Orribili, i contenuti dei testi dei ‘trapper’ di cui si è tanto parlato in questo periodo; eppure, dopo averne ascoltati parecchi, io ci trovo non solo e non tanto l’esaltazione delle droghe, il compiacimento della volgarità, della misoginia, del cinismo, della violenza verbale; ci vedo, invece, la stessa disperazione e lo stesso senso di vuoto provati da molti bambini, adolescenti, giovanissimi. È questo il vero motivo – la possibilità di identificazione che offrono – che sta alla base del successo di persone che offrono prodotti estremamente poveri non solo dal punto di vista artistico ma anche dal punto di vista umano. Insomma, non si può non concordare con lo psicoanalista Massimo Recalcati, quando mette in guardia dai facili giudizi un mondo adulto che ha molte responsabilità e che rischia di non comprendere quello che sta avvenendo alle nuove generazioni, se si accontenta di trovare le cause del malessere dei propri figli, il capro espiatorio, in quello che è solo il sintomo di questioni ben più profonde, che riguardano proprio il ‘tradimento’ da parte degli adulti (“Noi adulti diamo testimonianza di quanto, per esempio, la lettura e la cultura, l’amore e la solidarietà, valgano più dell’accesso a un guadagno facile o dell’inganno del prossimo? Sappiamo dare testimonianza ai nostri figli che la Legge del mercato non è la sola Legge possibile per l’umano?”).
Vorrei fare qualche considerazione in proposito:
1) I ragazzini hanno un disperato bisogno di un ‘contenimento’ che li aiuti a trovare la loro strada; e il contenimento può arrivare dal mondo adulto attraverso l’affetto, la presenza, le regole, l’ascolto, la vicinanza, l’autorevolezza, la credibilità… Certo, ci sono persone che invece di curarsi diventano un modello per gli adolescenti facendo esattamente l’opposto: spingono ad ‘agiti’ che tagliano rabbiosamente via il pensiero ed escludono il riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni, degli affetti, dei sentimenti, della stessa rabbia; fanno da fattore scatenante e da legittimazione di una violenza veicolata da parole senza significato, usate come oggetti contundenti; insegnano la logica e la violenza del branco, rispetto al quale si pongono come idoli folli, in cambio di un po’ di ‘popolarità’ che dia un senso alla loro vita…
Ma, come si accennava prima, questa operazione può riuscire solo se si impianta in un preesistente deserto di affetti, di attenzione, di cultura, di cui gli ‘artisti’ di cui si parla sono soltanto il sintomo. Troppo facile vedere l’origine di ogni male in quelle che una volta si chiamavano ‘cattive compagnie’. Il grosso problema è invece che mancano all’appello, come al solito, gli adulti. Infatti…
2) Genitori indifferenti o rassegnati affidano sempre più precocemente i propri figli ai social, ritraendosi volentieri da ogni autentico rapporto con loro o accettando passivamente la perdita del contatto… Ma i social non sono benevole baby sitter cui delegare cura, socialità e rapporti umani, sono meccanismi seducenti e pericolosi, mossi da mani consapevoli e capaci di esercitare un’influenza decisiva sulla vita delle persone in crescita. Il pericolo maggiore dei social è proprio quello di favorire la creazione di un ‘mondo a parte’ che escluda gli adulti (‘Il signore delle mosche’?), e che con gli adulti escluda la possibilità di una tutela saggia e discreta sulla vita dei giovanissimi, di un accompagnamento fondato sul voler bene, del confronto e dello scambio affettivo tra generazioni diverse, dell’esistenza stessa di punti di riferimento saldi e amorevoli a cui affidarsi nei momenti di difficoltà e di dolore. E si vuole che i ragazzini siano sempre più soli, in un mondo artificiale dove gli adulti non ci sono più, perché questo li rende infinitamente vulnerabili e manipolabili.
3) Una volta accertato che i figli stanno male, come mai moltissimi genitori non riescono a pensare che essi hanno bisogno di aiuto e non fanno nulla per farglielo avere? Come diceva Freud, gli uomini credono nel principio di causa-effetto in tutti gli ambiti dell’esperienza, tranne in quello psicologico; per cui, lo ‘stare male’ dei figli diventa un ‘mistero’, che in realtà è tale solo perché si evita di indagarlo davvero, e si evita di indagarlo perché quasi sempre è un malessere di origine familiare, che riguarda tutta la famiglia e non solo il figlio incomprensibile o ‘malato’. Molti genitori sostengono che i figli siano dotati di un ‘carattere’ immutabile già dalla nascita: questo carattere, dall’origine misteriosa, spiegherebbe tutte le difficoltà dei propri figli, come se la storia personale, di cui essi (genitori) sono grandissima parte, non avesse niente a che fare con lo sviluppo psichico e affettivo di quell’individuo. Questa clamorosa negazione dell’influenza della storia personale ed affettiva sullo sviluppo della personalità – come se quello che passa dall’ambiente a un bambino, dai primi giorni di vita in poi, non avesse nessuna importanza – trova d’altra parte ‘autorevole’ conferma nella genetica e nella neurologia, o meglio nelle loro versioni più volgari: ed ecco che profonde ferite e grandi sofferenze affettive, che se non vengono affrontate per quello che sono possono segnare una persona per tutta la vita, diventano delle caratteristiche che dipendono dai ‘geni’, o da un malfunzionamento cerebrale, ovviamente non diagnosticabile, non rilevabile con gli strumenti diagnostici ma certamente postulabile sulla base dei suoi effetti…
D’altra parte, ognuno trova le giustificazioni che più gli aggradano, e ognuno si racconta la storia che meglio gli serve a preservare lo status quo ed il proprio equilibrio emotivo; ed ecco che molti genitori declinano le proprie responsabilità e soprattutto tengono lontani i figli da aiuti terapeutici che soprattutto in adolescenza potrebbero essere decisivi e vitali con giustificazioni anticipatorie del tipo: “Ho due figli che sono nati nella stessa famiglia, eppure sono diversissimi tra loro, vede? Non c’è niente da fare, è carattere…”.
Per chiunque voglia guardare in faccia la realtà, è palese che da almeno un decennio – e in modo sempre più rapido negli ultimi anni – si sia realizzato un fortissimo distacco tra una parte maggioritaria del mondo giovanile e l’abitudine alla lettura dei libri, intesi nel loro valore di strumento di scoperta e di conoscenza di sé e del mondo. Le motivazioni del declino della lettura sembrano chiare a tutti: internet, gli smartphone, i giochi e i social hanno soppiantato il libro e, permettendo una connessione e una comunicazione velocissima – sia pure molto superficiale –, hanno fatto diventare quasi improponibile il tempo lungo della lettura e della riflessione e reso obsoleto il loro strumento d’elezione. Le conseguenze le conosciamo: senza il rispecchiamento nelle storie, nelle idee e nelle parole degli altri, nelle innumerevoli esperienze umane di cui i libri rappresentano un ‘concentrato’, la mente non respira, e assistiamo a un progressivo impoverimento linguistico, conoscitivo, emotivo-affettivo (specie nella capacità di dire, e cioè di riconoscere, ciò che si prova) che si distende a macchia d’olio non solo tra i giovanissimi ma su tutta la società.
Tale diagnosi, a mio avviso, andrebbe ulteriormente dettagliata; a rendere ‘concorrenziale’ e vincente lo smartphone rispetto al libro non è infatti solo la velocità del suo utilizzo, ma anche e soprattutto la sua immediatezza: un libro è un mondo, per entrare nel quale occorre uno sforzo iniziale (capire di cosa si parla; nel caso della narrativa mettere a fuoco la vicenda, i personaggi ecc.) al quale sempre meno giovanissimi sono abituati; lo smartphone permette invece un godimento immediato, senza fatica iniziale (Freud parlerebbe di incapacità di “differire il piacere”, che impedisce ogni sublimazione dell’oggetto e porta inevitabilmente alla noia, come accade con tutto ciò che non è frutto di conquista personale: sarà anche qui il segreto della depressione che attanaglia tantissimi giovani?).
Lo smartphone dunque è uno strumento vincente semplicemente perché è più veloce e perché il suo uso è più immediato di quello del libro? Questa risposta, a dire la verità, non è del tutto soddisfacente: sembra coprire solo una parte del problema e non spiega in particolare il fascino ipnotico che lo smarphone esercita su chi lo utilizza, fino a diventare il centro della vita e l’unica modalità di contatto col mondo per moltissime persone, giovanissime e non. In fondo, non può essere soltanto la facilità d’uso di un mezzo a farne o meno il successo: tutti vediamo come i ragazzini si sottopongano qualche volta anche ai sacrifici più grandi, se ritengono che ne valga la pena, e riescano a fare sforzi sorprendenti, se opportunamente motivati. Evidentemente lo smarphone dà loro qualcosa – almeno illusoriamente – che il libro non dà. Ma cosa?
