Ideologia e mistificazioni

Quella del “neoliberismo” è un’etichetta generica, applicabile a troppe cose, specie a quelle che non ci piacciono? Se si legge il libro di Mauro Boarelli Contro l’ideologia del merito (Bari-Roma, Laterza, 2019), il quadro si fa molto più preciso e circostanziato: Boarelli infatti ricostruisce – dal punto di vista dello storico – l’affermazione, nel corso dei decenni, dell’ideologia liberista, a partire dall’uso strumentale del concetto di ‘merito’, e analizza le strategie che essa utilizza per spazzare via ogni dimensione pubblica, comunitaria e non economicistica dell’esistenza, anche e soprattutto sul terreno cruciale dell’istruzione.

Riportiamo qui qualche brano particolarmente significativo che riguarda l’ambito delle politiche scolastiche e le mistificazioni concettuali e linguistiche che servono a giustificare quelle “riforme” dell’istruzione pubblica che negli ultimi venticinque anni hanno investito il nostro Paese. Attenzione, però: il libro di Boarelli, ricchissimo di informazioni, di riferimenti e di indicazioni bibliografiche, merita di essere letto per intero, anche per il quadro di sconcertante coerenza che riesce a delineare.

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“Per chiudere il cerchio, l’Unione Europea ha elaborato nel 2016 un quadro di riferimento per la ‘competenza imprenditoriale’. In questo documento la smania di classificazione risulta esasperata: non solo vengono definite le aree tematiche, le competenze specifiche e i livelli di abilità corrispondenti a ciascuna di esse, ma vengono anche identificati 442 risultati di apprendimento.

[…] Nel 2018 l’Italia ha varato un ‘Sillabo’ sull’educazione all’imprenditorialità rivolto alle scuole superiori, la cui finalità è di attivare percorsi didattici orientati all’acquisizione di una ‘forma mentis imprenditoriale’, con l’obiettivo di ‘sviluppare negli studenti attitudini, conoscenze, abilità e competenze, utili non solo per un loro eventuale impegno in ambito imprenditoriale, ma in ogni contesto lavorativo e in ogni esperienza cittadinanza attiva‘.

Il documento indica le attività da svolgere con gli studenti. La lettura è faticosa ma istruttiva. Vale la pena riportare qualche esempio: Silent Coaching, per stimolare percorsi di autoconsapevolezza; Swot Analysis, per valutare la fattibilità dell’idea imprenditoriale; Innovation & Creativity Camp o Startup Bootcamps, per coinvolgere gli studenti in sfide creative; Hackathon e incontri tra alunni e stakeholders (anche attraverso forme di matchmaking), per individuare nuovi modelli di impresa; simulazione di progetti di impresa; design sistemico e strumenti per l’indagine contestuale (stakeholders map, rilievo olistico); costruzione degli archetipi degli stakeholders; brainstorming guidati da project managers, per selezionare le idee da sviluppare; simulazione di selezione del personale, anche in collaborazione con agenzie di lavoro locale; redazione di un business plan; esercizi di accelerazione, Business Model Canvas, product marketing fit e modelli metrici; simulazione di campagne di crowdfunding; esercizi di digital marketing.

Sarebbe sin troppo facile ironizzare su questa deriva linguistica, su questa abbuffata anglofila, su questa adorazione acritica di un linguaggio aziendale e tecnocratico, oppure sull’idea che insegnanti e dirigenti scolastici organizzino simulazioni di business plan e si dedichino con i propri allievi alla costruzione degli archetipi degli stakeholders. Ma l’involontario effetto comico non deve nascondere il fatto che il documento pretende di trasformare la scuola pubblica in una scuola di formazione aziendale. Chi l’ha stabilito? È possibile che decisioni di tale portata vengano assunte per via amministrativa, e che una circolare ministeriale prenda il posto della decisione politica e del dibattito pubblico che dovrebbe accompagnarla?” (pp.22-23).

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“Questa visione dell’educazione attiva è in profondo contrasto con quella praticata attraverso le competenze. L’educazione attiva, per essere veramente tale, deve porsi l’obiettivo di fornire ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per incidere sulla realtà, per modificarla attraverso una comprensione individuale e un’azione comune. L’approccio per ‘competenze’, al contrario, si basa su una adesione alla realtà esistente come se questa possedesse una realtà propria (il reale non è razionale, sosteneva Dewey). Non si propone di sottoporla a una lettura critica, tanto meno di cambiarla. Il suo scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per adattarvisi. La sua azione è modellata sugli individui singoli, privi di legami sociali, che devono essere dotati di propri ‘portafogli’ di competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare da un loro uso accorto sul ‘mercato’. In questo modo le finalità individuali e sociali vengono separate, viene ricostituita un’opposizione artificiale tra dimensione personale e dimensione comunitaria.

