Il PNRR e le ragioni del Liceo Albertelli

Pubblichiamo qui l’importante documento con cui i genitori del Liceo Pilo Albertelli di Roma hanno spiegato le motivazioni della bocciatura, da parte del Consiglio d’Istituto, del PNRR che si voleva imporre loro. Si è trattato di un gesto simbolico di grande importanza, in un contesto di analoghe forzature imposte frettolosamente dall’alto, in una prospettiva di mutamento e stravolgimento della natura dell’istruzione pubblica del nostro Paese. In questo stravolgimento è molto difficile ravvisare motivazioni di ordine didattico, culturale, educativo, ed è quasi inevitabile ipotizzare l’esistenza di altre motivazioni.

NOTE DEI RAPPRESENTANTI GENITORI SUL PROGETTO “SCUOLA 4.0”

Il 4 maggio scorso il Consiglio d’Istituto della nostra scuola ha discusso due progetti per il Piano “Scuola 4.0, Labs e Classrooms” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
I due progetti, che portano la data del 24 e 25/02/2023, sono stati elaborati personalmente dal Dirigente Scolastico e sono stati portati a conoscenza dei consiglieri di istituto solo il 28/04/2023; non erano stati sottoposti al Collegio dei Docenti e neppure alla competente commissione nominata dallo stesso Collegio dei Docenti; su richiesta di uno studente, il Dirigente Scolastico ha spiegato di non aver coinvolto gli studenti in quanto la loro partecipazione non era prevista in questa fase.
Dopo un’approfondita discussione, i due progetti sono stati respinti con 7 voti contrari (4 docenti, 1 studente, 2 genitori), 2 favorevoli (dirigente scolastico e 1 genitore) e 4 astenuti (3 studenti, 1 personale ATA).
Riassumiamo qui le ragioni per cui abbiamo valutato che fosse necessario esprimere un voto contrario, nell’interesse formativo dei nostri figli/e e per difendere il ruolo che la Costituzione attribuisce alla scuola, dando così seguito agli intenti sulla base dei quali siamo stati eletti 1

I finanziamenti europei del PNRR non hanno l’obiettivo di prendersi carico delle necessità impellenti della scuola italiana e risolverne i problemi storici: l’abbandono elevato, le carenze edilizie, l’assenza di manutenzione e sicurezza, le classi sovraffollate, la precarietà permanente di docenti e personale ATA, la mancanza di spazi idonei per la didattica ordinaria, ecc. restano inevasi, anzi si aggravano poiché le risorse vengono destinate unicamente alla nuova tumultuosa emergenza “innovazionista”.


I due progetti per l’Albertelli2

  1. Next Generation Labs. Questo progetto prevede lo sviluppo delle “professioni digitali del futuro” che gli studenti del Liceo Albertelli dovrebbero acquisire: “esperti in Video Making, Produttori di Musica Digitale, Curation Manager (cura le nuove uscite nelle playlist, sic), Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor, Digital Media Curator…”. Secondo il testo del progetto, le relative “competenze digitali specifiche” sono: “saper girare video con uno smartphone, saper realizzare filmati e pillole per i social con attenzione crescente ai contenuti per le Instagram stories, saper analizzare i dati e i trend di ascolto streaming dei brani musicali…”. Per queste nuove competenze si sarebbero spesi 124 mila euro, di cui oltre 12.000 per “progettazione, spese tecnico-operative e per gli obblighi di pubblicità”: crediamo che esse mostrino un’estrema povertà di contenuti e stridano con gli obiettivi di un liceo, cioè insegnare a tradurre dal greco, a comprendere la storia e la fisica, avere una capacità critica e un metodo di studio, non a usare Spotify e Instagram.
  2. Next Generation Classroom. Prevede l’acquisto di digital board, tablet e stampanti al fine di trasformare le aule scolastiche in “ambienti ibridi” di apprendimento: questo nuovo assetto dovrà determinare a cascata “innovazioni organizzative, didattiche, curricolari, metodologiche” che si adeguino alla “velocità delle comunicazioni” che caratterizza la nostra società. Molte parole vengono spese “sul benessere emotivo e lo stimolo relazionale, sullo sviluppo dell’empatia” degli studenti o sul “rendere protagonista l’alunno che si avvicina sempre di più alla scelta consapevole del proprio ruolo nella società”, senza che però vi sia alcuna spiegazione o evidenza su come i dispositivi digitali possano concorrere a questi obbiettivi. Neanche una parola invece è riservata alla profondità delle conoscenze che sono necessarie per comprendere – e non solo subire – una società sempre più complessa.
    La nostra scuola è già dotata di 41 smart TV, 7 proiettori, 49 PC Notebook, 41 PC Desktop: pertanto ci sembra irrazionale ed antieconomico sobbarcarsi collettivamente un debito di circa 150.000 € (di cui 15.000 solo per spese di “progettazione, tecnico-operative e per gli obblighi di pubblicità”) per ulteriori attrezzature multimediali che hanno una vita media brevissima e che quindi acuiscono, anziché arginarla, la percezione di vivere in un mondo effimero.