Lo psicoanalista Luigi Carbone, nel corso di una conversazione sull’argomento, formula un’ipotesi estremamente interessante: quello che i ragazzi non riescono più a sopportare del libro è la solitudine che la sua lettura richiede. La condizione indispensabile per leggere, infatti, è per definizione quella di essere soli con se stessi; e oggi la solitudine è qualcosa che, lungi dall’essere sentita come feconda (nella sua qualità di condizione per pensare), terrorizza profondamente. Ai giovanissimi non bastano più, evidentemente, le voci che il libro accende dentro; anzi, probabilmente ne sono molto spaventati. Viceversa lo smartphone, i giochi e i social danno la sensazione rassicurante di una connessione perpetua con le altre persone, fanno da ‘otturatore’ solido e concreto rispetto ai pensieri angosciosi e servono a evitare una sensazione penosa di abbandono. Il prezzo di questa continua rassicurazione però è molto alto: come ogni dipendenza, richiede il sacrificio di una quota consistente di libertà, soprattutto della libertà di sentire, di immaginare, di riflettere; e il pensiero – paragonato alla rassicurazione dell’ ‘agito’ delle dita che scorrono sullo schermo – appare addirittura minaccioso, come appare minaccioso il libro, che ne è il principale strumento.
Come se ne esce? Una proposta potrebbe essere quella di ‘spogliare’ l’atto del leggere da una parte della sua solitudine: se il luogo in cui si legge (soprattutto la scuola, anche in orario pomeridiano) fosse anche un luogo d’incontro, su modello della biblioteca, riadattata alle esigenze dei bambini e degli adolescenti di oggi, l’atto della lettura diventerebbe insieme individuale e collettivo, di gruppo; e la vicinanza fisica di altri lettori toglierebbe ai giovanissimi un po’ dell’enorme paura di essere soli che si portano addosso. Se si riuscisse a ‘socializzare’ l’atto della lettura più di quanto si faccia già oggi e a rendere sempre di più la classe, ad esempio, un luogo in cui si legge insieme, forse le cose potrebbero cominciare a cambiare. A dare inizio, impulso e continuità a questo processo, ovviamente, dovrebbero essere gli adulti, capaci di farsi guide di un leggere insieme, di un interpretare insieme ciò che si legge, che mostri ai giovanissimi quali inaspettate associazioni di idee e quali aperture di pensiero siano possibili a partire dalla lettura delle parole e delle storie dei libri. Si tratta insomma di creare un’abitudine al gusto della scoperta attraverso le parole; è un lavoro che dovrebbe partire già dai genitori, cosa che non sempre accade. In ogni caso, il nostro ruolo di insegnanti è sempre cruciale. E infatti…
II
Gli insegnanti
A volte amici insegnanti mi chiedono dove io trovi il tempo per leggere. Devo dire che la domanda mi stupisce sempre: che un insegnante legga dei libri dovrebbe essere una cosa talmente ovvia da non suscitare nessuna curiosità. L’insegnante non è il tramite di contenuti culturali (e, direi, umani) significativi? E se lui stesso, in prima persona, non occupa una parte del suo tempo a confrontarsi con tali contenuti e a rielaborarli, come può trasmetterli ai suoi studenti, in modo da farglieli sentire vivi e appassionanti?
Ho il sospetto che concentrare tutta l’attenzione sui ‘metodi’ dell’insegnamento – si veda l’inutile retorica della didattica per ‘competenze’ – non sia altro che un tentativo di supplire a un grande vuoto che si sta creando in questo senso; tutti infatti vediamo come agli insegnanti vengano sempre più imposti compiti burocratici che esulano completamente dal loro ruolo di educatori-intellettuali (una riflessione sul perché le istituzioni facciano questo richiederebbe un ampio discorso a parte) e che tolgono loro il tempo e, direi, anche gli stimoli e la voglia, di coltivare una passione culturale indispensabile ad un senso vivo e vitale della conoscenza. Di fronte a ciò è fondamentale non lasciarsi spingere alla rassegnazione, continuare a non considerarsi dei burocrati, a leggere, a studiare, a scoprire e ad approfondire le conoscenze in modo da poter proporre sempre agli studenti quello che non si aspettano e di cui hanno un grande bisogno, anche quando non lo sanno. La nostra rassegnazione, su questo punto, sarebbe davvero devastante.
La categoria degli insegnanti è evidentemente molto debole, sostanzialmente incapace di opporsi a qualunque cosa – dalle deliranti riforme che hanno devastato la scuola negli ultimi vent’anni, alla burocratizzazione con cui ci stanno soffocando, alle chiacchiere in didattichese che prendono il posto di qualunque autentico contenuto culturale e persino a un’enormità come la minaccia della regionalizzazione [e oggi alla deriva iper-tecnologica che trasforma la tecnologia da mezzo in fine che sostituisce lo stesso rapporto umano] – ; incapace anche di far valere la forza del numero (nella scuola, complessivamente, lavora circa un milione di insegnanti, senza contare l’ ‘indotto’), come invece riescono a fare categorie numericamente molto meno ‘pesanti’ della nostra. Il paradosso è che altre categorie, specie quelle privilegiate e influenti, alzando la voce ben oltre la loro effettiva consistenza, riescono a imporre alla collettività delle scelte a volte corporativistiche e del tutto contrarie all’interesse generale; gli insegnanti, invece, che lavorano per il futuro e il bene della società tutta, non riescono mai a far sentire davvero la loro voce. Io credo, per non spingere l’analisi troppo in là, che questa debolezza dipenda soprattutto dalle divisioni che attraversano la classe docente; alcune di queste divisioni sono di ordine pratico, e riguardano interessi contingenti: la lotta, che so, per far prevalere una modalità di reclutamento rispetto a un’altra; lotte che nella loro comprensibile urgenza fanno dimenticare, ad esempio, che una modalità unica, chiara e motivata di reclutamento, basata su capacità e preparazione, rappresenterebbe la solo possibile garanzia di giustizia per tutti. Queste divisioni, certamente, vengono incoraggiate ad arte da chi vuole indebolire ulteriormente la nostra categoria, secondo il principio del divide et impera.
Vi sono poi divisioni ‘culturali’, che riguardano l’interpretazione da dare al nostro lavoro, il senso che gli attribuiamo; e qui mi sembra che ci si divida tra “buonisti” e “rigoristi”, secondo una polarizzazione che, a ben vedere, non dovrebbe neppure esistere. Cominciamo col dire che i due ‘tipi’ spesso si accusano a vicenda (pensiamo ad esempio a cosa accade durante gli scrutini) di essere la rovina della scuola: i rigoristi accusano i buonisti di mammismo, di giustificazionismo, di psicologismo, di squalifica della funzione culturale della scuola e della professionalità dell’insegnante; i buonisti a loro volta accusano gli altri di essere freddi, non empatici, incapaci di entrare in relazione con i ragazzi, di essere disinteressati ai vissuti interiori dei propri studenti e anche per questo incapaci di coinvolgerli integralmente e di aiutarli a crescere. Probabilmente questa, che a mio avviso è una falsa divisione, è alimentata dal fatto che gli uni e gli altri vedono soltanto il lato peggiore della controparte: dietro il ‘buonismo’, certo, può nascondersi anche un sostanziale disinteresse per ciò che gli studenti imparano davvero o il rifiuto di assumere in pieno il proprio ruolo e di prendersi la responsabilità adulta di educare; chi è ingessato nel proprio ruolo di docente tutto di un pezzo, a sua volta, può mascherare con la necessità di mantenere le distanze una profonda paura della relazione e un profondo turbamento di fronte a persone in crescita, con le loro necessità affettive e le loro grandi inquietudini. Sarebbe molto diverso se ognuno dei due ‘tipi’ riconoscesse invece le istanze positive che ci sono in chi è diverso da sé e cercasse di farle proprie, in vista di un approccio educativo più completo: a ben vedere, la necessità di far rispettare le regole, di ribadire la serietà della scuola e di ‘costringere’ gli studenti a essere preparati nelle diverse discipline e quella di una comprensione profonda del loro essere e di un rapporto umano affettuoso e costruttivo non sono affatto alternative, ma complementari; basti pensare, che so, che far rispettare delle regole motivate corrisponde esattamente a un bisogno profondo, anche se inespresso e mascherato, di moltissimi studenti, spesso disorientati proprio dall’indifferenza e dalla mancanza di limiti posti dagli adulti.
