatto che l’orientamento delle politiche educative sia spostato dal complesso delle dinamiche sociali a una loro declinazione specifica ed esclusiva: l’economia e l’impresa» (Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari-Roma, Laterza, 2019, pp.25-26).
Luca Malgioglio, Gruppo La nostra scuola/Associazione Agorà 33