Il sergente di ferro e l’omino di burro

Qualcuno vuole far credere che sul futuro della scuola si confrontino soltanto due posizioni.

La prima sarebbe quella del sergente di ferro: «Zitto e studia, se non sei preparato ti boccio. Senza i sacrifici non si ottiene niente; e se non capisci lo stesso vuol dire che la scuola non è fatta per te».

La seconda quella dell’omino di burro: «Siccome ti voglio tanto bene, evito di farti stancare troppo e di proporti attività troppo impegnative. Se una cosa è difficile, evito di insegnartela e anche di dirti che non la sai. Dopo tutto, la vita è bella così com’è».

In realtà in questa biforcazione, proposta e riproposta da reazionari dichiarati come da certo furbo para-progressismo sempre contiguo al potere politico e funzionale allo smantellamento dell’istruzione pubblica, manca proprio una cosa: la scuola. Quella che accompagna, che sta vicino, che chiede degli sforzi motivati, che fa conoscere progressivamente agli studenti una realtà che va molto oltre la loro esperienza quotidiana. Quella per cui se una cosa è difficile non la evito, magari in nome di una presunta “personalizzazione degli apprendimenti” che lascia gli studenti esattamente dove sono, ma faccio in modo di insegnartela: non me la cavo trasformando l’istruzione in “life skills”, “competenze non cognitive” o “orientamento”.

Il punto è che una scuola che insegna davvero, nei tempi e nei modi più adatti alle classi che si hanno di fronte e a una situazione educativa che è sempre unica, lascia poco spazio per i giri di soldi in finta “formazione” e in “innovazione” tanto redditizia quanto astratta. La scuola che insegna davvero attraverso una relazione umana e il lavoro sulle conoscenze è un costo e chi ci guadagna, in fin dei conti? Solo gli studenti e il futuro. Sembra che oggi questo non basti.

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