La sollecitudine per la formazione umana degli studenti e la richiesta della loro effettiva preparazione disciplinare, insomma, non possono che essere due facce della stessa medaglia: la trasmissione culturale tra adulti e persone in crescita richiede un autentico rapporto umano e, viceversa, il rapporto tra insegnante e studente non può che passare in maniera prioritaria attraverso la condivisione dei contenuti disciplinari, la quale veicola, in sé e nelle modalità con cui si realizza, anche numerose istanze educative. Un insegnante che senta di essere, al tempo stesso, un intellettuale autorevole e un educatore affettuoso (di un affetto che non è accondiscendenza ma fare il vero bene di chi si ha di fronte), ricomporrebbe dentro di sé questa divisione che non ha motivo di essere e sarebbe senz’altro più felice e soddisfatto del proprio lavoro; ed anche la compattezza della categoria ne beneficerebbe in positivo.
Articolo pubblicato il 16/5/2019 su Professione insegnante
Da molto tempo ritengo importante che gli insegnanti – ogni giorno a contatto con persone in crescita, che vivono cioè dinamiche affettive ricche e complesse – possano accostarsi a una conoscenza non superficiale della psicoanalisi e delle sue scoperte, anche come forma di apertura mentale; tuttavia, poiché gli insegnanti non sono e non possono essere psicoterapeuti (chi si improvvisa tale può fare grossi danni), questa conoscenza non deve necessariamente passare per l’acquisizione di contenuti “tecnici”, richiesti invece a un professionista, ma può diventare una forma di arricchimento culturale, umano, emotivo, capace di nutrire la sensibilità e le stesse capacità empatiche…
Quale modo migliore, allora, per approcciare questi contenuti da tale punto di vista, che leggere storie analitiche di grande valore anche letterario, culturale, esperienzale? D’altra parte, lo stesso Freud ha ribadito più volte come le scoperte della psicoanalisi siano state in molti casi anticipate dalle profondità affettiva delle opere letterarie; e chi ha letto gli scritti freudiani sa bene come non pochi di essi – Un sogno d’infanzia di Leonardo da Vinci, i Casi clinici, Il Mosé di Michelangelo, solo per citarne alcuni – possiedano un singolare andamento narrativo o assomiglino alle inchieste e al progressivo svelamento dei romanzi ‘gialli’. Descrivo allora qui brevemente tre romanzi incentrati – ognuno a modo suo – sulla storia di un’analisi che è stata capace di cambiare una vita e caratterizzati da una grande potenza emotiva: Il male oscuro di Giuseppe Berto, Le parole per dirlo di Marie Cardinal e Il silenzio dell’onda di Gianrico Carofiglio.
Il male oscuro, un libro del 1964, è stato scritto quando ancora le tematiche psicoanalitiche facevano fatica ad affermarsi nella cultura italiana e spesso erano più orecchiate che conosciute per esperienza diretta, a parte l’eccezione di Saba in cura negli anni Trenta presso Edoardo Weiss (della scarsa penetrazione della psicoanalisi nella cultura italiana fino all’inizio degli anni ‘60 dà testimonianza il documentatissimo saggio di Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, uscito in prima edizione nel 1966 e in una nuova edizione nel 1990). Berto, con magnifica ironia e uno stile inconfondibile – periodi interminabili e senza punti fermi, con frasi che continuano a nascere l’una dall’altra, quasi a mimare lo svolgimento delle libere associazioni – racconta la storia della propria vita e della propria analisi in un modo che riesce a essere addirittura divertente, anche se la vicenda si svolge sullo sfondo di una terribile angoscia, cui l’ironia cerca di fare da antidoto e da confine, e con la quale verso nella conclusione del libro si riesce a giungere a un parziale compromesso.
Le parole per dirlo, un romanzo straordinario e giustamente famoso pubblicato nel 1975, è il racconto intensissimo e commovente di una salvezza, l’attraversamento di un vero e proprio inferno, in un percorso che parte da terribili sintomi psicosomatici, dal pericolo della reclusione in una clinica psichiatrica e dell’annientamento attraverso psicofarmaci alla fuga e all’inizio di un dolorosissimo percorso di sette anni di analisi, durante i quali la protagonista rivive i traumi e le spaventose sofferenze della propria infanzia, con veri e propri tuffi vertiginosi nell’inconscio e la ricostruzione di un mondo (nel quale trova spazio anche la Storia con la “s” maiuscola, con l’allontanamento forzato dall’Algeria dei pieds noirs, di cui la famiglia dell’autrice faceva parte) e di tutta la propria vita in una nuova prospettiva, fino alla liberazione finale e al perdono nei confronti di chi non c’è più.
Ne Il silenzio dell’onda di Carofiglio è possibile trovare, credo per la prima volta in un romanzo, uno squarcio sul rapporto umano che si crea tra paziente e psicoanalista (anche se nel libro viene definito ‘psichiatra’; ma non c’è dubbio che il processo vissuto da Roberto, il protagonista, sia quello analitico), con l’impressionante descrizione di una seduta davvero ‘fuori ordinanza’, che mostra l’importanza della libertà in analisi, senza peraltro delegittimare – proprio perché quello che si svolge al di fuori delle regole analitiche avviene una volta sola, quando non può non avvenire – la necessità e l’effetto protettivo del “setting”. Altri elementi di grande interesse sono il tentativo di riprodurre ciò che avviene nella mente di un bambino, la sua affettività profonda, sogni compresi, e il commovente cercarsi dei “padri” e dei “figli”, figure simboliche al di là del legami biologici. Quello di Carofiglio è un romanzo che mi emoziona particolarmente, non solo perché come un giallo ci rapisce pagina dopo pagina con il bisogno crescente di scoprire cos’è successo davvero nella vita del protagonista, e in quella dell’altro personaggio che gli fa da controcanto e con cui è destinato a incontrarsi, ma anche per i luoghi in cui è ambientato: lo studio dell’analista vicino Piazza Fiume, a Roma, l’abitazione di Roberto nel quartiere Monti, la scena finale a Santa Marinella. Non posso spiegare qui quali incredibili coincidenze trovi con la mia storia…
In generale, io credo che la psicoanalisi abbia così tanto a che fare con il bisogno di raccontare e di raccontarsi, di dare un senso a quello che accade, che consiglierei a tutti la lettura di questi libri come parte di un processo di scoperta di sé – propedeutica per chiunque voglia accompagnare le persone in crescita in questa stessa scoperta -, una vera e propria terapia della lettura attraverso un confronto con il mondo smisurato delle esperienze interiori, delle emozioni e dei sentimenti e con l’elaborazione che altri prima di noi ne hanno compiuto.
Articolo pubblicato su Professione insegnante il 07/3/2020
Sono molti quelli che in questi giorni stanno cogliendo l’ “occasione” della chiusura delle scuole per rimproverare agli insegnanti una scarsa dimestichezza con gli strumenti informatici, un’impreparazione che li renderebbe drammaticamente inadeguati alla crisi che stiamo vivendo e alle nuove necessità di comunicazione a distanza che essa ha creato.
Ora, su questo vorrei sviluppare alcune considerazioni:
1) Se abbiamo ben presente la differenza tra mezzi e fini, sappiamo che i mezzi non hanno un valore in sé; il loro valore risiede nella loro utilità. Se questo è vero, bisogna ricordare come nessuno potesse prevedere che una situazione di emergenza avrebbe interrotto la possibilità di una didattica in presenza e reso l’uso degli strumenti tecnologici indispensabile per la comunicazione con gli studenti. Non è detto che questa indispensabilità permanga anche in futuro; in tempi normali, l’insegnante ha il dovere di avere qualcosa da condividere con gli studenti, soprattutto contenuti e passioni culturali che abbiano senso e spessore e che egli deve per primo possedere. Rispetto a questo compito, il discorso sui mezzi utilizzati – tranne, appunto, in un una situazione di emergenza – è del tutto secondario;
2) È vero che oggi i giovanissimi vivono immersi in un mondo digitale e che, nonostante siano “nativi digitali”, mancano degli strumenti necessari all’uso consapevole delle nuove tecnologie, delle quali spesso sono utenti del tutto passivi; ed è anche vero allora che uno dei compiti degli insegnanti, oggi, è quello di educarli ad un uso diverso, più consapevole, di tali tecnologie: si pensi solo all’enorme questione della scelta delle “fonti”, della loro autorevolezza e credibilità, e di come sia indispensabile aiutare gli studenti a sviluppare un senso critico senza il quale ci si perde, e si può essere facilmente manipolati, nel un flusso continuo di informazioni che arrivano da internet e dai social. Ora, è evidente che un approccio critico ai nuovi mezzi di comunicazione e alle nuove tecnologie preveda un punto di vista non del tutto interno ad essi, una capacità di osservarli anche all’esterno per coglierne sia gli aspetti positivi, sia i limiti. E qual è questo “luogo” alternativo dal quale guardare con la possibilità di un distanziamento critico? Non può che essere quello della cultura, della conoscenza, della parola, della riflessione, del pensiero umano nella sua molteplicità e profondità storica, del libro, l’unico capace di fornire una preparazione solida e approfondita, non soggetta all’aleatorietà di un approccio acritico alla tecnologia contraddistinto da un “qui e ora” privo di spessore, un presente totalitario incapace di relativizzare la stessa tecnologia che, ricordiamolo, è mezzo e non fine. Non a caso, sono proprio i veri esperti – ad esempio nella scuola gli insegnanti di informatica, e non i neofiti ipnotizzati da quell’ideologia del ‘nuovo’ a tutti i costi imposta da immensi potentati economici – gli unici capaci di trasformare gli strumenti tecnologici in consapevolezza e cultura, di ‘guardarli alle spalle’, per così dire, nel loro reale funzionamento; gli unici capaci di trasformare gli studenti da utenti passivi in esperti a loro volta, in grado di andare a vedere ‘cosa c’è dietro’.
