Sul corsivo

di Silvia Contangelo

Leggo con interesse un bell’articolo di Marco Belpoliti, apparso sul quotidiano “La Repubblica” il 10 febbraio 2024. Parla di un argomento singolare, decisamente minore, che stavolta trova spazio su un grande quotidiano nazionale, portando all’attenzione qualcosa che interessa gli addetti ai lavori e le famiglie con bambini e ragazzi in età scolare: il corsivo.

Un aspetto della pratica scolastica che può essere passato inosservato ai più, come l’abbandono della scrittura in corsivo,  spinge a una riflessione più generale sul mancato sviluppo delle abilità manuali nei più piccoli e Belpoliti cita personaggi della cultura che attribuiscono alla scrittura in corsivo lo sviluppo armonico di attività manuali e intellettuali, anche senza scomodare le neuroscienze, che già da un po’ hanno evidenziato come il movimento della mano esercitato dall’apprendimento della scrittura in corsivo crei un’importante connessione visivo motoria che attiva zone della corteccia cerebrale  preposte allo sviluppo del linguaggio, all’orientamento spaziale, alla capacità di calcolo e all’implementazione della memoria. Non manca il consueto cenno, quando si discute dell’argomento, alle scuole dove vivono i capoccioni della Silicon Valley, che mica danno il tablet in mano ai propri figli! Eh no! I rampolli dei capiscioni che dominano l’universo digitale da oltre oceano, stanno lì con l’umile matita tra le mani e, nelle scuole rigorosamente steineriane in cui sono iscritti, non vedono l’ombra di una tastiera!

Insomma, indietro tutta. E noi italici che da almeno un quindicennio facciamo di tutto per eradicare dalle scuole la malapianta del corsivo, più robusta del previsto, e mettiamo in mano ai lattanti cellulari e tablet insieme al biberon, che “…tieni a mamma, così sì che diventi intelligente!” e oltre a tacitare il perfido infante mentre facciamo la spesa, ci sentiamo così moderni? Noi insegnanti che abbiamo inneggiato ai finnici scolari, modello di quel riuscito connubio tra fancazzismo e genialità realizzato a base di ore smozzicate, gioco all’aperto a 5 gradi sotto zero e videoscrittura e seguiamo corsi di 40 ore per imparare a usare programmi che farebbero ridere un quattrenne? Ci ritroviamo con le pive nel sacco, presi a sberle da una controtendenza che ci trova impreparati rispetto a tutto quello che abbiamo studiato e ci è stato ripetuto come un mantra fino a ieri.

L’articolo di Belpoliti, insomma, va ad aggiungersi a tutte quelle riflessioni che finalmente stanno ripensando all’importanza dell’apprendimento del corsivo. Fa uscire il dibattito dalle aule scolastiche e lo porta all’attenzione dell’opinione pubblica.

Bene.

Ma…si fa presto a dire “corsivo”.

Mentre infuriava la polemica e si esaltava la scrittura digitale, il tempo è inesorabilmente passato. Nell’accapigliarsi pedagogico e didattico furibondo degli ultimi dieci/quindici anni, non ci si è forse accorti che qualcosa è accaduto. Qualcosa di serio e non facilmente rimediabile: si è persa per strada la metodologia. È  andata via, evaporata insieme alle care colleghe che ci hanno lasciato alle prese con lim e schermi interattivi e oggi ci inviano le foto con i nipotini sotto l’albero o i saluti dal Marocco o dalle Canarie con i mariti in cappellino e marsupio, mentre finalmente riescono a godersi, con gli spiccetti della liquidazione, quei viaggetti fuori stagione che i ritmi scolastici hanno impedito per circa un quarantennio e di scuola non vogliono sentir parlare neanche per sbaglio! Quei deliziosi personaggi in prendisole sono depositari, ormai inservibili, dei segreti del corsivo. Eh sì, il corsivo è come l’uncinetto, si può imparare da un libro, da un corso, da un video, ma si rimarrà a un livello basico. Si sbaglierà, si svilupperà una tecnica inadeguata e approssimativa, che non ci permetterà mai di eseguire la complessa architettura di una coperta per il corredo. Ma io, si dirà, ho la laurea in scienze della formazione primaria, il master in didattica dell’italiano e quello di secondo livello in rieducazione del gesto grafico! E che ci vuole a indottrinare questi seienni recalcitranti? Eh, invece qui casca l’asino. Anzi, più è stato lungo il percorso, meno si riuscirà ad ottenere dei risultati soddisfacenti.

