
I ragazzi non conoscono le parole. Sia chiaro, non penso a “ermeneutica” o a “tetragono” ma – per fare qualche esempio del tutto a caso tra gli innumerevoli possibili – a “volgere”, “desolazione”, “allibito”, “subdolo”, “tirannia”, “argomentare”, “egemonia”, “reperire”, “seduzione”, “concorrere a”, “paradosso”, “promontorio”, “equità”, “ironia”, “poema”, “romanzo”, “cronico”, “sorte”, “macchia mediterranea”, “ansimare”, “credibilità”,”equivocare”, “sussulto”; per non parlare dei modi di dire e delle espressioni metaforiche: “Non si vede a un palmo dal naso” può diventare, in alcuni casi, una frase di difficilissima decifrazione.
Certo che i ragazzi non conoscono le parole; e perché mai dovrebbero conoscerle? Mica hanno la scienza infusa. Perché le sappiano bisogna che qualcuno gliele insegni, gliele mostri, cominci ad aprirle per loro. Poi scopri che ad alcuni studenti, in quindici anni di scuola, non è stato MAI fatto leggere UN libro…
Le parole vanno conquistate una per una, in classe prima ancora che da soli, faccia a faccia, parlandosi, guardandosi, spiegandosi, anche con il tono della voce, con il corpo stesso, con l’insegnante che mette l’indice sul libro e dice “vedi qui?”. E poi in autonomia, una volta che gli studenti siano stati opportunamente instradati, libri alla mano; perché non si insegna la ‘competenza’ della lettura senza leggere insieme e senza far leggere (questa verità lapalissiana, la cui enunciazione qualche decennio fa avrebbe provocato un imbarazzato sorriso dell’eventuale interlocutore per la sua assoluta ovvietà, oggi – in tempo di educazione alle “skills” e di abitudine a fumi in didattichese sotto i quali non c’è niente – sembra quasi rivoluzionaria); non si insegna e non si impara senza la meraviglia per la ricchezza dei racconti, della lingua e delle immagini, quella che gli studenti provano – che so – davanti a un “I’son Beatrice che ti faccio andare”, “L’amico mio e non de la ventura”, “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, “Non ragioniam di lor ma guarda e passa”, una volta che si sia letto e compreso insieme, si sia contestualizzato in una storia, si sia spiegata l’intensità semantica di certe espressioni…
Meno i genitori fanno questo, più deve farlo la scuola. Ed è chiaro che poi, – in una condizione di privazione che ha molti motivi, non ultimi l’abuso dei mezzi tecnologici, l’iperconnessione, l’orizzontalità dei social e la scarsa presenza di adulti che abbiano il coraggio di proporre altro, di accendere curiosità e di esserci davvero, – nel momento dell’emergenza, confrontarsi “a distanza” con studenti che non hanno le parole è ancora più difficile, starei per dire impossibile.
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Prevedo l’obiezione: “I ragazzini non usano le tue, di parole, ma hanno le loro”. Non è proprio così. L’impoverimento linguistico può essere riscontrato in modo abbastanza oggettivo qualora si verifichi, come oggi, una riduzione del numero delle parole utilizzate e soprattutto la perdita della capacità da parte del linguaggio di cogliere le sfumature della realtà e, in un certo senso, di crearle. Non parliamo poi della possibilità di esprimere sentimenti, stati d’animo, dolori: in molti casi non saper dire quello che si ha dentro significa rimanere estranei anche a se stessi, imprigionati in un’afasia senza spiragli e in luoghi comuni lessicali da cui la propria individualità non può emergere in nessun modo.
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“Cos’è in realtà un libro se non la narrazione di un’esperienza? Non solo noi leggendo i libri abbiamo la possibilità di leggere le nostre esperienze, ma facciamo attraverso il libro esperienza delle esperienze che vi sono raccontate. Intendo tutti i libri, anche i manuali, i trattati, i cataloghi. In questo senso Wittgenstein ricordava giustamente che i confini del mio linguaggio determinano i confini del mio mondo. Il che significa che tanto più si arricchisce il mio linguaggio, tanto più aumenta la mia possibilità di fare esperienza del mondo” (Massimo Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Milano, Feltrinelli, 2018, p.39).
“I meccanismi della comunicazione non sono entità neutre rispetto al loro oggetto, vale a dire rispetto ai fatti, alle informazioni, alle conoscenze, insomma, complessivamente, rispetto a ciò che siamo soliti chiamare realtà. La comunicazione non è semplicemente uno strumento per rappresentare oggetti da essa separati o in essa contenuti; essa invece condiziona costitutivamente la struttura stessa dei fatti e delle conoscenze” (Gianrico Carofiglio, L’arte del dubbio, Palermo, Sellerio, 2007, p.14).