Non abbiamo quindi di fronte un finanziamento per dotazioni tecnologiche, ma un progetto di stravolgimento della scuola, che si focalizza sull’“aspetto professionale” (v. Labs) e su quello “accattivante e ludico” (v. Classrooms). Tramite Labs si scardina e svilisce il lavoro sistematico con continue interruzioni e con una visione che inchioda le giovani generazioni al ruolo di “forza-lavoro” priva di qualsiasi autonomia. Tramite Classrooms si punta a disarticolare il gruppo-classe, dimenticando che la formazione è un processo a cui concorrono molteplici fattori: propedeuticità tra argomenti; ritmo tra studio, esercizio, ripasso, elaborazione autonoma (non solo la propria ma anche quella che si sviluppa nel confronto con i pari); riferimenti continui alle comuni esperienze pregresse. L’apprendimento è un fatto collettivo; se viene meno la classe, viene meno il lavoro per “andare avanti insieme” grazie alle, diversità.

Crediamo che il miglioramento della didattica passi per ben altre vie e che l’attenzione spasmodica alla digitalizzazione significhi da un lato la riduzione tout court dell’importanza delle discipline umanistiche, della storia e della formazione del pensiero, dall’altra impoverimento e banalizzazione dello studio delle scienze, che rischia di ridursi ad un insieme precetti. Qualunque professione, presente o futura, necessita della premessa di un’istruzione seria, che anzitutto assicuri le conoscenze essenziali, che insieme appassioni e abitui alla chiarezza intellettuale: la formazione professionale degli studenti viene solo dopo la formazione integrale di base e per essa ci sono fior di corsi post-secondari o post-universitari.

La proposta che abbiamo respinto serve a formare acritici operai del digitale, togliendo tempo e risorse dalle conoscenze fondamentali, e disinvestendo sulla necessità di dare la preparazione necessaria per affrontare gli studi che consentano di comprendere e costruire le tecnologie del futuro e la complessità del mondo.

I punti salienti del Piano Scuola 4.0
Il Dirigente Scolastico non ha avuto margini nell’elaborare il proprio progetto: infatti il PNRR Scuola (elaborato da una società di consulenza nel settore dell’economia e della gestione delle risorse) è “un programma di performance” con traguardi a cui le scuole sono “funzionalmente vincolate” e che devono essere strutturate secondo precise istruzioni 3.

Obiettivo dichiarato ripetutamente è di accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana in tutte le diverse dimensioni e allinearlo alle priorità definite dall’OCSE. Questo organismo economico definisce cosa devono essere gli “ambienti di apprendimento innovativo”, nei quali non esiste più il gruppo classe e si deve andare oltre i contenuti. Si devono configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido con esperienza immersiva in realtà virtuali e la possibile fruizione a distanza di tutte le attività didattiche 4.

