“Missionari”?

In due anni e mezzo tante cose sono ulteriormente peggiorate ma la penso ancora così.


Missionari?
Se devo dire la verità, non mi piace l’aria che tira tra noi insegnanti a proposito del “missionarismo” di cui è accusato chi crede profondamente nel nostro lavoro di educatori e di intellettuali (e diciamocela, questa parolaccia…). È vero, siamo malpagati, assistiamo impotenti a una serie di “riforme” il cui scopo ultimo è a tutta evidenza lo smantellamento della scuola, siamo vittime di assurde richieste burocratiche che spostano le nostre energie su attività formali, vuote e inutili e le sottraggono a ciò che è importante e sostanziale; le istituzioni e i genitori ci spingono a rinunciare al nostro compito educativo, in nome di una furbesca e ignava idea di “inclusione”, secondo la quale, anziché insegnare agli studenti a rispettare le regole, anche con la necessaria fermezza, e spingerli ad un miglioramento progressivo nell’acquisizione di contenuti culturali, dovremmo semplicemente accettare l’esistente e ‘pascolare’ classi di trenta alunni che non imparano nulla.
Bene, detto tutto questo non concordo però minimamente con chi dice che questo è un lavoro come gli altri, e che considerarlo tale ci metterebbe al riparo da uno sfruttamento che usa cinicamente le nostre buone intenzioni. No, mi dispiace, insegnare/educare non è un lavoro come un altro, è una professione molto particolare e molto delicata, che richiede un altissimo grado di preparazione e capacità tutt’altro che comuni, visto che riguarda un aspetto cruciale per ogni società degna di questo nome, cioè la crescita delle nuove generazioni. Ciò non vuol dire affatto che dobbiamo agevolare il compito di chi, facendo leva sul nostro spirito di sacrificio, vorrebbe farci lavorare gratis (che poi gran parte del lavoro gratis riguarda appunto inutili attività burocratiche che con la nostra professione non hanno niente a che fare. Su questo, però, non si vede mai una convincente e generalizzata ribellione…), ma almeno tra noi una cosa ce la dobbiamo dire: non si può insegnare, non ce la si fa, se non si è sorretti anche da una motivazione ideale, che tenga insieme la voglia di trasmettere cultura, il senso di responsabilità per l’importanza del nostro lavoro e quell’affetto costruttivo senza il quale i nostri studenti – specie gli adolescenti – diventano per noi soltanto delle presenze francamente insopportabili, perché i giovanissimi sono davvero insopportabili se non sono visti nell’ottica di ciò che tentano di diventare, spesso a loro insaputa (in questo senso, ho l’impressione che l’accusa agli altri di essere dei “missionari” serva anche non di rado – e contrario – a giustificare ogni mancanza di motivazione, passione e talento per questo lavoro…).
A mio avviso non si può insegnare, fatta salva la lotta per i nostri sacrosanti diritti e una rabbia più che motivata, se abbiamo verso il nostro lavoro un atteggiamento solo rancoroso, che ci toglie la fiducia anche nel poco che possiamo comunque fare e ci fa dimenticare delle persone fragili che abbiamo di fronte e che hanno un immenso bisogno di noi. Gli studenti sono le vittime, insieme a noi, di una società che se ne frega del futuro e dell’educazione e che noi possiamo e dobbiamo rovesciare dall’interno. Ne avremmo la forza, ci mancano consapevolezza, coesione, convinzione e coraggio.

[P.s. Nel termine “missionario” e nell’uso che se ne fa c’è un’ambiguità che va chiarita, altrimenti c’è il rischio di includere nella definizione evidentemente dispregiativa anche il senso del nostro lavoro, le motivazioni e le finalità profonde che esso dovrebbe possedere (e non sono pochi quelli che vorrebbero impoverire questo lavoro e ridurlo ad una ‘pratica’ burocratica senz’anima e senza senso). Per una volta l’inglese ci aiuterebbe: il termine ‘mission’ è molto più chiaro dell’equivalente italiano].

27/1/2018

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