Insomma, quando si attribuisce molta importanza all’acquisizione delle ‘competenze digitali’ da parte degli insegnanti, da un lato si rileva un’autentica necessità, dall’altro si rischia di dimenticare l’altro versante del discorso, quella della formazione umana e culturale dell’insegnante, che deve rimanere centrale e purtroppo a volte non lo è. Il valore dell’insegnante sta proprio nella sua condizione ‘anfibia’, nella possibilità di spostarsi da un mondo all’altro, nel trasmettere quella riserva di senso offerta dal mondo della cultura, l’unico capace di dare agli studenti un’alternativa rispetto a un’immersione totale e irrelata nel presente, e nel saper utilizzare ANCHE gli strumenti tecnologici per veicolare contenuti culturali significativi che deve egli per primo possedere. Insomma, quella delle ‘competenze digitali’ è l’ultima parte di un lungo discorso… e infatti;
3) In questo periodo, come accennato sopra, si rimprovera agli insegnanti che hanno poca dimestichezza con gli strumenti digitali di non sapere come far lavorare i propri studenti. Anche qui ci si dimentica di una cosa: se gli studenti – in una situazione di emergenza – hanno tante difficoltà nel lavorare in autonomia, questo dipende dalla loro scarsissima consuetudine con la parola scritta, al punto che non di rado, al di fuori dell’immediatezza della comunicazione orale, hanno difficoltà a comprendere quello che si chiede loro di fare; sorprende, a volte, ascoltare discorsi sul valore salvifico delle nuove tecnologie, quando si ha ogni giorno esperienza della condizione di semi-analfabetismo in cui si trovano molti studenti (e non solo loro…). Né di tale condizione si può fare una colpa agli studenti stessi: quando, nel corso di un percorso scolastico più che decennale, a una persona non viene proposta la lettura di UN solo libro, la capacità di comprensione di un testo scritto potrebbe essere acquisita solo grazie ad un intervento divino; è impossibile infatti imparare a leggere testi scritti senza…leggere testi scritti: hai voglia a voler insegnare direttamente la ‘competenza’ del saper comprendere testi scritti senza farli leggere, o meglio, senza darsi e dare il tempo di leggerli insieme. In ogni frettolosa verniciatura di ‘competenze’, è proprio la dimensione del tempo, indispensabile ad ogni autentica formazione, a venire meno.
Insomma, e in sintesi, non vorrei che la necessità di un’acquisizione di competenze digitali da parte dei docenti servisse ad occultare furbescamente altre necessità e altre mancanze, più profonde, del nostro sistema educativo; in un discorso a lungo termine il recupero della parola scritta, ad esempio, dovrebbe venire prima di ogni discorso sull’uso delle nuove tecnologie, che possono essere preziose nell’ambito del ‘come’ dire, ma non possono sostituire quello sul ‘che cosa’ dire. A meno che, come chiedono potentati economici di ogni genere, non si punti all’addestramento e non alla formazione a tutto tondo della persona. Ma non è questo il ruolo previsto per la scuola pubblica dalla nostra Costituzione.
Articolo pubblicato il 16/3/2020 su Professione insegnante
Nota: le considerazioni svolte qui valgono soprattutto per la scuola secondaria, di primo e secondo grado, in cui sono state messe alla prova a lungo anche da chi scrive. È probabile che alcune di queste considerazioni, specie quelle sulle modalità per invogliare a leggere, andrebbero invece calibrate in maniera diversa per quanto riguarda la scuola primaria e, ancor di più, per quella dell’infanzia. Sarebbe bello se insegnanti di questi ordini di scuola volessero integrare o correggere nei commenti quanto scritto qui.
Importanza della lettura. Siamo tutti d’accordo, almeno a parole, sull’importanza vitale che la lettura dei libri ha per la mente degli esseri umani (fa eccezione qualche fanatico del post-umano). Senza libri la mente non respira, non si confronta con nulla e spesso annaspa nel vuoto di un’immediatezza senza pensieri, tutta “agita” nel concreto, priva di ogni elaborazione possibile dell’esperienza. Le parole definitive sulla lettura sono quelle celeberrime di Umberto Eco: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro”. Certo, leggere apre mondi, lo sentiamo dire spesso ed è verissimo; va anche detto che se la si continua a ripetere senza riuscire a far conoscere alle nuove generazioni il fascino dei libri, questa frase rischia di diventare un inutile luogo comune.
Consumismo. È innegabile che la crisi del libro e la sua sostituzione con l’immediatezza di internet, dei social e dei giochi in rete sia perfettamente funzionale a un sistema economico che si regge sul consumo continuo di ogni cosa, in un presente privo di ogni spessore e di ogni relazione con il passato. Il libro, in questa prospettiva, è “antieconomico”: anziché creare e stimolare falsi bisogni, appaga con grande semplicità una serie di bisogni autentici, profondi, radicati. Il libro non passa, permane, ci fa riflettere ogni volta in un modo nuovo, a seconda dell’età e della situazione in cui ci troviamo; può accompagnarci per tutta la vita, a differenza degli oggetti del consumo, effimeri e volatili, che vengono sostituiti a un ritmo sempre più accelerato. Per sé il libro chiede solo tempo, l’unica cosa che – anche a scuola – non viene concessa: si cerca infatti di sostituire la stessa maturazione umana e culturale, che ha la sua indispensabile lentezza, con una verniciatura di “competenze”.
Inerzia. D’altra parte, scoraggiare alla lettura dei libri, specie per quanto riguarda bambini e adolescenti, è semplicissimo: basta non fare nulla. O meglio, basta far leva sulla forza di inerzia con cui ognuno di noi si scontra ogni volta che deve cominciare a fare qualcosa di nuovo. La prima pagina di un libro è una porta da aprire, e aprirla richiede uno sforzo iniziale, tanto più difficile quanto più manca l’abitudine a farlo. Non è semplice entrare nella storia che ci viene raccontata in un romanzo, capire dove ci si trova, cominciare a conoscerne e riconoscerne fatti e personaggi; allo stesso modo nel leggere un saggio bisogna iniziare a dipanare il filo delle idee di chi l’ha scritto, e per leggere una poesia bisogna prima di tutto capire i significati letterali e poi mettersi in sintonia con gli affetti, le immagini, i suoni… Questo sforzo iniziale viene poi ampiamente ricompensato dal nutrimento della lettura; la fatica della comprensione, indispensabile per entrare in un nuovo mondo, viene ripagata da una moltiplicazione di esperienza: ma chi si ferma spaventato e paralizzato alla copertina questo non lo sa, e purtroppo rischia di non saperlo mai. Di sicuro, nulla di ciò che circonda i ragazzini li spingerà mai alla lettura, anzi: le multinazionali del digitale e dei social – che negli ultimi tempi vogliono entrare anche nello spazio libero della scuola, con le loro “piattaforme didattiche” che sostituiscono la libertà di insegnamento e della conoscenza con percorsi standardizzati e preconfezionati – hanno tutto l’interesse a esercitare una continua stimolazione superficiale e ipnotica sulle fasce più vulnerabili della popolazione, che le tenga lontane da ogni autentico approfondimento culturale, che spenga la loro naturale curiosità nei confronti della realtà e di se stessi, che le trasformi in utenti e clienti sempre più passivi ubbidienti a dinamiche stimolo-risposta. La pervasività delle suggestioni anticulturali, per cui la lettura, paradossalmente, diventa oggetto di stigmatizzazione tra i giovanissimi, è alimentata anche da questo “sistema” di marketing.
