Di studenti, didattica e altro

I

Agli studenti piace molto quando si spiegano loro le cose, un po’ perché hanno una curiosità insopprimibile e mantengono sempre un filo di speranza nel fatto che gli adulti possano appagarla, un po’ perché mentre si dialoga si accorgono che ci si sta rivolgendo proprio a loro e si sentono considerati e rispettati nel loro esserci e nella loro intelligenza. Invece dopo mezz’ora di “didattica innovativa” impersonale, fine e non più mezzo, in cui loro stessi scompaiono, cannibalizzati dall’idea astratta dell’innovazione (vedi certi corsi on line nell’ambito dei “PCTO”, o quando vengono piazzati in isolamento forzato davanti ai device, o anche durante dei sedicenti “lavori di gruppo” privi di senso e significato), sono già stanchi e demotivati, si spengono ed entrano in modalità burocratica, proprio come gli adulti.

II
Dare il giusto riconoscimento alla preparazione, alla bravura e all’intelligenza di una studentessa senza che questo significhi sminuire altri. Ieri ho fatto così: “Ragazzi, ascoltate con attenzione quello che dice Rachele, che sta spiegando benissimo l’argomento. Avete presente i neuroni specchio? Quelli per cui le connessioni cerebrali legate a un’attività si creano non solo facendola, quell’attività, ma anche vedendola fare? Ecco, con il pensiero succede la stessa cosa: chi segue un pensiero altrui ben argomentato in quel momento sta pensando a sua volta; e il discorso che sentite è come se lo faceste voi”.

III
I miei studenti di prima superiore ripetendo insieme le coniugazioni dei verbi non solo le imparano ma sentono meno l’ansia e l’angoscia dei quindici anni: ogni tanto un appiglio di certezze tangibili (il congiuntivo imperfetto di un verbo è sempre lo stesso), che passa per la soddisfazione di capire e imparare insieme, li tranquillizza molto rispetto alla confusione che sentono dentro, tipica di un’età di cambiamento e di inquietudini e incertezze difficili da esprimere. Poi si passa a discorsi legati alle storie e ai racconti, e al senso stesso delle parole, e si aprono spiragli di pensiero che vanno molto più in profondità. Alternare attività più strutturate, che “contengono” e rassicurano, ad altre che richiedono un coinvolgimento maggiore del pensiero e dell’emotività è fondamentale, in certe fasi della crescita.

Sarebbe bello se chi sproloquia di scuola da “esperto” su voti, ansia, “didattica trasmissiva” e di tutto un po’ avesse non dico autentiche conoscenze di psicologia dell’età evolutiva, che sarebbe chiedere troppo, ma almeno una conoscenza minima di come sono fatti gli adolescenti…

P.s. Questa naturalmente è solo una parte della questione. C’è poi un disagio giovanile dilagante che andrebbe affrontato con adeguati strumenti psicologici. Relazione scolastica e lavoro sui contenuti culturali possono fare molto ma a volte non sono sufficienti.

IV
Se si fa notare che moltissimi studenti delle scuole superiori non hanno idea di cosa significhi “prevenuto”, “succube”, “pudore”, “ambiguo”, “stravagante”, “pregiudizio”, “abusare” o “regredire” (per fare qualche esempio a caso), che hanno una calligrafia illeggibile, che a quattordici anni scrivono “mescolazione” per mescolanza, “il gruppo si riugniva” e “millegni” invece che “millenni”, arrivano subito degli attempati giovanilisti che accusano gli “insegnanti-boomer” di essere contro i giovanissimi e la loro cultura, di essere dei rappresentanti dell’eterna scontentezza dei vecchi verso i giovani, di essere i soliti laudatores temporis acti.

A me, quando vedo studenti che non riescono a scrivere una frase dotata di coerenza logica e di una correttezza ortografica minima, sinceramente si stringe il cuore: altro che odio verso i giovani. Se dovessi detestare qualcuno, detesterei chi per motivi poco nobili vuole negare a tutti i costi che ci sia una progressiva perdita di consuetudine dei giovanissimi con la parola scritta e chi finge di non vedere come il sostare poco, già dalla scuola primaria, sui saperi e sulle abilità fondamentali, a favore di una burodidattica inter-pluri-multi disciplinare presuntamente leggera, in realtà superficiale e irresponsabile, abbia degli effetti a cascata su tutto il percorso futuro degli studenti.

V
“… l’eroe, che nonostante avesse assunto lo stesso farmaco che avevano assunto i suoi compagni, non gli fece effetto”; “per poi ritrovarsi su un’isola che solo poco dopo capì che il suo nome era l’isola dei Feaci”.

Prendo questi due esempi ravvicinati di anacoluto, sempre più diffuso negli elaborati dei nostri studenti, per segnalare come le difficoltà sintattiche dei giovanissimi siano altrettanto se non più preoccupanti della scorrettezza ortografica e dell’impoverimento lessicale (dove il problema non è certo l’ignoranza del significato di “pedissequo” o “sesquipedale”, a cui qualcuno vorrebbe ridurre la questione, ma la mancanza di un lessico minimo che permetta di andare oltre l’immediatezza dell’esperienza quotidiana), tutti fenomeni che gli esperti della patagogia, magari in salsa socio-lingustica, si affrettano a negare, forse perché riconoscerli significherebbe riconoscere che la cosiddetta innovazione pedagogica nella scuola primaria – quella che porta a soffermarsi poco sulle abilità e le conoscenze di base – così come il dilagare del digitale a scapito di modalità di comunicazione che permettano una maggiore elaborazione del pensiero non sono benèfici come ci avevano raccontato.