Quale pedagogia?
Tutte le affermazioni “pedagogiche” riportate nel Piano sono prive di argomentazioni e fonti; un documento così fondamentale non contiene bibliografia ma solo sei citazioni, di cui una del World Economic Forum e tre dell’OCSE (organismi economici senza competenze didattiche o pedagogiche). Uno dei due testi citati come riferimento pedagogico sostiene idee molto diverse da quelle sottese al Piano Scuola 4.0: “il contenuto è cruciale per ogni insegnare e imparare” e tutte le forme di “pedagogia innovativa” sono sperimentali, da perseguire con grandissima attenzione e senza improvvisazione 5: il contrario di quanto sta avvenendo in Italia da alcuni decenni con l’idea che innovare nell’istruzione significhi mettere da parte le conoscenze, per sostituirle con le “competenze”. In merito, va evidenziato l’abbassamento dei livelli di formazione avvenuta in Italia proprio in tale periodo, in seguito al processo di standardizzazione, di progressiva digitalizzazione e di applicazione del modello aziendalista nelle scuole.

Digitalizzazione: per cosa?
La digitalizzazione dell’apprendimento quali effetti può avere su bambini ed adolescenti, e quale finalità persegue?
Un documento del Senato, dopo un’indagine conoscitiva approfondita afferma:
… Dal ciclo delle audizioni svolte e dalle documentazioni acquisite, non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri.

A questo si aggiungono i gravi danni fisici (“miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete”) e psicologici
(“dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia”) e “la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica…” 6

Persino la stessa OCSE a settembre 2015 ha pubblicato un corposo studio in cui si riconosce che “nonostante i considerevoli investimenti in computer, connessioni Internet e software per uso didattico, ci sono poche prove concrete che un maggiore uso del computer tra gli studenti porti a punteggi migliori in matematica e in lettura”; in particolare, dai dati PISA 2013 emerge che nei paesi in cui è meno comune per gli studenti utilizzare Internet a scuola per i compiti, le prestazioni in lettura sono migliorate più rapidamente rispetto ai paesi in cui tale uso è in media più comune, e che i livelli di utilizzo dei computer al di sopra dell’attuale media OCSE sono associati a risultati significativamente inferiori 7.
Nel Piano si fa ripetutamente riferimento alla Didattica a Distanza e alla Didattica Digitale Integrata come orizzonte applicativo delle tecnologie, nonostante l’esperienza disastrosa sperimentata negli scorsi anni.

Modificando gli apprendimenti si snatura la funzione costituzionale della scuola
L’innovazione tecnologica appare così un metodo che punta a incidere sugli insegnanti: il Piano si propone di insegnare loro ex novo come esercitare la propria professione attraverso la formazione obbligatoria, dal momento che il loro bagaglio professionale non risulterebbe più adatto ai nuovi ambienti di apprendimento. Li si vuole vincolare alla cosiddetta didattica per competenze, alla standardizzazione valutativa e creare un assetto gerarchico nel quale si introducono referenti di progetti, docenti orientatori e una “leadership pedagogica” automaticamente selezionata secondo criteri di affidabilità e di fedeltà incondizionata alla transizione digitale.

La progettazione degli ambienti di apprendimento innovativi (Next Generation Classrooms) e dei laboratori per le professioni digitali del futuro (Next Generation Labs) comporta un ripensamento di tempi, funzioni personali, relazioni e risorse e si prefigge di connettere ancor più strettamente la scuola agli imperativi economici e alle esigenze dell’attuale mercato del lavoro (non di quello futuro, aleatorio e imprevedibile), consentendo agli attori imprenditoriali di gestire in primis aspetti centrali della vita scolastica attraverso ingenti finanziamenti pubblici per la fornitura di macchine, formazione e consulenza.
È conclamato lo slittamento definitivo da una “Scuola della Costituzione”, che ha il fine ultimo di fornire la conoscenza capace di favorire un pensiero critico, autonomo e democratico, ad una tecnocrazia educativa che mira ad addestrare, non tanto “al lavoro”, ma “alle condizioni in cui si esercita il lavoro”: sottopagato, privo di diritti, precario, svuotato di creatività. Non a caso nei documenti ministeriali degli ultimi anni gli studenti vengono sempre più spesso definiti “capitale umano”, cioè come una sommatoria di competenze singolarmente misurabili e certificate per l’accesso al lavoro.
Siamo di fronte ad un processo profondamente politico che impone “il più grande intervento trasformativo del sistema di istruzione”8 attraverso dispositivi legislativi d’urgenza che azzerano il dibattito parlamentare. Esso modifica i rapporti tra scuola, stato e privati, sottraendo la ripartizione di risorse pubbliche alla possibilità di accertamento e controllo da parte dei soggetti direttamente interessati, esternalizza le credenziali educative pubbliche con connessa tracciabilità individuale e consolida processi verticistici che riducono il confronto dialettico, comprimendo ulteriormente la partecipazione collegiale.

