
Ci sono talmente tante cose di cui parlare con gli studenti, i primi giorni di scuola, che è difficile decidere da dove cominciare.
Che tristezza vedere invece la tendenza a trasformare questo tempo prezioso – in cui tutto inizia – in uno spazio vuoto da riempire subito e integralmente con attività e contenuti standardizzati (dilagano a tale proposito pubblicità di prodotti ad hoc basati sull’ “intelligenza artificiale”), che allontanano invece di avvicinare.
Al di là dell’ovvio mercato che c’è dietro, mi chiedo se sia un fenomeno prodotto dalla paura del contatto, da un certo conformismo a cui ci adeguiamo o dall’avere poco da dire e da insegnare.
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Alla terza settimana di scuola non ho ancora assegnato un solo voto, mi sono divertito a conoscere gli studenti arrivati un po’ spaesati dalle scuole medie, a insegnare loro le prime cose (quelle che hanno il sapore più fresco), a riflettere insieme a loro sulle conoscenze grammaticali, sul significato delle parole, sull’andamento e sul senso delle storie che leggiamo. Allo stesso modo, ho impostato il lavoro con le altre classi entrando senza troppa fretta negli argomenti e nei contenuti più importanti, che in quest’anno senza quarte e quinte hanno molto a che fare con il Medioevo.
Oggi, mentre scrivevo alcune indicazioni sugli elaborati dei nuovi studenti – quella che viene chiamata un po’ pomposamente “valutazione formativa, educativa” ecc – mi è venuto in mente cosa veramente non sopporto del tentativo di imporre, attraverso la retorica del “decenni di ricerca pedagogica ci dicono che…”, l’abolizione di tutti i voti in itinere: non è feticismo del voto, il mio, è il fastidio di fronte a chi vuole a tutti i costi inserirsi nel lavoro altrui con le proprie idee astratte e i propri schemi mentali molto lontani dalla realtà e dai bisogni scolastici, con la presunzione di sapere come si fa questo lavoro meglio di chi lo fa tutti i giorni.
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A partire da una frase del racconto di Murakami “Vedendo una ragazza perfetta al 100% in una bella mattina di aprile”
(“Avrei voluto parlarle, anche soltanto una mezz’oretta. […] spiegarle le complicate combinazioni del destino che avevano fatto sì che noi due passassimo uno accanto all’altra in una strada laterale di Harajuku in una bella mattina di aprile del 1981…”), nella prima liceo scienze applicate siamo entrati per un’ora in un dialogo serratissimo su una serie di questioni:
– quello che succede è dovuto al caso o c’è dietro qualche ragione profonda?
– due persone si incontrano e si innamorano per caso?
– [scambio con due ragazze che dicevano che tutto quello che accade è voluto dal destino] non sarà che noi, partendo dal presente, vediamo tutto il passato alla luce di quel presente, come qualcosa che doveva portarci per forza qui? In altre parole, non è che quello che accade ci sembra necessario – ci sembra che dovesse accadere per forza – perché lo vediamo diciamo così al contrario, dal presente a cui siamo arrivati?
– allora [lo ha suggerito uno studente] il passato non sarà sempre il frutto di un’interpretazione? I fatti rimangono gli stessi, ma il significato che diamo loro cambia a seconda di quello che viviamo oggi…
– questo non può essere detto in generale delle storie e del raccontare? Un racconto non è un modo di dare senso a una serie di eventi che potrebbero essere casuali e diventano invece necessari alla luce della loro conclusione? Quando sappiamo come il racconto va a finire, tutti i fatti accaduti fino a quel momento acquistano un senso (qualcuno dice che la vera lettura è la rilettura). [Secondo una studentessa] allora possiamo dire che raccontare le cose è dare loro senso, che i racconti danno senso anche alla vita…
– il concetto di sincronicità: quello che accade deriva dall’incontro tra ciò che la realtà ci mette davanti con quello che ci portiamo dentro. Vale tanto più per l’amore…
Questi sono solo cenni che non possono riprodurre la realtà viva del dialogo con gli studenti: non ci provo nemmeno. Dico solo che quando si parla di queste cose i quattordicenni tirano fuori un’intelligenza stupefacente.
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In un bellissimo incontro con gli insegnanti dell’Istituto “Di Vittorio-Lattanzio” di Roma, lo psicoanalista Alessandro Zammarelli ci ha parlato di Winnicot, dello “spazio potenziale” della relazione, della creatività che a scuola si esprime attraverso il lavoro comune sui contenuti culturali (eredità transizionale del gioco infantile), dove ognuno può esprimere la propria soggettività nell’incontro con la realtà e con l’altro.
Ci ha parlato anche dell’adolescenza e della necessità di osservare l’adolescente da lontano, trovando il giusto equilibrio tra il lasciar trasgredire, l’accettazione paziente della sfida (se non può sfidare l’adulto l’adolescente sfida se stesso e i propri limiti, mettendosi in pericolo), del bisogno di sperimentare e dell’incontenibile vitalità da una parte, e la necessità di intervenire quando i giovanissimi imboccano una strada rischiosa.
Mi chiedevo, tra le altre cose, come questa assunzione di responsabilità adulta, che non chiede agli adolescenti di essere responsabili al posto degli adulti, si concili con la posizione di chi, a fronte di occupazioni scolastiche magari discutibili, invoca punizioni esemplari, denunce, arresti…
Pensavo anche che la psicoanalisi, occupandosi degli esseri umani come sono nelle loro diverse fasi evolutive e non di come certi interessi economici vogliono che siano (consumatori, utenti, clienti, esecutori…), e puntando a una liberazione anziché a un asservimento, vale a contrastare tutta l’ideologia farlocca delle “skills”.