VI
Scorro un manuale di didattica per Unità Di Apprendimento, riguardante le materie letterarie, scritto da insegnanti. La cosa più terribile non sono le incredibili banalità che suggerisce come “nuovo”, “innovazioni” che dovrebbero essere capaci di per sé di coinvolgere ed entusiasmare gli studenti – in realtà pompose e imbarazzanti scoperte dell’acqua calda appesantite da un assurdo gergo pseudo-tecnico e condite da spaventose perdite di tempo (debate del tutto pretestuosi, ‘nuove tecnologie’ infilate a forza in ogni percorso, flipped classroom e cooperative learning adottati solo per far vedere che si utilizzano la flipped classroom e il cooperative learning, senza nessun interesse culturale per l’argomento proposto); no, la cosa più terribile sono i perentori indicativi: “attraverso questa attività lo studente SVILUPPERÀ la competenza per…; lo studente a questo punto POSSIEDE le competenze…”, come se l’istruzione fosse un montaggio infallibile di mattoncini Lego, in cui tutto è misurabile e prevedibile a priori. Ma gli esseri umani, tanto più le persone in crescita, non sono macchine o robot perfettamente programmabili; e in un sistema non totalitario non può esistere una scuola che non lasci spazio all’imprevedibilità dei percorsi conoscitivi e culturali e della risposta individuale, alla ricca complessità del rapporto educativo e degli aspetti emotivi dell’apprendimento. Fare scuola dovrebbe aprire il campo del possibile nella mente dei nostri studenti, non chiuderlo in una recita tecnicistica priva di ogni sostanza e verità.


VII
Interi popoli, con pochissime eccezioni al loro interno, hanno potuto credere ciecamente per secoli all’esistenza delle streghe e alla necessità di uccidere gli infedeli per volontà di Dio o, più di recente, all’esistenza delle razze e alla superiorità della razza ariana.

Se una prospettiva storica ci mostra come ogni epoca sia stata segnata da fedi e da idee che noi oggi consideriamo assurde, come possiamo pensare di essere a nostra volta del tutto immuni – specie nelle “scienze umane”, come quelle nate attorno ai temi dell’educazione – dai condizionamenti e dai pregiudizi della nostra epoca, quelli che non vediamo perché ci siamo dentro? Nessuno dovrebbe dimenticare che ottant’anni fa anche uno stimato endocrinologo come Nicola Pende ha offerto una sponda “scientifica” alle idee razziste.

La storia ci aiuta a liberarci dell’illusione che i pregiudizi del nostro tempo, anche quelli che trovano senza troppe difficoltà le “evidenze empiriche” di cui hanno bisogno per confermare se stessi, siano la Verità; in qualche modo, ci aiuta a relativizzare il presente. Dev’essere per questo motivo che il potere ha sempre odiato la storia e ha sempre tentato di cancellarla o di porla strumentalmente al proprio servizio: relativizzare il presente significa poter mettere in discussione il potere dominante in un determinato momento e i suoi stessi presupposti, immancabilmente “scientifici” e fatti passare come indiscutibili e privi di alternative. A proposito, non dimentichiamo che le “riforme” dell’istruzione degli ultimi trent’anni hanno avuto come scopo dichiarato il superamento dell’ “impianto storicistico” della scuola italiana.

VIII
La motivazione al lavoro scolastico degli studenti si fonda su un difficile equilibrio tra l’interesse e la curiosità per ciò che si scopre, la soddisfazione per i risultati che si ottengono, il piacere della relazione educativa, la richiesta anche ferma di impegno da parte degli adulti, spesso indispensabile per spingere gli studenti ad andare oltre la barriera dell’inerzia che ognuno di noi si trova di fronte ogni volta che deve cominciare qualcosa di nuovo e difficile o deve affrontare ciò che non conosce. È un equilibrio che l’insegnante cerca ogni giorno di trovare insieme alle classi e con ogni singolo studente, per quanto lo permetta il sovraffollamento delle classi.

Non credo che chi sa soltanto spingere ossessivamente verso l’abolizione dei voti sia davvero interessato a questo delicato processo.

IX

Da dove è arrivata l’idea del “dirigente scolastico innovatore?” Il dirigente dovrebbe gestire una scuola, non “innovare”; sono gli insegnanti che innovano, nel senso che propongono le conoscenze in modo sempre diverso a seconda della situazione educativa, della rielaborazione richiesta in un determinato momento e delle persone in carne e ossa a cui insegnano, in una complessità, un adattamento dei mezzi ai fini, in un circolo virtuoso conoscenza-relazione che solo chi insegna può conoscere (da qui la centralità del collegio docenti come luogo di confronto delle esperienze, tutta da recuperare rispetto a decisioni che non hanno nulla a che fare con la realtà della scuola, calate dall’alto con il paradossale pretesto dell’ “autonomia”) e solo chi è in classe può portare avanti.

E poi…

Riempire a forza le scuole di spazzatura digitale, scindere formalisticamente le metodologie – con il bollino-spot “innovative” – dai contenuti reali e dal desiderio di sapere, ridurre l’insegnamento ad adempimento burocratico astratto, con la retorica demente delle “competenze” e oggi con i sedicenti “orientamento”, pcto, “educazione civica”: tutto questo ostacola la relazione educativa e il lavoro sulle conoscenze e fa sprofondare la scuola in una crisi i cui stessi fattori continuano a essere proposti in modo perverso come rimedi.

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