I finanziamenti per il PNRR
I finanziamenti legati al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) sono in grandissima parte soldi già nostri (il bilancio UE è alimentato dai trasferimenti degli Stati membri) che ci vengono elargiti a prestito per introdurre riforme e realizzare progetti decisi a livello europeo da organismi economici (in primis l’OCSE). Circa i 2/3 dei 191 miliardi per
l’Italia dovranno essere restituiti con tanto di interessi: ogni euro speso, pertanto, graverà sulle spalle dei nostri figli e nipoti in termini di debito pubblico e di futuri tagli a beni e servizi pubblici.

Vi invitiamo a parlarne all’assemblea dei genitori, aperta a tutte le componenti della scuola, convocata per giovedì 18/05/2023 alle ore 17.

Roma, 14 maggio 2023

Francesco Paolo Caputo, Serena Iacovelli
(rappresentanti dei genitori in Consiglio di Istituto eletti nella lista n.2)

Note:

https://piloalbertelli.it/wp-content/uploads/Documento-presentazione-lista-CdI-Albertelli-genitori.pdf).

https://piloalbertelli.it/wp-content/uploads/Progetto-PNRR-LABS.pdf e https://piloalbertelli.it/wp-content/uploads/Progetto-PNRR-CLASS.pdf

3 Istruzioni Operative, pag. 8. https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2022/09/m_pi.AOOGABMI.REGISTRO-
UFFICIALEE.0107624.21-12-2022.pdf

4 Piano Scuola 4.0 pagg. 13 e 15

5 Paniagua, A. e Istance, D. (2018), “Teachers as Designers of Learning Environments: The Importance of Innovative Pedagogies,
Educational Research and Innovation”, OECD Publishing, Paris.

6 Documento approvato dalla 7a Commissione Permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) nella seduta del 9 giugno 2021
“Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento” – XVIII Legislatura – Disegni di
Legge e Relazioni – Documenti – doc. XVII, n. 2

7 OECD (2015), Students, Computers and Learning: Making the Connection, PISA, OECD Publishing.
http://dx.doi.org/10.1787/9789264239555-en

https://www.miur.gov.it/-/pnrr-al-via-il-piano-scuola-4-0-2-1-miliardi-per-100-000-classi-innovative-e-laboratori-per-
le-professioni-digitali-del-futuro-bianchi-in-atto-il-piu-

Qualche appunto sugli aspetti psicologici del voto

Sintetizziamo qui alcune riflessioni emerse in un incontro del nostro gruppo con lo psicoanalista Alessandro Zammarelli (SIPre-Società Italiana di Psicoanalisi relazionale):

Il voto, se usato bene e adeguatamente motivato, può essere un ottimo strumento della relazione perché richiede, ‘chiama’ un completamento, l’integrazione individualizzata da parte dell’insegnante all’interno della relazione stessa. Accade o dovrebbe accadere questo: io, insegnante, mi prendo la responsabilità di assegnare quel voto proprio a te, singolarmente, e ti dico da dove arriva, cosa significa, cosa va bene nel lavoro che hai fatto e cosa può essere migliorato. Tra l’altro, nel caso in cui il voto provochi una piccola frustrazione, mi occupo anche di riparare quella frustrazione proprio con la spiegazione, la fiducia, l’incoraggiamento e le indicazioni su cosa migliorare.

