II tempo per imparare: corsivo, elementari e primaria

di Marco Cerase

Nel suo bellissimo e intelligentemente ironico articolo pubblicato su blog “La Nostra Scuola”, Silvia Contangelo affronta il problema della marginalizzazione del corsivo nella scuola elementare, nel filone delle recenti e purtroppo ancora minoritarie prese di posizione e ricerche scientifiche che ne rivalutano l’importanza.

In particolare l’articolo mette in evidenza come questa marginalizzazione abbia di fatto soffocato un ricco corpus di pratiche didattiche messe in atto per decenni, con successo, dalle insegnanti e dagli insegnanti di quella scuola elementare che, come indicava il suo vecchio nome, aveva lo scopo per fornire agli alunni gli “elementi” di conoscenza basilari per la loro cittadinanza e per il proseguimento degli studi.

Le nuove prassi didattiche della attuale scuola primaria sembrano invece costituire un impoverimento rispetto alle vecchie, all’interno di un cambiamento di paradigma che ha origine nell’evoluzione tecnologica e nel suo carattere totalizzante. Le tecnologie, da sempre, portano a una semplificazione dei vari aspetti della vita; negli ultimi cinquant’anni il loro sviluppo esponenziale si è riverberato nel settore educativo, senza che questo avesse il tempo di metabolizzare la nuova situazione ed adeguarsi, al di là di una fideistica e acritica adesione che, ad esempio, ha portato alla sostituzione delle lavagne di ardesia prima con le ingombranti LIM e poi con i nuovi “tablettoni”, cioè i monitor touch-screen, totem della presunta inattualità, se non impossibilità, di un apprendimento che non sia digitalmente mediato.

La dipendenza dalle tecnologie ha portato a una crescente e dogmatica insofferenza nei confronti della complessità, dell’intermediazione, dello sforzo e degli “attriti” caratteristici di tutte le pratiche, comprese quelle sociali, relazionali e pubbliche, che hanno avuto origine in epoca anteriore a quella digitale, illudendoci che la soddisfazione di ogni nostro bisogno sia a portata di click. Per “attriti” intendo tutte quelle resistenze che incontra una persona, o anche un sistema, che deve adattarsi all’ambiente, che ancorano lo sforzo a qualcosa di concreto e sui quali si basa anche la soddisfazione per il superamento: banalmente ricordo che, senza attriti, sarebbe impossibile anche il semplice camminare.

Tale insofferenza si è riverberata anche nella scuola primaria, proprio in un periodo dello sviluppo in cui invece sarebbe necessaria una maggiore interconnessione, anche neuronale, che si acquista solo tramite l’esercizio paziente e ripetuto, tramite lo sforzo, in definitiva tramite gli attriti: il corsivo è stato tra i primi apprendimenti a farne le spese, giudicato “vetusto”, troppo difficile, un’inutile perdita di tempo, poco inclusivo e addirittura d’intralcio per gli apprendimenti, in una contrapposizione tra la pazienza necessaria al suo insegnamento/apprendimento e la eterna frenesia di approdare a i nuovi argomenti previsti dalla programmazione didattica.

Non si può non essere d’accordo con la sagace autrice dell’articolo sul fatto che una certa pedagogia ufficiale e totalitaria sulle metodologie di insegnamento innovative, inclusive e tecnologiche abbia spazzato via un patrimonio di pratiche, specie alla primaria, che non è stato né preso in considerazione né adeguatamente sostituito.

La vittoria dell’ortodossia delle “corrette pratiche” sulla presunta barbarie di quelle precedenti, tra cui il corsivo, ha portato a dare per scontata o generalizzata una presunta incapacità dei seienni di apprendere contemporaneamente i quattro stili di scrittura: la classica profezia che si autoavvera, come giustamente nota l’autrice, e che secondo molti ha portato un impoverimento, questo sì generalizzato, delle capacità non solo grafiche, ma anche cognitive, di un’intera generazione.

Inoltre, dal 2012 la scuola primaria deve fare i conti con delle indicazioni nazionali elefantiache che hanno moltiplicato traguardi e obiettivi, frammentando conoscenze, competenze e abilità in un pot-pourri privo di gerarchie, che non tiene conto dei ritmi di apprendimento dei bambini e neanche di quali siano le cose che a loro serve davvero imparare, per poi poterne imparare di più complesse. Le maestre e i maestri di oggi, privati dal necessario travaso di esperienze da parte dei colleghi più anziani (non adeguatamente sostituito dai corsi universitari di SFP), spesso non riescono a star dietro a questo lunghissimo elenco di cose da fare e non trovano il tempo e l’energia per portare tutti gli alunni ad un’effettiva padronanza delle conoscenze che consentano loro di affrontare con profitto le attività successive, a partire dal corsivo per continuare con tutte quelle vecchie e aborrite pratiche come le tabelline, il dettato, il riassunto, le poesie, le filastrocche mnemoniche e così via.

Qualcuno che avrà avuto la pazienza di leggere tutto l’intervento penserà che io sia dell’idea che basti ritornare alla scuola di cinquant’anni fa per sistemare tutto. Non è così, perché il contesto culturale, economico, sociale, politico, tecnologico è profondamente cambiato. Non si può però non osservare come quella parte positiva delle pratiche tradizionali dell’insegnamento, come il corsivo, che comporta il rispetto dei tempi ottenuti attraverso una individualizzazione non solo formale degli insegnamenti, siano state spazzate via, senza adeguata riflessione né adeguata sostituzione.

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Nota: l’articolo cui qui si fa riferimento è

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