Una dolce costrizione. Per questo, specie a scuola, è indispensabile esercitare una “dolce costrizione”, per rompere quella barriera dell’inerzia che rischia di tenere i ragazzi lontani dalla lettura per tutta la vita. Per far cominciare a leggere dei libri a dei ragazzini che non l’hanno mai fatto, o che non leggono più da anni, bisogna trovare il modo di invogliarli, attraverso la giusta attenzione da parte degli adulti, il cui primo compito, anche in questo campo, è quello di esserci e di sollecitare trovando la strada migliore per farlo.
Il ‘buon cuore’. Qualche collega dal cuore buono obietterà, a questo punto, che la lettura è una passione, che spingere qualcuno a leggere è controproducente e rischia di allontanarlo per sempre dai libri. Ovviamente c’è modo e modo per farlo: il modo migliore per invogliare a leggere a scuola è fare dei libri un oggetto di interesse e di lavoro comune, di commento e di interpretazione insieme agli studenti, i quali – tutti – anche quando non lo sanno, hanno una grandissima voglia di sentir raccontare delle storie; basta anche citare una semplice frase e chiedere agli studenti di rifletterci su, per accendere la loro curiosità e dare importanza ai loro pensieri. Ma è anche vero che spesso lo “svezzamento” richiede una certa fermezza da parte degli adulti che, nel rispetto del loro ruolo, a volte devono saper chiedere con decisione, senza lasciare alternative all’inerzia e all’abitudine (in questo caso quella di non leggere). Gli adulti sanno che lo sforzo iniziale è propedeutico al piacere della lettura, per arrivare al quale occorre creare nei ragazzi, attraverso una sapiente progressione, una consuetudine minima con il testo scritto e con il libro, possibilmente riallacciandosi al filo di esperienze di ascolto e di lettura vissute almeno durante l’infanzia, nei primi approcci con la lingua orale e scritta. D’altra parte, perché i ragazzi dovrebbero prendere sul serio una richiesta se gli adulti stessi non la considerano importante?
Biblioteca di classe Ecco, questa richiesta può prendere la forma della “biblioteca di classe”: i ragazzi devono scegliere un libro da un elenco dato dall’insegnante – preferibilmente concordato insieme – e leggerlo entro un certo intervallo di tempo. La stessa stesura dell’elenco dei libri della biblioteca può essere un’esperienza didattica molto importante: i libri che entrano a far parte di tale elenco vengono via via descritti dall’insegnante, che deve avere la massima cura nel suscitare la curiosità e l’interesse degli studenti, anche attraverso citazioni da commentare insieme e riflessioni di gruppo. L’elenco dei libri da leggere deve prendere forma sotto gli occhi degli studenti, che possono contribuire con le loro proposte alla sua elaborazione. I libri, a seconda dei casi, possono poi essere acquistati dagli studenti, reperiti in biblioteca, prestati dall’insegnante, scambiati tra compagni. Trascorso il periodo di tempo assegnato per la lettura, viene svolta una seria verifica sul libro letto, con una valutazione che tenga conto soprattutto dell’effettiva lettura del libro.
La contestualizzazione. È bene sottolineare quanto sia importante che nella presentazione dei libri e poi nel procedere della lettura da parte degli studenti l’insegnante fornisca un quadro, una contestualizzazione di ciò che si sta leggendo. Se la lettura viene evitata dai giovanissimi, questo dipende a volte anche dalla sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di difficile, di sconosciuto, di incomprensibile e minaccioso, di fronte a cui si ha paura a ritrovarsi da soli. L’anticipazione dell’adulto, al contrario, può creare curiosità, se l’adulto stesso diventa una guida rassicurante che renda almeno parzialmente prevedibile ciò che ci si può attendere dalla lettura e ne garantisca la generale comprensibilità. La paura, in questo modo, può trasformarsi nel piacere di capire e di ritrovare nelle pagine – magari in forma molto diversa da ciò che ci si aspettava – quello che era stato preannunciato.
Quali libri scegliere? Indispensabili, nella scelta del libro da assegnare a ogni singolo alunno, la bravura e le “antenne” dell’insegnante (che, ovviamente, non può che essere un lettore consapevole): a volte è bene far leggere libri per ragazzi, magari di moda in quel momento; altre volte si scopre che alcuni giovanissimi, contrariamente a tutte le aspettative, si annoiano con i libri pensati per loro e si appassionano insospettabilmente ai classici. Nell’aiutare i ragazzi a scegliere il libro più adatto a loro, l’insegnante deve cercare di capire quali sono le esigenze profonde dei propri studenti (tutti i lettori, nei libri, che sono ‘concentrati’ di esperienze umane, cercano qualcosa; se la trovano, è probabile che non li lascino più) – deve soprattutto ascoltarli – e usare tutta la propria esperienza, la propria sensibilità, il proprio fiuto, pur sapendo che l’esito dell’incontro con un libro è in ultima analisi imprevedibile. La scelta del libro da leggere, insomma, deve essere una forma alta di condivisione tra l’insegnante e gli studenti, e anche degli studenti tra loro: il consiglio e le considerazioni positive dei coetanei dopo la lettura rappresentano spesso una potente spinta a prendere in mano un libro con maggiore fiducia.
Disinnescare i trucchi. I ragazzi, si sa, “ci provano” sempre, a volte in fuga dalla fatica, a volte catturati dall’inerzia e dall’abulia, a volte per il semplice brivido di riuscire ad aggirare le richieste dell’insegnante. Oggi chiedere di relazionare su un libro significa avere un’alta probabilità di trovarsi davanti una deprimente sintesi della trama scaricata da internet oppure una relazione incentrata sull’ ‘aver visto il film’. Le contromosse, per fortuna, esistono: dalle domande sulla lingua e sullo stile del libro alla richiesta di descrivere minuziosamente alcuni episodi o di sviluppare riflessioni approfondite su ciò che si è letto, fino all’espediente di far utilizzare il libro letto nel corso della verifica, chiedendo di trovare in esso citazioni significative e coerenti con il contesto. La migliore arma di dissuasione, comunque, resta quella del voto: va spiegato all’inizio dell’anno che la mancata lettura e la copiatura della trama da internet porta automaticamente a un’insufficienza. Qui, purtroppo, l’esistenza di siti delinquenziali e dichiaratamente mirati a “risparmiare la fatica” agli studenti costringe ormai l’insegnante a un lavoro supplementare di ‘indagine’: nel caso di frasi ed espressioni sospette, una ricerca attraverso un programma antiplagio porta di solito a una rapida individuazione delle fonti. A questo punto, almeno nell’esperienza di chi scrive, dopo che alcuni di loro sono stati scoperti e sono arrivate le prime insufficienze, i ragazzi si “rassegnano” a leggere davvero; sono invogliati a farlo anche dalle valutazioni generose – al di là del risultato prodotto – che vanno assegnate a chi i libri li ha letti: l’importante infatti è capire qualcosa, non capire tutto, e i pensieri di un ragazzo che riflette su un libro vanno sempre valorizzati.
Comunicare la passione. Lo scopo finale di tutto questo processo, ovviamente, è comunicare la passione per i libri. Non c’è niente da fare: se questa passione è nell’insegnante i ragazzi la respirano e la assorbono molto più facilmente. Qualche anno fa ho esaminato, da commissario esterno all’esame di maturità, una classe quinta di un istituto professionale alberghiero di Roma. Ecco, gli studenti non solo erano preparatissimi, ma avevano scritto le tesine sulla base delle loro passioni letterarie e dei libri – quasi tutti capolavori della letteratura contemporanea – che li avevano ispirati e catturati. E quei libri li avevano letti davvero: quando ne parlavano si capiva benissimo che stavano parlando di una parte importante di sé, di un amore. Poi ho scoperto che il loro insegnante era un poeta e critico letterario piuttosto noto, Paolo Febbraro, capace evidentemente di trasmettere l’interesse e la passione per la letteratura, che è poi interesse per la stessa condizione umana e per la propria realtà in cerca di parole e di storie in cui rispecchiarsi. Si può fare, dunque.
Articolo pubblicato il 10/4/2019 su Professione insegnante
Il 25 maggio 2020 è stato pubblicato da Anp (“Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità [!] della scuola”, l’ex Associazione Nazionale Presidi) un lunghissimo e farraginoso documento intitolato “Proposte Anp per la riapertura delle scuole a settembre”. Attenzione, il titolo è fuorviante: come si vedrà, il reale oggetto del documento non è la riapertura delle scuole a settembre, ma un vero e proprio progetto per la “scuola del futuro”, nella quale gli insegnanti diventino i meri esecutori – nei contenuti, nei metodi e negli strumenti dell’insegnamento – dei diktat di un Dirigente a cui siano stati conferiti poteri assoluti (per realizzare un progetto ideologico-politico rispetto a cui è egli stesso un esecutore, quello di smantellamento di un’istruzione pubblica di qualità in un orizzonte nazionale), attorniato dal suo “middle management”. Inutile dirlo, si tratta di portare fino in fondo la logica dell’ “autonomia”, nell’ambito della quale curiosamente l’insegnante perde ogni spazio di libertà culturale, didattica ed educativa (alla faccia di quanto previsto dalla Costituzione), è costretto all’adozione di un didattichese mostruosamente vuoto che prende il posto del proprio lavoro ed è integralmente riassorbito in una burocrazia del potere priva di spiragli. Rispetto a tale progetto, l’“occasione” rappresentata dall’emergenza è solo il punto di partenza. Riporto qui solo alcuni passaggi, per non infierire sulle persone più impressionabili.