Come è possibile? Intanto va detto che la didattica del corsivo ha la sua liturgia, che non è casuale e va rispettata in ogni passaggio. Certamente un tempo il rito nasceva alla vetusta scuola materna, dove gli infanti, ignari delle meraviglie dell’astronomia, della botanica o del coding, invece di essere investiti da una progettualità insensata e delirante, venivano messi seduti tranquilli nei banchetti e invitati a impugnare correttamente una matita,  a seguire delle linee pre-tracciate, a colorare entro i bordi un disegno, a punteggiare una sagoma, a ritagliare, infilare perline in un filo o chiodini su una tavoletta forata, manipolare pongo e plastilina e incollare figure.

Quindi sviluppavano quella motricità fine indispensabile per gli apprendimenti scolastici, cui si aggiungeva il lavoro di nonne e mamme, che permettevano che i piccoli trafficassero con farina e acqua intorno alla spianatoia, che si facevano aiutare a stendere strofinacci che andavano appesi “dritti dritti” con le mollette al filo, che davano in mano un ago (aiuto!) a nanerottoli alti meno di un metro, millantando semi cecità e chiedendo che quel filo dispettoso venisse infilato nell’apposita cruna, per attaccare il bottone al grembiulino.

Ora le nonne sono impegnate con la nail art e le maestre della scuola dell’infanzia studiano piani per erigere serre nel giardino scolastico e per tutte queste attività di sviluppo della motricità fine, propedeutiche alla scrittura, non c’è certamente tempo.

Così i piccoli arrivano alla scuola primaria con la manualità di un bradipo e in fretta si cerca di recuperare quella scioltezza che dovrebbe avvicinare alla complessità del gesto grafico, richiesta per imparare il corsivo.

A questo punto entra in gioco la padronanza della didattica della scrittura di cui poche insegnanti ancora sono custodi.

Il lavoro è lunghissimo, sistematico e meticoloso. Ogni maestra sa che perderà quei due o tre chili tra settembre e dicembre della prima, che non starà mai seduta, che tornerà a casa con i piedi doloranti, perché è un addestramento da caserma. Si comincia dal tracciare forme sulla carta sempre più sinuose e tondeggianti, ripetendo il ritmo più e più volte. Il lavoro delle forme inizia sul quadretto grande, da un centimetro, per passare, dopo qualche tempo, al quadretto piccolo, dove i bambini devono abituarsi a “vedere” il piccolo quadretto da mezzo centimetro, che sarà la trama dove la matita andrà a tracciare le prime letterine, le “a” e le “o” che dovranno entrare precise precise in quel piccolo quadrettino insidioso, le cui linee sottilissime sfuggono alla vista.

Per far sì che i bambini capiscano ciò che ci si aspetta, il lavoro è rigorosamente individualizzato. I piccoli non sanno che il quaderno ha un inizio e non si può scrivere in mezzo, sulla quinta pagina a caso o sull’ultima, non sanno che ha un verso e non possiamo accorgerci alla fine della giornata che abbiamo svolto l’attività al contrario. Non sanno che si inizia un lavoro partendo da sinistra e procedendo verso destra, non sanno che cerchietti, triangolini, quadrettini o letterine devono seguire un andamento orizzontale e non fluttuare nella pagina a piacimento come onde imbizzarrite! Quindi la maestra, con la pazienza e la calma di gesti antichi e consolidati dal tempo, segna sui quaderni la complessa architettura di puntini a matita che guiderà ogni bambino nel lavoro. Scrivere le letterine alla lavagna e pensare che gli alunni possano ricopiare con precisione quanto vedono, è illusione pura.

Dove scrivere? Per far scrivere un piccolo bambino, ci vuole un piccolo quadernino! La moda dei quadernoni ha preso piede da decenni, ma avviare il lavoro su uno supporto di piccole dimensioni, facilita e rassicura.

Che strumento per scrivere? Pochi pensano all’importanza di uno strumento che faciliti il lavoro, che si possa impugnare agevolmente anche da parte di un bambino piccolo e che tracci linee scure ben visibili. Una matita sfaccettata nell’impugnatura che si lasci stringere senza sgusciare via e dal tratto morbido, 2 o anche 3B, renderà tutto più agevole.