Non stupisce che questa visione pretenda di fare tabula rasa di una ricca tradizione pedagogica costruita intorno al nesso tra individuo e società, tra educazione e democrazia. Stupisce, semmai, che un nuovo filone pedagogico si presti a legittimare questa mutazione. Nella costruzione delle competenze, i pedagogisti arrivano a giochi già fatti. Il loro ruolo prevalente è diventato quello di fornire – a posteriori – un quadro teorico di riferimento a un concetto che nasce, come abbiamo visto, su un terreno diverso rispetto a quello educativo.

Per renderlo credibile, si cerca di costruire intorno ad esso una genealogia, alla ricerca di radici antiche e padri nobili, senza preoccuparsi troppo dell’eterogeneità delle correnti di pensiero chiamate in causa. Lo scopo è piuttosto quello di fornire una narrazione che ‘concili l’inconciliabile’, di legittimare il fatto che l’orientamento delle politiche educative sia spostato dal complesso delle dinamiche sociali a una loro declinazione specifica ed esclusiva: l’economia e l’impresa” (p.25)

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“Il discorso sulle competenze si sviluppa intorno a quattro elementi principali. Il primo è la retorica della complessità: per fare fronte ad essa ciascun individuo deve imparare a risolvere problemi (problem solving) in situazioni specifiche, inedite, sempre mutevoli. Questa rappresentazione è, da un lato, irrealistica, perché la vita quotidiana è strutturata non solo sui continui e inarrestabili cambiamenti, ma anche sulla sedimentazione dell’esperienza. Dall’altro lato è parziale, poiché le situazioni che gli individui devono affrontare nel corso della vita non sono tutte della stessa natura: molte di esse non prevedono un approccio immediatamente risolutivo ma, al contrario, obbligano ‘a un tempo di esplorazione, di riflessione, di esitazione, così come a dei tentativi falliti’.

La seconda componente del discorso è la sua dimensione totalizzante. Le definizioni volutamente vaghe ed estremamente ampie adottate per descrivere il concetto comprendono potenzialmente ogni aspetto della vita umana. Ciascuna azione può diventare competenza e – di conseguenza – essere sottoposta a processi formali di apprendimento e misurazione.

[…] La generalizzazione, in sostanza, rende omogeneo ciò che invece dovrebbe essere differenziato. Inoltre, continua Goody [l’antropologo Jack Goody, lo stesso che scrive, citato da Boarelli, “Lo spirito umano è riducibile a una somma di competenze cognitive, affettive, psicomotorie? […] Gli esseri umani sono reali se organici, se formano una totalità organica, una totalità le cui parti si tengono insieme. Aggregare parti separate non vuol dire formare una totalità. […] Non si crea intelligenza sommando competenze. Sommando competenze, nel migliore dei casi non si crea nulla, nel peggiore si fabbricano dei folli“], nessuna competenza può esistere al di fuori di un contesto specifico. Come si può sostenere – ad esempio – che la flessibilità rappresenti sempre e comunque una facoltà positiva di cui ciascuno deve essere provvisto per far fronte ai problemi posti dalla complessità senza considerare il valore dei suoi opposti? La costanza, la perseveranza, la capacità di non arrendersi non sono forse competenze altrettanto importanti e necessarie nella vita pubblica?” (pp.26).

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“Il ‘capitale umano’, le ‘competenze’ e la valutazione standardizzata sono parti di uno stesso sistema concettuale che ingloba la vita sociale nella sfera produttiva. Ciascuna di esse, come abbiamo visto, svolge un ruolo specifico. Per funzionare, hanno bisogno di strumenti operativi. Hanno bisogno di un linguaggio, di un apparato burocratico e di tecnici specializzati” (p.61).

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“Sono gli strumenti di valutazione a creare la ‘realtà’. I processi di quantificazione danno un nome, una forma, un significato a ciò che viene messo sotto osservazione, la statistica seleziona gli elementi da valutare mentre rimuove quelli che non sono omogenei ai criteri di analisi adottati. Sono le agenzie di valutazione, ad esempio, a determinare quali siano i parametri di qualità del sistema di istruzione e ad elaborarli utilizzando strumenti statistici modellati allo scopo.
Non c’è nulla di neutrale, quindi, nel ‘linguaggio neutrale della scienza’: la pretesa di neutralità è funzionale alla rimozione della politica dallo spazio pubblico. Solo lo spazio depoliticizzato è completamente trasparente, ci ricorda Han. Uno spazio privo di conflitti, uniforme, burocratizzato.