Le frasi tra parentesi quadre e tutti i grassetti sono miei.
EVIDENZE…
“È evidente, quindi, che a settembre il mondo della scuola non potrà più replicare quello precedente all’emergenza e che l’autonomia scolastica – in verità mai pienamente attuata – dovrà rappresentare la prima risorsa concettuale per la ripartenza e l’innovazione”.
“Per fare tutto questo, è necessario “liberare” il ruolo dirigenziale da vincoli e costrizioni che nulla hanno a che fare con il principio costituzionale [???] del buon andamento ma che favoriscono, al contrario, conflittualità deleterie per il clima relazionale e, in definitiva, per la funzionalità del sistema” [vera ossessione degli estensori del documento è l’abolizione di ogni potere degli organi collegiali, in nome di un’ “autonomia” fatta paradossalmente di obbedienza]”.
“I docenti dovranno volgere decisamente la loro attività alla promozione dell’apprendimento autentico, attraverso un approccio di school improvement, ossia attraverso comportamenti di agevolazione del processo di formazione in uno scenario orientato alla cultura della competenza. L’introduzione di un vero middle management di supporto al dirigente non appare più rinviabile” [‘school improvement’, ‘middle management’, ‘cultura della competenza’: vedi oltre].
PROPOSTE…
“L’aggiornamento della governance delle scuole, cioè delle competenze degli organi collegiali, anacronisticamente ferme alle disposizioni legislative emanate nel lontano 1974 e spesso in stridente contrasto con le prerogative dirigenziali, come peraltro denunciato già nel 2000, agli albori dell’età autonomistica, dal Consiglio di Stato [vedi sopra];
L’attuazione di un adeguato piano di formazione di tutti i docenti sia dal punto di vista tecnologico sia, soprattutto, da quello didattico[cioè d’ora in poi insegnate quello che diciamo noi e come diciamo noi];
la revisione della costituzione e della modulazione oraria delle relazioni classi-gruppi-docenti;
lo snellimento dei curricoli ordinamentali, prevedendo maggiori opzionalità e facoltatività per le scelte delle famiglie;
la revisione del sistema di valutazione degli alunni che integri i voti in decimi con i livelli di competenza e le relative certificazioni”.
[In sostanza, smantellamento dei gruppi classe – alla faccia della socialità – e scardinamento dell’insegnamento delle discipline].
QUESTI INUTILI LIBRI…
“Alcune istituzioni scolastiche, riducendo le spese per la dotazione dei libri attraverso la concessione di un certo numero di testi in comodato d’uso agli studenti del primo anno, già consentono alle famiglie un risparmio che può essere poi utilizzato per l’acquisto di device; Questo sistema potrebbe essere potenziato e generalizzato, prevedendo convenzioni di favore per le famiglie che si rivolgono alle aziende maggiormente interessate al settore scolastico. Si potrebbe addirittura prevedere che siano le scuole a fornire la totalità dei libri, in formato ebook, senza oneri per le famiglie che dovrebbero così provvedere esclusivamente all’acquisto dei device[Chiaro? Non compri i libri ma i ‘device’ sì. Se proprio proprio vuoi sbirciare un libro, se proprio proprio non puoi farne a meno, ci sono gli e-book. Alla faccia di tutti coloro che lanciano l’allarme sui danni cognitivi derivanti dalla perdita di contatto con la parola scritta e denunciano i pericoli dell’iperconnessione e dell’abuso dei mezzi tecnologici da parte dei giovanissimi]”
I CONTENUTI E LE METODOLOGIE TE LE DICIAMO NOI, E NON SCAPPI…
“Insegnare a distanza non equivale a replicare, con strumenti diversi, la stessa didattica realizzata in presenza; occorre riprogettare i percorsi formativi utilizzando modelli pedagogici e didattici pensati per avvalersi di tutte le (notevoli) potenzialità del digitale.
Questo richiede il superamento dell’idea della trasmissione della conoscenza, l’ampliamento della visione dell’apprendimento, da realizzarsi attraverso l’utilizzo di pratiche didattiche innovative[la famosa buro-pedagogia di Stato, costruita sulla retorica astratta delle “competenze”, della “flipped classroom” e simili, priva di ogni concretezza e sostanza culturale ed educativa], e il ripensamento della valutazione che non ha solo lo scopo di misurare le conoscenze apprese, ma anche e soprattutto quello di certificare le abilità e le competenze acquisite dall’alunno [solite chiacchiere in didattichese puro].
La formazione deve essere integrata e considerata indispensabile e doverosa per la professionalità del docente, evitando che sia fruita esclusivamente dagli insegnanti più motivati e coinvolti nei processi didattici. Dovrebbe quindi essere resa obbligatoria, anche attivando una specifica sequenza contrattuale, e tempestiva, in quanto la ripresa di settembre è ormai molto vicina” [qui comincia la parte propriamente orwelliana: l’insegnamento non è più una trasmissione, una condivisione e un’elaborazione comune di contenuti culturali attraverso la relazione, che si rinnova di volta in volta e adatta le sue modalità alla singolarità della situazione e della classe, ma parte di un meccanismo burocratico predeterminato gestito integralmente dal ‘management’ dirigenziale – secondo le ultime richieste del didattichese di Stato e in assenza di qualunque confronto sulla loro validità educativa e culturale – e a cui gli insegnanti, opportunamente indottrinati e senza possibilità di riflessione autonoma, possono solo adattarsi passivamente].
“I dirigenti, ipotizzando soluzioni organizzative da individuare in sinergia con le diverse figure professionali e avvalendosi eventualmente della collaborazione con soggetti esterni [Quali? Con il controllo da parte di chi, visto che gli organi collegiali dovrebbero essere polverizzati e il Ministero dovrebbe ‘lasciar fare’?], dovranno agire come veri leader dell’innovazione. In altri termini, essi dovranno favorire l’individuazione e l’attuazione, da parte di ogni istituzione scolastica, di scelte didattiche maggiormente in linea con i più avanzati approcci pedagogici e docimologici che consentano di rivedere le pratiche didattiche sinora utilizzate, conquistando miglioramenti significativi e destinati a sopravvivere al Covid-19 [insomma, non importa più quello che insegni, che risultati ottieni, quanto sei preparato, se insegni bene o male: l’importante è che il Dirigente abbia il potere di costringerti ad adeguarti alla “didattica per competenze”, all’uso delle “nuove tecnologie”, alle mode più insulse del didattichese, a prescindere da ciò di cui hai davvero bisogno, con un perverso rovesciamento tra fini e mezzi e calpestando del tutto il principio costituzionale della libertà d’insegnamento. Nuove tecnologie e nuove metodologie non sono più utili strumenti, da usare quando servono; diventano un orizzonte totalitario che prescinde da qualunque contenuto – anzi, diventano esse stesse IL contenuto – e da qualunque progetto educativo si stia portando avanti. E sia ben chiaro che il Covid-19 è solo il pretesto per introdurre cambiamenti strutturali in tal senso che devono diventare definitivi]”.
“Solo un docente in possesso di tutte le meta-competenze indispensabili per impadronirsi del mondo della didattica “speciale” interfacciata anche con l’elaboratore potrà garantire un’azione didattica efficace, funzionale e inclusiva” [ancora, cosa fa un docente e come lo fa lo diciamo noi]”
CONCLUSIONI…
“L’esigenza diffusa di riprendere a settembre, almeno in parte, le attività didattiche in presenza deve essere accompagnata dalla consapevolezza della straordinaria opportunità [no comment; non so se stiamo parlando della stessa pandemia che ha fatto trentamila morti e ha costretto gli studenti a rimanere senza scuola per mesi] scaturita dalla situazione emergenziale, di sviluppare in ciascuna istituzione scolastica autonoma delle differenziate modalità organizzative e didattiche, più funzionali ai bisogni formativi del territorio di riferimento. Si tratta di un’autentica sfida verso il cambiamento e l’innovazione che deve trovare pronta ciascuna autonomia scolastica non solo ad affrontarla, ma anche a diffonderla e condividerla con tutti gli stakeholders” [sottotitolo: ma quanto fa fico l’inglese parte 2?]”.