Da qui in poi saranno mesi e mesi di puro, semplice, antico e vituperato “copiato”. Ebbene sì. La cruda verità è questa. Il corsivo si impara e si perfeziona esclusivamente copiando. Non proponendo sezioni di scrittura creativa, non incentivando i piccoli autori in erba ad esprimere tutto il loro fantasioso estro… ma copiando! Prima singole letterine, poi parole di due o tre sillabe, poi brevi frasi, infine interi brani dove siano ben presenti le difficili maiuscole. Copiando, pensate, i bambini perfezionano anche la lettura!

Quando, però, sembra che il lavoro sia impostato, i piccoli apprendisti amanuensi sono stati domati, imbrigliati e convinti che sì, le paginette di “ape” e “mamma” vanno terminate fino alla fine, proprio dove la maestra ha messo i puntini e nessuna invocazione servirà ad evitare l’implacabile esercizio e pare che tutto stia filando per il meglio, ecco che entrano in gioco le sirene medico-pedagogiche, che fischiano a tutto spiano alla vista della presentazione dei quattro caratteri contemporaneamente, magari dopo poche settimane di scuola. Sacrilegio! Legioni di logopedisti, neuropsicomotricisti, psicologi e simili schierati a coorte scatenano l’inferno e si avventano crudelmente contro le ignare maestre attempate, ree di proporre il corsivo in prima!

Cosa fate?? Il corsivo deve rimanere occultato, non si può diffondere così tra i piccoli scolaretti che si accostano appena alla conoscenza, forse in seconda, forse in terza, potranno aspirare a tracciare le prime vocali!

In quinta, chissà, qualcuno straordinariamente dotato potrà, con incredibile maestria, nemmeno dovesse estrarre Excalibur dalla roccia, riuscire a tracciare un “f” o addirittura una “g” maiuscola! E lì verrà portato in trionfo! Ma in prima non esiste, le scolaresche vanno rigorosamente tenute a bagnomaria scrivendo esclusivamente in stampato maiuscolo!

Le insegnanti più giovani, mai state in contatto con le maestre di lungo corso, non conoscono la tecnica per l’insegnamento del corsivo. Sanno solo, dogmaticamente, che non va assolutamente presentato in prima e che, anzi, la presentazione del carattere deve essere procrastinata il più possibile. Non sanno quale sia il supporto cartaceo più idoneo su cui far lavorare gli alunni, né quali siano gli strumenti necessari, non conoscono i tempi, né la gestione del lavoro nel corso delle sessioni dedicate all’attività.

Non si pensa che lavorando in modo così confuso la già poco fluida padronanza del gesto grafico che i bambini possiedono, non verrà mai migliorata dalla lunga applicazione nell’esercizio costante del corsivo e che l’imprinting promosso con l’insegnamento dello stampato, difficilmente verrà scardinato. Un insegnamento tardivo del carattere, non solo intralcia il resto del lavoro da svolgere (in seconda, in terza è l’ora di lavorare sulle difficoltà ortografiche, sulla grammatica, non certo di impegnare il tempo scuola con l’esercizio sul corsivo), ma non verrà mai accettato dai bambini come strumento primario dell’espressione del pensiero scritto. Quando il bambino scrive in stampato da anni, non coglie alcun vantaggio nella complessa e faticosa scrittura in corsivo e ne rifiuterà sempre l’uso, cercando di tornare al confortevole e familiare stampato appena possibile.

Quindi, tornare al corsivo come?

Mentre il nord Europa ha, sembrerebbe, terminato di cavalcare l’onda lunga della deriva tecno pedagogica e rimugina sul recupero degli apprendimenti frettolosamente buttati in soffitta, da noi è ancora pieno delirio fuffo-tecnologico, aggravato da tutte le risibili teorie sulla fantomatica inclusività della scrittura in stampato maiuscolo, senz’altro da preferire. Così, nella perniciosa e surreale ossessione inclusiva che permea la scuola italiana, si dimentica il diritto a proporre il percorso ad alunni perfettamente in grado di impegnarsi nella sfida dell’apprendimento del carattere corsivo e forse si dovrà assistere a probabili schiere di diciottenni che firmeranno in stampatello, per dirottare finalmente  i sedicenti esperti che oggi dominano la didattica della scuola primaria, verso l’apertura di chioschi su spiagge tropicali e correre ai ripari recuperando tecniche impolverate eppure sempre efficaci, prima che le ultime maestre custodi della competenza necessaria, vadano in pensione.

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