
Pirandelliana
Che cosa vuol dire che Belluca, nella novella “Il treno ha fischiato”, aveva dimenticato l’esistenza del mondo? Cosa significa che stava conducendo una vita impossibile? E cos’è più folle, la sua spaventosa vita di tutti i giorni o il suo momentaneo apparente delirio? Cos’è follia, la ‘normalità’ o la ‘stranezza’, quelle che alla luce di una riflessione minima si scambiano così facilmente le parti?
E poi Pirandello, nei suoi romanzi e racconti, con l’idea dell’inautenticità di ogni identità che ci viene attribuita o che ci attribuiamo da soli, mantiene ancora un legame con il modello di Verga? Beh: in Mastro-don Gesualdo – ancor più che ne I Malavoglia, dove l’umanità dei protagonisti fa da controcanto alla disumanità del paese – tutti i personaggi recitano (con rarissime eccezioni, costituite di solito dalle vittime); tutti fingono, tutti sostengono una parte: ad esempio nelle contrattazioni economiche – che occupano uno spazio enorme in questo universo cupo dove conta soltanto l’interesse materiale, e dove anche un matrimonio non è nient’altro che un affare – tutti fingono di disperarsi, di aver ceduto alle richieste della controparte, di essersi rovinati, di averci rimesso, per poi andarsene soddisfatti ritenendo di averla spuntata sull’altro. La mancanza di autenticità segna tutti i rapporti umani e l’intero sistema della socialità, ed investe in pieno anche la dimensione assolutamente ipocrita di una religione che è soltanto forma, pura recita anch’essa.
Per dirla in un altro modo, tutti i personaggi in Verga portano delle maschere: ecco da dove è partito Pirandello, l’autore dei Sei personaggi in questo non ha inventato niente; già in Verga la vita sociale appare come una grande recita, dove non c’è niente di autentico. E qual è allora la differenza, per quanto riguarda la tematica della finzione, tra Verga e Pirandello? Beh, dietro le maschere di Verga c’è una realtà oggettiva, anche se essa viene tenuta nascosta: la persona ha una sua consistenza – sia pure spregevole – fatta di meschineria, di crudeltà, di grettezza, di egoismo, di istinti primordiali. Dietro le maschere di Pirandello invece non c’è niente, o meglio c’è un caos non interpretabile e non riconducibile a nessun ordine di senso. Per questo in Verga, dietro lo schermo della regressione e dello straniamento, affiora la condanna morale; in Pirandello c’è soprattutto una forma ‘umoristica’ di compassione dato che, a ben vedere, siamo tutti dei poveretti incastrati in una scelta impossibile tra un’identità fittizia e la dissoluzione di ogni identità, tra essere imprigionati in un’identità che non potrà mai essere fino in fondo la nostra e non essere nessuno.
Qui, in un’immagine, si concretizza tutta la differenza che c’è tra Ottocento e Novecento, tra la fede nell’esistenza di una realtà oggettiva – sia pure spaventosa e brutale – e il soggettivismo nel quale ogni realtà, compresa l’identità personale, si vaporizza e svanisce, scivola via tra le dita.
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E nella prospettiva pirandelliana quanto è ridicolo, ma anche degno di pietà, ogni essere umano? Quanto siamo ridicoli e patetici tutti noi, nessuno escluso, con tutte le nostre deformità? Ogni caratteristica particolare di ciascuno, esteriore o interiore, a ben vedere è una deformità, un’escrescenza mostruosa e immotivata, se non esiste più nessun modello oggettivo rispetto a cui poter misurare la normalità. E noi? Cosa possiamo dire, cosa possiamo pensare per andare oltre questo compassionevole pessimismo che sembra esso stesso una prigione? O la risposta della compassione, profondamente umana, la constatazione del carattere contraddittorio della nostra esistenza in qualche modo ci deve bastare?
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Insomma, oggi con una quinta ci siamo aggirati intorno a queste riflessioni. Non c’è cosa più bella che andare insieme in profondità, aprire porte che altrimenti rimarrebbero chiuse, pensare insieme, vedere gli studenti interessati a questioni che li riguardano più di quanto non si crederebbe (l’evaporazione delle certezze, il naufragio dell’identità, l’interrogazione angosciosa, il sentimento dell’insensatezza del proprio esistere non richiamano un’adolescenza di cui stanno vivendo l’ultima fase?), vedere la classe diventare per un’ora una mente collettiva, o una comunità interpretante.
Certo, affrontare argomenti complessi e farne oggetto di discussione è anche difficile e faticoso: bisogna creare un’abitudine alla riflessione con persone che inizialmente possono essere disinteressate, demotivate o diffidenti. Più comode le chiacchiere astratte sulle “competenze”, sul “superamento” di una presunta “lezione frontale” unidirezionale che porterebbe alla “trasmissione mnemonica di nozioni” e idiozie simili, chiacchiere che finiscono inevitabilmente col predicare un affidamento al potere taumaturgico degli “ambienti di apprendimento” e degli strumenti digitali (utilissimi senz’altro a chi li vende e a chi li fa comprare, magari in cambio di un bel compenso da “formatore”) e a un sedicente “apprendimento autonomo” che lascia gli studenti esattamente lì dove sono.

Un grande studioso africano, Achilles Mbembe definisce la società attuale “società dell’inimicizia”.
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splendida riflessione, e dire che ci stanno convincendo ad inserire corsi sull’intelligenza emotiva senza capire quanto la spiegazione di un’opera d’arte, di un testo letterario antico o contemporaneo possa toccare le coscienze e le emozioni degli alunni, far vibrare la loro vita… Piuttosto dovremmo chiederci: noi insegnanti ci emozioniamo quando spieghiamo?
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