Le “competenze non cognitive”. Un punto di vista psicoanalitico

È in corso di pubblicazione, sulla rivista “Le Nuove Frontiere della Scuola” (numero 58, “La fragilità”), un articolo sulle competenze non cognitive scritto a quattro mani da uno psicoanalista, Alessandro Zammarelli*, e da un insegnante, Luca Malgioglio. Ne riportiamo qui un breve passaggio, che mostra anche dal punto di vista dello specialista l’intima contraddittorietà della definizione “competenze non cognitive” e la confusione concettuale che essa introduce nel dibattito pubblico.

***

[Questa è] la definizione che l’onorevole Maurizio Lupi, presidente dell’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, ha dato delle “competenze non cognitive”, nel discorso in cui motiva la proposta della loro adozione nell’ambito della legislazione scolastica del nostro Paese: 

“Con character skills, soft skills o non cognitive skills si intendono tutti quei modi di definire un apprendimento in ambito scolastico e lavorativo che non sia limitato solo al coinvolge le capacità cognitive (ricordare, parlare, comprendere, stabilire nessi, dedurre, valutare) ma che implichi anche lo sviluppo di tutte quelle predisposizioni della personalità (l’apertura mentale, la capacità di collaborare, la sicurezza personale, la capacità di prendere iniziative, di pensare per problemi, la capacità di auto-regolarsi, l’affidabilità, l’adattabilità, ecc.) che sono sempre più rilevanti nella società moderna”.


Quando si parla di “adattabilità” e “affidabilità” sembra davvero che ci si muova al confine tra il terreno della crescita e della formazione della persona e quello dell’azienda e della produttività lavorativa; e quando Lupi parla delle competenze del “pensare per problemi” o del “prendere iniziative”, ci si può legittimamente chiedere su quale base si possano risolvere problemi o prendere iniziative se non si ha la conoscenza – cognitiva, immaginiamo – di tali problemi e del contenuto di tali iniziative. Un’operatività non sostanziata da processi di pensiero, insomma, sembra una contraddizione in termini, a meno che non si esca dall’ambito dell’educazione e non si entri in quello dell’addestramento; ma questo passaggio, come è ovvio, non riguarda e non può riguardare la scuola.


Forse, quando parla di “competenze non cognitive”, qualcuno intende fare riferimento, oltre a quelle operative, anche alle dimensioni affettive, relazionali ed etiche dell’essere umano. Ma – tenendo conto delle riflessioni svolte nella prima parte del presente articolo – pensiamo davvero che sia possibile separare tali dimensioni da quella cognitiva? Come si proponeva sopra, il termine “competenza” potrebbe essere utilizzato per sintetizzare tutta una serie di processi cognitivi, di processi di pensiero, in cui intervengono sistemi complessi dell’essere umano come la memoria, le emozioni e la storia personale. Per fare un esempio attinto dalla pratica psicoanalitica, affermare che una persona ha una buona capacità di capire, pensare ed elaborare le proprie emozioni, equivale a dire che questi ha una certa competenza nel leggere e integrare i propri stati emotivi. Difficilmente si potrebbe dire la stessa cosa di una persona che non è in grado neanche di dare un nome alle proprie emozioni o addirittura di percepirle, di dire o pensare ciò che prova. Non si può avere una competenza sulle emozioni se prima non le si conosce, o se non si eliminano le barriere che non permettono questo processo di conoscenza. Come ci ha insegnato Bion (1970-1973), le emozioni esistono sempre, anche quando si manifestino soltanto tramite equivalenti fisiologici (elementi Beta), senza raggiungere una adeguata capacità di essere pensate e dichiarate; oppure possono essere presenti in seno a una funzione Alfa acquisita, matura, che ci permetta di pensarle, esprimerle ed elaborarle. 

Ecco, le “competenze non cognitive” producono in quest’ottica un grande paradosso.  Come posso pensare alle competenze senza pensare? Come posso sapere di essere competente se non so cosa ho appreso, come posso sentirmi competente senza aver attraversato tutta quella serie di processi cognitivi che hanno fatto della mia esperienza reale, integrata con le emozioni, un’esperienza di crescita, di apprendimento e di relazione? Questi processi interni si proiettano poi in attività esterne, che richiedono regole e strumenti pratici; i processi cognitivi e di apprendimento possano concretizzarsi in quelle che, solo in futuro, si chiameranno competenze; ed è solo a questo punto che il sistema pedagogico interviene come facilitatore dell’integrazione e dell’applicazione pratica di tutti questi sistemi interni.


*Alessandro Zammarelli è Psicologo ad indirizzo Clinico, Psicoterapeuta e Psicoanalista, specializzato in Psicoterapia Individuale e in lettura Psicodinamica dei Gruppi. È Socio e Psicoanalista della Sipre (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione) e membro del consiglio di Centro della Sipre di Roma. È fondatore insieme al Professor Luca Malgioglio e ad altri insegnanti del movimento La nostra scuola ed è membro del consiglio direttivo dell’associazione La nostra scuola – Agorà 33. Ha lavorato a lungo presso gli sportelli di ascolto psicologici nella scuola.

Una opinione su "Le “competenze non cognitive”. Un punto di vista psicoanalitico"

  1. Scritto molto significativo.
    Sulle cosiddette competenze non cognitive, a non pensar male si radica la loro condizione di possibilità nell’estrema aridità oggi imperante nella scuola (dovuta alla pervasiva oggettività); ecco che la parte emotiva va riscoperta. Solo che farlo senza contenuti è essa stessa una risposta altrettanto oggettivata, che cura la malattia con lo stesso virus che l’ha generata.
    A pensar male, invece, viene in mente il cane di Pavlov. In fondo l’azione senza pensiero è la più immediata (e dunque la più pronta, efficiente e soprattutto prevedibile). Evitare l’orpello del pensiero, per chi comanda, significa meno intralci, più linearità e perciò meno perdite di tempo. Vuoi mai che uno alzi la mano per contestare in un Collegio docenti col rischio che poi altri lo seguano, svelando l’incapacità di giustificare sotto il profilo umano certe scelte fondate sull’ideologia della dirigenza (il fantomatico staff)? E quanto più produttivo è il criceto che lavora in fabbrica, una volta che si è separato chi esegue da chi comanda?
    Se la prima ipotesi si annulla da sé, non resta che la seconda.

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