“Si devono quindi eliminare, quanto più possibile, i vincoli burocratici e gli ostacoli organizzativi che impediscono ai dirigenti di assumere con la dovuta celerità le decisioni inerenti alla gestione delle risorse umane, economiche e logistiche. Così come si deve ridurre – e auspicabilmente eliminare – la tendenza del Ministero dell’istruzione a dettare regole di gestione del quotidiano, soprattutto in materia di personale [questa sarebbe l’ “autonomia”: un dirigente è chiamato a costringere gli insegnanti all’innovazione imposta dalla burocrazia ministeriale, alla faccia dell’articolo 33 della Costituzione; in cambio il Ministero concede ai dirigenti-burocrati il micro-potere di scegliersi gli insegnanti e poter tiranneggiare su di loro]”.
“Aggiornamento delle competenze attribuite agli organi collegiali [chiodo fisso, vedi sopra], attraverso una revisione del testo unico di cui al d.lgs. 297/1994 per evitare disfunzionali sovrapposizioni e conflitti con le prerogative dirigenziali [praticamente chiunque non è d’accordo potrebbe essere accusato di creare ‘disfunzionali sovrapposizioni e conflitti’]”.
“Introduzione di un vero e proprio middle management, da inserire nel livello professionale dei “quadri”, con funzioni di supporto al potere organizzativo detenuto dalla dirigenza scolastica [siamo sempre lì]”.
“Incremento delle risorse economiche a disposizione del dirigente scolastico per compensare il lavoro straordinario nelle sue varie forme quali-quantitative [in cambio della bellissima invenzione del termine ‘quali-quantitative’ lo Stato, senza ovviamente chiedere nessuna garanzia in cambio, dà ai dirigenti ampi fondi per distribuire mance ai più ubbidienti]”.
“Varo immediato di una massiva e capillare iniziativa di formazione destinata a tutto il personale, docente (innovazione didattica, docimologia, tecnologia) [chiodo fisso incontrato più volte]”;
“In conclusione, la minaccia costituita dal Covid-19 può essere un’opportunità per apportare al nostro sistema educativo consistenti miglioramenti strutturali[sic: l’epidemia come “opportunità”: peccato stia finendo troppo presto, questo obbliga ad affrettarsi nelle proposte per la “nuova scuola” e infatti…] ma il decisore politico deve assumersi rapidamente la responsabilità delle scelte necessarie”.
Va da sé che tutto il sistema poggia sul superamento delle “conoscenze”, sulla piena attuazione – “finalmente” – della didattica “per competenze” (cosa poi debba sapere un Dirigente-manager di didattica rimane un mistero), attraverso un approccio “inter-multi-pluridisciplinare”; che bisogna procedere a una rimodulazione dell’attività didattica che porti al superamento della “cattedra di 18 ore settimanali” e che bisogna essere flessibili, anche grazie alla risorsa del “potenziamento”: insomma, via l’obsoleto legame tra l’insegnante e la sua classe; il Dirigente, a seconda delle necessità, ti fa fare una cosa oppure un’altra, senza stare troppo a badare alla “rigidità” degli ambiti disciplinari, tanto l’insegnamento deve essere “inter-multi-pluri disciplinare”. In soldoni, se fai il bravo forse ti faccio insegnare, se fai particolarmente il bravo ti do pure una classe e ti faccio insegnare la tua materia. Altrimenti vai nel multi-pluri-inter…, ti scordi la classe, vai a fare il tappabuchi. Non hai nessun diritto a insegnare la tua disciplina e a fare quello per cui sei stato assunto: decido io.
Bene, se siete sopravvissuti a questo incubo orwelliano, qualche riflessione:
Il documento, dietro a tante tante chiacchiere astratte, ha al centro un’unica idea: sottoporre al totale controllo di una burocrazia aziendalistica gli insegnanti e il loro lavoro (mi chiedo, en passant, se i membri dell’Anp, che vorrebbero il totale controllo sulla didattica, siano minimamente consapevoli del fatto – e se gliene importi qualcosa – che tra gli studenti c’è un grandissimo problema di analfabetismo. Non lo sanno, no, visto che in pratica prevedono l’abolizione dei libri a scuola, un modo piuttosto singolare di risolvere il problema…);
Se la classe docente acquisisse una consapevolezza condivisa della natura e degli scopi del proprio lavoro, le tirate orwelliane dell’Anp sulla “scuola del futuro” si mostrerebbero per quello che sono e si scioglierebbero come neve al sole;
Un punto cruciale è questo: l’insegnamento non è una tecnica impersonale che possa essere facilmente acquisita e riprodotta o, peggio (come nel progetto di Anp), imposta da un ‘management’ aziendalistico a dei meri esecutori; l’insegnamento è un’arte– per questo è così difficile e non alla portata di tutti – e, come ogni arte, può essere acquisita solo attraverso un percorso umano e culturale lungo, serio e articolato da parte dell’insegnante, fatto di preparazione ed esperienza; e infatti…
Credere che si possa imporre una modalità standardizzata di insegnamento (invariabilmente basata su “nuove tecnologie” e “nuove metodologie”, per fare cosa non si sa…) significa non aver capito nulla della scuola, dei bisogni delle persone in crescita, di cosa siano il rapporto educativo e la rielaborazione culturale. A fare l’insegnante non è l’obbedienza ai dettami del suddetto ‘management’, ma lo stile di insegnamento unico e irripetibile in cui l’insegnante condensa la sua preparazione, la sua cultura e la sua umanità. È su questa base, e solo su questa base, che è possibile stabilire un rapporto con gli studenti (che sono persone a tutto tondo, non “utenti”), che sia fatto di ascolto, di dialogo, di trasmissione e condivisione di saperi e passioni culturali. È un’ovvietà dirlo, ma di questi tempi è indispensabile: si insegna ciò che si sa, ciò che si è, ciò che appassiona. È impossibile – qualunque “metodologia” si utilizzi – trasmettere una passione che non c’è a delle persone in crescita, per le quali l’apprendimento è legato inscindibilmente alla relazione, alla credibilità umana e all’autorevolezza delle persone che hanno di fronte.
Sull’ideologia delle “competenze”, ormai puro flatus vocis, che sostituisce qualunque sostanza educativa e culturale e trasforma gli insegnanti in burocrati certificatori (del nulla), così come sull’idea di scuola “erogatrice” di un servizio e degli studenti “utenti” preferisco soprassedere; se n’è già detto abbastanza. Sono mode e termini inutili di un’astratta ideologia del didattichese che si crede molto à la page e invece è già decrepita.
Come si fa a rendere attuale, per una classe terza di un istituto superiore, lo studio di poesie scritte molti secoli fa? In realtà, se si fa un po’ di attenzione, ci si accorge facilmente che i testi letterari, se sottoposti a un adeguato lavoro di interpretazione, sono quelli che si prestano meglio all’attualizzazione: è molto frequente che, con l’intermediazione dell’insegnante, indispensabile a sciogliere i nodi linguistici e concettuali più complessi, gli studenti possano trovare rispecchiati nei temi e nei modi espressivi della letteratura gli stessi contenuti interiori che li appassionano, li preoccupano, li paralizzano, li fanno soffrire. Niente di nuovo insomma: che la letteratura abbia un valore catartico si sa da sempre; solo negli ultimi decenni esperti di didattichese e di ‘competenze’ sembrano averlo dimenticato.
Faccio un esempio, esponendo in estrema sintesi i momenti fondamentali di un percorso tematico sulla poesia trobadorica.
