La fatica di scrivere. Sul dibattito riguardo all’educazione linguistica “democratica”.

di Giorgia Loi

Un insegnante può pianificare fino ad un certo punto, poi deve arrendersi all’inesorabilità del presente in continuo, imprevedibile divenire e deve sviluppare costante capacità di adattamento: trarre il massimo da quello che ha, nella situazione in cui si trova, nel momento presente, come un demiurgo che lavora ad una materia preesistente.


Ci sono molte cose che un docente d’italiano è chiamato a fare e che possono variare col variare delle classi, ma ce n’è una, la quale è il sottile filo rosso che attraversa di necessità qualsiasi percorso: insegnare a scrivere.
La fatica di scrivere è una ferita che sanguina nella scuola di oggi: i ragazzi arrivano alle superiori avendo rimosso il corsivo, le regole ortografiche, la punteggiatura, la coniugazione corretta e pertinente dei tempi e dei modi verbali, ma soprattutto stiamo assistendo ad una sorta di “nichilismo” del pensiero, di vuoto in cui tanti studenti paiono sprofondare di fronte allo svolgimento di un qualsiasi testo.
Stare in classe a fare questo tipo di lavoro è un po’ come resistere allo sfacelo totale di una scuola che da anni, ormai, è distratta da mille incombenze e fatica a riprendersi il suo compito primario: alfabetizzare.


Quando diciamo “alfabetizzare” non intendiamo solo un processo di acquisizione “meccanica” e scientifica di nozioni. Il lavoro sulle conoscenze, sulla memoria e insieme sullo scritto e sul parlato, d’altronde, non è mai fine a sé stesso, ma è sicuramente quel “motore immobile” (per parafrasare Aristotele) che imprime il movimento a tutte le altre dimensioni del percorso di crescita e maturazione.


Imparare a coniugare correttamente i verbi ci consente, per esempio, di distinguere la differenza che passa tra un imperfetto e un passato remoto, tra un congiuntivo e un indicativo e di avere strumenti di scelta consapevole nelle varie situazioni comunicative.
Svolgere costanti esercizi sul lessico attraverso la lettura e lo studio di testi differenziati, letterari e non letterari, è indispensabile per allargare l’orizzonte del noto solo attraverso l’ambito ristretto (e solo apparentemente globale e onnicomprensivo) dei social il cui obiettivo finale è, stavolta parafrasando Kant, tenere gli uomini nel loro “stato di minorità”, in una sorta di prigione inconsapevole, che io chiamerei “tirannia linguistica”, la morte della vera istruzione democratica.


Lo scollamento, peraltro, che esiste fra abbassamento dei livelli di complessità nel lavoro scolastico pregresso e tipologia di prove d’Esame elaborate dalle commissioni ministeriali, è totale, e, questo sì, antidemocratico, perché avvantaggia quei pochi che, arrivati da contesti felici, sono in grado di svolgerle, mentre mortifica i più che arrivano al traguardo, e poi all’università o ai primi colloqui di lavoro, letteralmente “orfani di parole”. Avere le parole è saper pensare, “Un’idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita o mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola essa prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta”, in quanto “noi pensiamo parlando”, a ricordarcelo nello Zibaldone è proprio Leopardi, a cui le parole hanno salvato la vita.


Ma la “fatica di scrivere”, che è fatica del pensiero, ha altri risvolti nel dibattito attuale.
Scrivere a mano o affidare tutto a una tastiera? Scrive Laura Biancato, Dirigente Scolastico: “Il tema scritto a mano è l’assurdità più grande. Non credo che esista più nessuno che scriverebbe un testo complesso senza usare le grandi possibilità di revisione che offre il digitale”. La stessa appoggiava nel 2021 l’appello degli studenti per l’eliminazione della prova scritta d’italiano dall’Esame di Stato, ritenendola obsoleta e superata, inadatta alle esigenze del mondo odierno e, in specie, del mercato del lavoro.


Insomma, in un’epoca di trionfo del digitale scrivere a mano pare sia diventato obsoleto e scrivere temi addirittura inutile e mortificante. E soprattutto chiamano “democrazia” la negazione dell’indispensabile nel processo di alfabetizzazione umana, la quale, è scientificamente provato, avviene senza la mediazione della macchina.


Uno degli ultimi studi in ordine di tempo è stato condotto da Audrey van der Meer, presso l’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia e pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che la scrittura a mano attiva simultaneamente diverse aree cerebrali, motorie, sensoriali e cognitive, favorendo la connettività neuronale e la memorizzazione molto più di quanto non faccia la digitazione su una tastiera. La scrittura a mano previene inoltre l’invecchiamento cerebrale, richiede tempi più lenti di riflessione e concentrazione per armonizzare i contenuti del pensiero con le scelte lessicali e i meccanismi di funzionamento della grammatica. Il corsivo, in particolare, stimola il processo creativo e la connessione della persona con la sua parte più profonda.


Secondo il pedagogista Benedetto Vertecchi, il graduale abbandono, specie della scrittura in corsivo, ha contribuito a impoverire il linguaggio e l’organizzazione del pensiero degli studenti. Così la pedagogista Viviana Federici di Martorana, in Perché il corsivo nella didattica, promuove la scrittura a mano come curativa e preventiva, strumento privilegiato per ordinare e stimolare la mente.
Ancora significativi appaiono altri recenti studi: quello della ricercatrice e grafologa dell’Arizona, Prof.ssa Harralson, quello della ricercatrice e psicologa dell’università di Washington, Virginia Berninger e infine lo studio canadese dell’Università della Columbia Britannica, che ha evidenziato come la scrittura di un testo in stampatello attivi solo l’emisfero sinistro del cervello che presiede alla ragione, mentre il corsivo attiva anche l’emisfero destro che controlla le emozioni.


E ci sono perfino ricerche che dimostrano il legame eziologico fra abuso e uso precoce degli strumenti digitali e disgrafia, come quella che nel 2023 è stata condotta dall’Università La Sapienza e dal Policlinico Umberto I, per cui un bambino su cinque nella scuola primaria ha difficoltà a usare il corsivo, e nel 21% dei casi c’è il rischio concreto di sviluppare un problema di scrittura, difficilmente risolvibile.


Quale posto occupa allora l’innovazione digitale in un mondo che cambia? Essere manichei quando si tratta di istruzione non è mai consigliabile: il digitale è uno strumento, puro e semplice mezzo, frutto dell’intelligenza umana, e come tale va trattato, usato con criterio e ponderazione, mai come sostituto di pratiche che la cui validità non si misura in secoli ma in ragione della sostanza: anche fare questa valutazione è una questione d’intelligenza che va lasciata alla libera scelta dell’insegnante nel qui ed ora dell’azione didattica.


Nell’era della quarta rivoluzione industriale, non si tratta, dunque, di essere a favore o contro il digitale, ma piuttosto di non farne una religione. Tutti dovremmo augurarci, invece, che non arrivi mai quel giorno temuto da Einstein “in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità [..] e il mondo sarà popolato allora da una generazione di idioti”.

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