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Leggiamo in classe un raccontino giallo: mentre cammina in strada a Trieste il commissario Montalbano, che è lì per un convegno di polizia, viene urtato da un uomo che inciampa e gli si aggrappa per non cadere. Questi in realtà è un ladro, che finge l’incidente per derubare i passanti. Quando Montalbano non trova più il portafogli e si rende conto di ciò che è accaduto, comincia a cercare il borseggiatore tra la folla; lo vede in strada che compie la stessa operazione con qualcun altro ma a un certo punto lo perde di vista. Abbandonate le speranze di ritrovarlo, torna in albergo.
Dopo aver raccontato l’accaduto per telefono al suo collega di Trieste, Montalbano scende nella hall dell’albergo, e qui gli viene consegnato un pacchetto che qualcuno ha lasciato per lui: dentro ci sono i suoi documenti e il portafogli, soldi compresi.
Alla fine Montalbano va al convegno e tra i convenuti, in platea, riconosce il borseggiatore, che evidentemente finge di essere un poliziotto. Lo guarda meglio e lo riconosce: è un suo ex compagno di ginnasio, Totuccio, famoso per gli scherzi. Montalbano cerca di raggiungerlo ma quello sparisce di nuovo tra la folla, non prima di aver derubato anche il questore…
Fine della storiella.
Ho chiesto ai miei studenti di farne una sintesi a casa. Uno dei più bravi, D., ha scritto che il ladro, pentito, a un certo punto ha spiegato per lettera a Montalbano i motivi delle sue azioni criminose, dettate dal bisogno… Quando gli ho chiesto dove avesse preso questa parte completamente inventata della storia, i compagni hanno cominciato a ridere: diciamo che era chiaro a tutti da dove l’ “allucinazione” arrivasse.
Gli studenti troppo spesso, purtroppo, non si rendono conto di una cosa: che la loro intelligenza naturale vale molto di più della stupidità artificiale di sistemi che simulano il linguaggio umano su base probabilistica senza poterlo comprendere. Sono sicuro che la propaganda delle aziende Big Tech, che ci hanno investito centinaia di miliardi di dollari, farà di tutto perché continuino a non rendersene conto.
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No ai fantasmi persecutòri agitati ad arte…
Quella tra insegnanti e studenti non è una guerra.
Ed è piuttosto raro che gli insegnanti – nonostante la fatica e i loro inevitabili difetti umani – non trovino incredibilmente simpatici i bambini e gli adolescenti con i quali lavorano.
Salvo eccezioni, in media, l’affetto degli insegnanti per i giovanissimi è infinitamente superiore a quello riservato loro dal resto della società.
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Farebbe tenerezza – se non ci fossero di mezzo carriere accademiche e i ricchi piatti della “formazione” – vedere gente che non ha mai messo piede in una classe che ci spiega pomposamente la “pedagogia dell’errore”, come se si trattasse di una scoperta rivoluzionaria, come se gli insegnanti normalmente usassero l’errore per stigmatizzare e umiliare gli studenti, e non per indicare loro in quali direzioni occorre lavorare. Al centro di tutta questa “pedagogia dell’errore”, naturalmente, c’è la soluzione magica dell’abolizione dei voti.
Non sapendo bene di cosa parlano, i sedicenti esperti che credono di spiegare il proprio lavoro a chi lo fa non riescono a comprendere come sia una buona relazione educativa – e non qualche intervento tecnico di “pedagogia clinica” (sorvolo sulla comicità della locuzione, che scimmiotta quella ben più sensata di psicologia clinica) – a sdrammatizzare e a stemperare una presunta stigmatizzazione dell’errore.
Semmai bisognerebbe notare come a un approccio sereno all’errore contribuisca l’umanizzazione della figura dell’insegnante, non giudice implacabile ma adulto la cui cultura e autorevolezza non impedisce (anzi, prevede) sviste, distrazioni, errori di valutazione delle situazioni che andrebbero riconosciuti senza problemi di fronte alla classe.
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La lettura del primo canto dell’Inferno nelle classi terze ha sempre un effetto ipnotico, da tempo sospeso: sarà che nella sensazione dello smarrimento e del naufragio, nell’immagine della selva buia da cui è impossibile uscire e nel bisogno disperato di qualcuno che te ne tiri fuori dei sedicenni trovano spesso qualcosa di sé?
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Appunti per novembre: scrivere il verbale dell’ultimo consiglio di classe, compilare e far firmare i PDP, completare le programmazioni, compilare i PEI, compilare le tabelle di educazione civica, ricordarsi delle ore di orientamento, cercare gli attestati dei corsi sulla sicurezza, consigli di classe, glo, collegi docenti… E poi, cercare di contribuire in qualche modo a rintuzzare i sabotaggi e gli attacchi contro la scuola, che arrivano da tutte le parti.
E insegnare? E i sei pacchi di compiti da correggere, insieme a un numero imprecisato di elaborati ritirati per dargli almeno un’occhiata con calma? E il tempo per pensare a cosa è bene per ognuno degli ottanta studenti che ti sono affidati? (Per non parlare del tempo che occorre per leggere e studiare, in modo da entrare in classe con qualcosa di sensato da dire). E che si fa con gli studenti non madrelingua, che avrebbero bisogno (loro sì) di un insegnamento personalizzato? Intanto comprare qualche libro di esercizi L2, nell’attesa infinita della “carta del docente”…?
Insomma, sull’assalto alla scuola, siamo sempre qui (https://nostrascuola.blog/2021/12/28/la-scuola-minacciata/), con l’aggiunta di “intelligenza artificiale”, “orientamento”, 4+2, con la solita retorica di un’ “innovazione” commerciale priva di contenuti e il solito tentativo di imporre una “formazione” sul nulla.
