
di Marco Cerase
Daniele Novara, eminente pedagogista italiano, parla della cosiddetta “lezione frontale” come il “dramma” della scuola italiana. Bianchi, con altri termini, fa affermazioni simili e con loro tutti i corifei della cosiddetta “didattica per competenze”, magnifica, progressiva, innovativa.
L’altro giorno ero impegnato con gli esami di terza media, nella loro nuova (e per me incomprensibile) formula. Ad ogni alunno che si succedeva, puntualmente uno o più colleghi sollecitavano “con questo sbrighiamoci” “non facciamolo parlare troppo” “sempre la stessa pappardella” “non ce la faccio più”, “facciamolo uscire presto”. A un certo punto si è presentato l’alunno con seri problemi psicologici “a questo non dobbiamo fare domande, è troppo fragile. Restiamo in silenzio”.
Che cos’hanno in comune la campagna contro la lezione frontale e il racconto dello svolgimento di una sessione di esami di terza media? Apparentemente niente, ma a me hanno dato lo spunto per una riflessione.
Forse con “lezione frontale” non indichiamo semplicemente quella forma di lezione in cui il docente si siede alla cattedra e inizia a spiegare. Forse con “lezione frontale” parliamo invece di un docente stanco, probabilmente in burn-out, che non ha energie per qualcosa che si può benissimo fare dalla cattedra, ma che vada oltre la semplice ripetizione di un testo, una volta da parte del docente, una volta da parte dell’alunno. Un docente bruciato, sfiduciato, che non vede l’ora di finire l’ora, che agogna la pensione. Un docente al quale hanno tolto stimoli, libertà didattica, protagonismo. Che è stato soffocato da un mare di scartoffie, di cui non riesce a capire l’utilità. Che si sente un mero esecutore che deve adeguarsi ai voleri del dirigente e di organi collegiali sempre più svuotati, che ne ripetono le volontà. Un docente che, come nell’invito rivolto agli esami, si autocensura e si condanna a “rimanere in silenzio”.
Il problema vero dunque non è la lezione frontale, una tecnica come tante, ormai sempre più contaminata nella comune pratica didattica. Il problema è il silenzio degli insegnanti. Nei forum, nelle chat, nei gruppi, nei tavoli di lavoro percepisco un’enorme frustrazione, tristezza, rassegnazione. Percepisco la fatica di compilare scartoffie prive di senso come il RAV, la valutazione delle competenze, il giudizio compilato automaticamente dal registro elettronico, i “consigli orientativi”; la frustrazione di partecipare a collegi docenti diventati approvifici, dove al massimo si può fare la ola alzando la mano con la stragrande minoranza, o fare i “contrastivi” semplicemente tenendo giù la mano o, addirittura, prendendo la parola; i consigli di classe dove già è tutto deciso. Percepisco il rancore per anni di campagne condotte contro la categoria, dai mitici due mesi di vacanze al giornale letto in classe o alla educatrice del nido (privato) che alza le mani usata come pretesto per attaccare la categoria nel suo complesso. La rabbia per aver tolto ai docenti la gran parte del protagonismo nella didattica, nella sperimentazione, nella valutazione.
Più si attribuisce importanza a singoli aspetti della didattica come le competenze, le metodologie didattiche, gli strumenti informatici, le corrette procedure, gli adempimenti burocratici, il rischio di eventuali azioni legali, più si toglie importanza al docente e alla sua relazione con la classe; più si soffoca l’insegnante con una serie di adempimenti burocratici, più si fa in modo da devastarne la motivazione e più incerti, frammentari e diseguali saranno gli apprendimenti dei ragazzi.
Negli incontri che abbiamo tenuto all’interno del nostro gruppo è emersa ripetutamente la necessità di trovare una linea di dialogo con i genitori. Una “categoria” che non è certo monolitica e in cui esiste ancora una parte, forse minoritaria ma non per questo trascurabile, che ancora crede nella scuola e nell’importanza degli apprendimenti per il futuro dei loro figli: i genitori non sono tutti bulli che confermano il vecchio adagio del frutto che non cade lontano dall’albero. Ecco io penso che sia il momento di rappresentare loro il disagio della categoria e il fatto che forse non siamo così distanti, che abbiamo un interesse comune: il bene dei loro figli. Far comprendere che non è il RAV scintillante, infarcito di progettini pseudo-innovativi a far la differenza, né le attività complementari o la dotazione tecnologica della scuola. Ma che la differenza la fanno le persone, gli insegnanti, le relazioni che riescono a intessere con gli alunni. Se gli insegnanti venissero sgravati dalla burocrazia inutile e dal terrore di essere sanzionati forse avrebbero più energie da dedicare alle classi, ai ragazzi, più coraggio per esprimersi dentro e fuori le classi. Tutto il contrario della retorica in voga del professore fannullone, per citare il libro di Saudino e Foa, dei tre mesi di vacanze, del docente inadeguato. Il ministero ormai da anni propone la soluzione del falso problema della lezione frontale, che nasconde la vera fatica dell’insegnamento burocratizzato, attraverso rimedi che acuirebbero ulteriormente il male: un maggior controllo degli insegnanti, un ulteriore incremento della burocrazia e degli adempimenti, la standardizzazione dell’insegnamento, una formazione obbligatoria e continua, specie sul versante pedagogico (perché ormai si è dichiarata guerra alle discipline). È il caso dell’assurda proposta di un corso obbligatorio di 25 ore sul sostegno, che oltre a rappresentare una gravissima violazione contrattuale, di fatto diminuirebbe, anziché aumentare, le ore e le risorse dedicate agli alunni che ne avrebbero bisogno, con la scusa che “tanto c’è l’insegnante disciplinare formato sul sostegno, che può dedicarsi efficacemente ai suoi 25/30 alunni, compresi quelli con bisogni educativi speciali o con 104”. È ora di tornare al dialogo per fermare questa deriva che colpisce docenti, studenti e famiglie.