[…] La ‘trasparenza’ si fonda sull’idea di eliminare l’arbitrarietà degli interventi individuali. Di fronte alla constatazione che tale eliminazione è impossibile, l’idea non perde la propria legittimazione sociale, come sarebbe logico. Al contrario, ne esce rafforzata e produce un numero ancora maggiore di regole, mentre anche coloro che criticano l’inefficienza delle procedure sono spinti a combatterla secondo lo stesso schema, cioè invocando più regole e più ‘trasparenza’. Il prodotto di questa spirale è ‘l’età della burocratizzazione totale’.


La burocrazia, infatti, […] è anche e soprattutto un sistema articolato e pervasivo, onnipresente e perciò a volte invisibile, in grado di modellare le relazioni sociali.
Associare la burocrazia a processi legati all’ideologia neoliberista può sembrare una contraddizione, perché questa rivendica una deregolamentazione sempre più ampia in tutti i settori. Tuttavia si tratta di un’autorappresentazione ben distante dalla realtà. Burocrazia e mercato non sono affatto antitetici: la prima è perfettamente funzionale al secondo.

[…] Nel campo della valutazione e del controllo, l’estensione del potere burocratico assume due forme distinte e complementari: quella della creazione di nuove strutture (le agenzie di valutazione) dotate di un proprio apparato, di regole proprie e di un potere prescrittivo sempre più ampio, e quella dell’incremento esponenziale delle procedure burocratiche cui vengono costrette le strutture pubbliche, che vengono in tal modo distolte dalla loro funzione primaria” (pp.67-69).

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“Ecco, quindi, un altro esempio di falsificazione del linguaggio, di cui troviamo un’applicazione nel concetto di ‘autonomia scolastica’ introdotto nell’ordinamento giuridico italiano nel 1997: in realtà gli istituti scolastici non gestiscono in autonomia quasi nulla, però sono incoraggiati a competere sul ‘mercato’ […].

I controlli e gli apparati burocratici costruiti intorno alle nuove organizzazioni ‘autonome’ costituiscono, in realtà, nuove forme di centralizzazione.

La burocrazia è la prima e unica istituzione sociale che tratta i mezzi come se fossero completamente separati dalle cose che realizzano. Alla separazione corrisponde anche un’inversione: i mezzi diventano fini, le procedure amministrative esauriscono in se stesse il proprio scopo. Le procedure di valutazione sono più rilevanti rispetto ai processi educativi e lavorativi.

Per questo motivo non è importante il fatto che i professionisti che le gestiscono non abbiano alcuna competenza specifica nel settore di applicazione. La loro preoccupazione sarà non tanto quella di penetrare nel lavoro soggetto a controllo, di conoscerlo nella sua dimensione più profonda, quanto – piuttosto – di lasciare tracce della loro prestazione sul lavoro” (pp.69-70).

6 pensieri riguardo “Ideologia e mistificazioni

  1. la burocrazia serve,ma non può sostituirsi al dialogo democratico,x cui ogni essere umano non deve essere trattato come oggetto,ma come soggetto con diritti acquisiti e doveri,che si rifanno alla ns. Costituzione.

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  2. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una ipertrofica crescita della burocrazia nella scuola e in ogni parte della nostra vita, affiancata dalla pervasiva “digitalizzazione”. Come docenti lavoriamo meno, lavoriamo meglio? No, lavoriamo il doppio di prima e peggio. Soprattutto non lavoriamo per i ragazzi, ma per la struttura, che ha assunto dimensioni elefantiache, in una dimensione sempre più ossessiva di pratiche, documenti e procedure fini a se stesse. Come giustamente è scritto nel libro, sono diventate il fine è non il mezzo.

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  3. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una ipertrofica crescita della burocrazia nella scuola e in ogni parte della nostra vita, affiancata dalla pervasiva “digitalizzazione”. Come docenti lavoriamo meno, lavoriamo meglio? No, lavoriamo il doppio di prima e peggio. Soprattutto non lavoriamo per i ragazzi, ma per la struttura, che ha assunto dimensioni elefantiache, in una dimensione sempre più ossessiva di pratiche, documenti e procedure fini a se stesse. Come giustamente è scritto nel libro, sono diventate il fine è non il mezzo.

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