Dopo un’introduzione generale, si procede ad una lettura antologica di testi che fa emergere una delle caratteristiche principali della poesia provenzale, cioè l’impegno richiesto all’uomo che voglia conquistare la donna di cui è innamorato. La pazienza, la fedeltà, la perseveranza, la forza di volontà, il coraggio, il rispetto, la discrezione sono qualità maschili (in alcune poesie anche femminili) senza le quali non è possibile alcuna conquista; proprio la presenza di queste qualità sembra colpire molto gli studenti di entrambi i sessi, specie quando essa viene collegata all’idea della gradualità del percorso amoroso, durante il quale l’uomo deve superare una serie di prove e ottiene dei segni progressivi di fiducia e di abbandono da parte della donna, dalla confidenza a parole fino al bacio e alla possibilità di un contatto fisico più intimo (anch’esso talvolta una prova, ad esempio quando viene concesso all’amante di dormire accanto all’amata senza toccarla). La gradualità della conquista, che prevede passaggi precisi e codificati, rappresenta un modo per unire nell’amore la dimensione fisica e quella spirituale: l’attesa alimenta eros e attrazione e costringe ad una sublimazione che rende l’amore una dimensione che coinvolge l’essere umano nella sua interezza e gli permette di coltivare nel tempo le sue migliori qualità, prima fra tutte la fedeltà all’amore;
Colpito dall’interesse mostrato dagli studenti per queste tematiche e già con un’idea di conduzione del dibattito in mente, chiedo alla classe se un modello di amore come quello provenzale sarebbe attuabile e auspicabile ai nostri giorni. Chiedo in particolare quali siano le differenze, secondo gli studenti, tra le modalità provenzali di vivere l’amore e quelle contemporanee. Alcuni maschi mi dicono subito che il problema è che le ragazze, a loro dire, si concedono troppo facilmente; le ragazze dicono che sono i maschi che vogliono tutto e subito. Tralasciando altri passaggi intermedi, la conclusione del discorso è che la conquista e il rapporto amoroso sono caratterizzati dalla fretta, basata su un terribile malinteso e un paradosso: ragazzi e ragazze “corrono”, bruciano le tappe, credendo ognuno di fare ciò che l’altro si aspetta, e che in realtà non vuole. I maschi, in particolare, riescono a confessare che questo ruolo maschile, di colui che ha sempre e comunque fretta, crea in loro un forte stato di ansia, che sarebbe evitabile attraverso una conoscenza paziente e graduale della ragazza di cui sono innamorati, con una progressione lenta della tenerezza e dell’intimità. Insomma, si mostrano piuttosto consapevoli del fatto che il ruolo maschile stereotipato a cui si sentono costretti non rispecchia ciò che vogliono davvero;
Per completare il discorso con il punto di vista femminile, espresso con più riservatezza, ricorro alla visione di un film, dicendo genericamente che è collegato alle tematiche letterarie affrontate, senza dire come. Il film è The breakfast club, un capolavoro assoluto nella possibilità di rispecchiamento e di identificazione con i personaggi che offre agli adolescenti e nelle emozioni e riflessioni che è capace di suscitare. In una scena del film, le due protagoniste, Claire ed Allison, in presenza dei maschi (i cinque protagonisti sono tenuti chiusi a scuola per l’intera giornata del sabato, a scrivere un tema e a riflettere su qualcosa di grave – non si sa cosa – che ciascuno di loro ha commesso), hanno un importantissimo dialogo: Allison finge di essere particolarmente disinibita, per costringere l’altra, Claire, a confessare se è mai stata con un ragazzo oppure no. Ad un certo punto (cito dal doppiaggio italiano) Allison dice pressappoco: “questa domanda è una trappola, se dici sì sei una puttana, se dici di no sei una suora”. Quando Claire perde il controllo e urla di essere vergine Allison, che si era finta ‘ninfomane’, risponde: “sono vergine anch’io, ma farei l’amore con un ragazzo che mi ama davvero”. A questo punto il dibattito in classe si sposta sulla falsa alternativa, che condanna sempre la donna, tra l’essere troppo poco disponibile o troppo disponibile. Il discorso ritorna circolarmente sulla poesia provenzale: tutti gli studenti convengono sul fatto che questa falsa alternativa possa essere superata attraverso l’idea ‘provenzale’ che l’amore fisico rappresenti l’ultima tappa di un percorso che preveda la scoperta dell’intimità attraverso l’amore e l’affetto, la conoscenza reciproca, una confidenza che cresca col tempo, man mano che l’altra persona si rivela degna di fiducia e di abbandono.
A volte, nel nostro lavoro di insegnanti, smarriamo il senso di quello che facciamo: presi da incombenze burocratiche di ogni tipo, ostacolati dalle stesse istituzioni che dovrebbero agevolarci, persi in griglie, programmazioni, valanghe di ‘adempimenti’ utili come scavare e riempire sempre la stessa buca, coinvolti in discorsi sulle ‘metodologie’ di insegnamento che non toccano più nessun contenuto, può capitarci ad esempio di dimenticare che leggere un brano letterario insieme agli studenti significa rispondere a una sfida, trovare ciò che esso ha di importante da dire, farlo parlare e ‘tradurlo’ in modo che possa portare qualcosa di nuovo nelle nostre vite, in termini di rispecchiamento, di emozione, di associazioni mentali inedite, di apertura di spazi imprevisti di pensiero. Può capitare appunto di perdere il senso di ciò che facciamo e, quel che è peggio, di trasmettere ai nostri studenti un penoso senso di inutilità che trasforma la letteratura – con tutta la sua forza vitale – in un grigio dovere burocratico. A volte questo accade anche perché un certo brano non ci piace e lo facciamo leggere senza convinzione, per presunte esigenze di programma; oppure perché forse noi stessi non lo abbiamo ben compreso in ciò che davvero ha da dire (non a caso, finché non è arrivata l’ubriacatura di burocrazia, certificazioni maniacali e scollate dalla realtà, discorsi del tutto astratti sul come insegnare, era ovvio che l’aggiornamento degli insegnanti dovesse riguardare prima di tutto i contenuti).
Confesso che, pur avendo un lungo passato da montalista, a me la poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”, celebre lirica degli Ossi di seppia, ha sempre fatto poco effetto, con quelle immagini del “male di vivere” e della “divina Indifferenza” che mi sembravano nient’altro che gelide astrazioni; soprattutto, non capivo il senso delle tre immagini della seconda strofa (la statua, la nuvola, il falco), che mi lasciavano – tanto per rimanere in tema – del tutto indifferente, finché…
Un giorno spiegavo questa poesia a un intelligentissimo studente, Giuseppe Valente (ne faccio il nome, tanto ormai è un amico); la prima quartina della poesia, a dire il vero, non presenta particolari problemi interpretativi:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Chiaramente, il male di vivere e il senso di morte si manifestano qui in un climax ascendente, che va dall’inorganico (il fiume che non riesce a scorrere), al vegetale (la foglia secca), all’animale (il cavallo morto).
I problemi arrivano con la seconda quartina:
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falcoalto levato.
A parte le ‘cruces’ interpretative più semplici, che riguardano il piano grammaticale e sintattico (“Bene” è avverbio o, com’è quasi ovvio, nome, “ciò che è bene”? È chiaro che è la “divina Indifferenza” a “schiudere” il “prodigio” e non viceversa…ma è davvero così chiaro?), i commentatori si chiedono da decenni cosa sia la “divina Indifferenza”: l’indifferenza di Dio? Un’indifferenza crudele che ha qualcosa di divino? E questa ‘indifferenza’ è da intendere in un’accezione positiva o negativa? Se la prima strofa mostra immagini del “male di vivere”, la seconda dovrebbe essere quella del positivo, o no? E le tre immagini giustapposte (la statua, la nuvola, il falco) in che rapporto sono tra loro? Perché sono accostate? Si tratta di un accostamento casuale, magari volto a suggerire la contingenza e l’insensatezza di tutto ciò che esiste?
Ecco che, in questa foresta di dubbi, cade l’osservazione geniale di Giuseppe: “Certo, la statua ha i piedi attaccati a terra, non si può muovere…”. “Vai avanti, e la nuvola?”. “La nuvola sì, si può muovere…”. “Beh, non allo stesso modo del falco”. “No, la nuvola è portata dal vento, non è libera…”. “E il falco?”. “Il falco sì, decide lui dove andare, va dove vuole lui…”. Ah, ecco cosa c’è nel cuore di questa seconda quartina, improvvisamente lo capisco anch’io: un altro climax con al centro la libertà, anzi, la Libertà, in senso metafisico, come continua ricreazione di nuove possibilità dell’essere (il cui equivalente fonosimbolico è l’armoniosa allitterazione nuVOLA-fALcO-ALtO-LeVATO, anch’essa una prodigiosa trasformazione e ricreazione nel crogiolo delle possibilità verbali). La successione statua-nuvola-falco è un’ascensione sulla scala della libertà, identificata con la possibilità del movimento, l’equivalente per immagini di un progressivo scioglimento dalle catene di ciò che è morto, ormai inanimato; ed ecco allora cos’è la “divina Indifferenza”: la forza vitale e creatrice che ci spinge avanti e fa sì che ci lasciamo alle spalle il peso di ciò che è già stato. L'”Indifferenza” porta con sé la possibilità di ri-creare sempre il futuro attraverso la scelta (la libertà d’altronde è sempre prerogativa divina), a partire da un passato che non imprigioni.
Questa poesia, nella successione delle sue immagini (anche senza che si conosca il milieu culturale in cui si muove Montale, il contingentismo filosofico, Boutroux, Bergson…), riesce a trasmettere il senso di una liberazione, a farci sentire una sensazione di alleggerimento del “male di vivere” attraverso la forza creatrice della libertà. Questo ha da dire Montale ad un tempo come il nostro, segnato da mille condizionamenti, tanto più potenti quanto più occulti. Adesso sì che mi piace spiegare questa poesia.