Al contrario, una tabella impostata (e imposta) in astratto da qualcuno esterno alla relazione educativa, ad esempio con l’indicazione di livelli di “competenze”, dà l’illusione di una spiegazione – e quindi la presenza dell’insegnante, che è l’unico che può dare una spiegazione personalizzata, viene resa inutile – senza in realtà spiegare e chiarire nulla, fornendo una diagnosi burocratica che non ha niente a che fare con la singolarità dello studente e il suo modo di lavorare, otturando lo spazio della relazione con parole e formule uguali per tutti.

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Altre considerazioni dopo un confronto sulla questione del voto con lo psicoanalista Luigi Carbone (Docente de Lo spazio psicoanalitico di Roma):

Gli insegnanti, a parte forse qualche caso di persona del tutto inadatta al compito che è chiamata a svolgere, non assegnano voti per ingenerare ansia e frustrazione negli studenti (quello dell’insegnante sadico è un fantasma persecutorio che viene agitato demagogicamente per cercare di dividere gli insegnanti da genitori e studenti e per arrivare a certi risultati di destrutturazione della scuola pubblica graditi al potere politico); semmai, nella stragrande maggioranza dei casi, aiutano a contenere e abituano a gestire l’ansia e la frustrazione di fronte a quello che è un dato di realtà che non va nascosto agli studenti, il fatto ad esempio che ciò che si è appreso in termini di conoscenze e di abilità non è ancora sufficiente alla prosecuzione del percorso e che il lavoro svolto, per qualche motivo che va accuratamente spiegato, deve essere migliorato.

Per dirla in altri termini, abituare ed aiutare un ragazzo ad affrontare gradualmente e a gestire frustrazioni e ansie che fanno parte della realtà – e non sono inventate e inflitte ad arte dagli insegnanti, come qualcuno vorrebbe far credere – è un esercizio e un’esperienza che servirà per tutta la vita che, in quanto vita, richiede la capacità di confrontarsi in maniera equilibrata anche con le frustrazioni.

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Ulteriori considerazioni

Fa comodo a tanti far pensare che ragazzi con genitori inesistenti, che vivono una profonda confusione ed enormi vuoti interiori, isolati e privati della socialità in nome di un individualismo egoista che ammorba relazioni e affetti, incollati a uno smartphone attraverso social pensati per drogare l’attenzione e produrre dipendenza, spinti a stare lontani da qualunque forma di cultura e di introspezione, circondati da adulti irresponsabili incapaci di parlare loro e dal deserto della politica, ridotti a utenti e consumatori solitari (i più graditi al mercato), abbandonati a se stessi, futuro “capitale umano” cui non viene offerto nessun futuro lavorativo ed esistenziale, soffrano a causa dei voti scolastici.

La sofferenza e l’ansia di fronte a dei normali voti, che accompagnati da una spiegazione rappresentano solo un’indicazione sul lavoro svolto a scuola (a meno che, si intende, non siano caricati di eccessive aspettative da parte delle famiglie), sono un sintomo che andrebbe ascoltato, l’ultimo anello di una catena di fragilità, di mancanza di affetto e di significato che nessuno ha interesse a indagare davvero, non certo il problema in sé. Anzi, si potrebbe dire che l’eliminazione del voto farebbe aumentare, anziché diminuire, il senso di confusione e toglierebbe al contesto scolastico un’altra parte della sua capacità di contenere l’ansia attraverso la chiarezza di indicazioni e confini.

Gruppo La nostra scuola
Associazione Agorà 33

La finta questione del voto

di Silvia Elena Di Donato

In merito al dibattito sull’abolizione del voto provo a contribuire con qualche riflessione.

A me sembra che l’obiettivo vero a cui dall’alto mirano sia affidare la valutazione ad enti certificatori esterni ed arrivare alla abolizione del valore legale del titolo di studio, con tutto quello che questo implica a livello sociale, politico e culturale… Per questo è in atto da tempo una propaganda subdola a cui si prestano in troppi, più o meno consapevolmente, per vari scopi anche personali, e che sfrutta strumentalmente a questo fine anche le fragilità dei ragazzi, da ascrivere a ben altre ragioni e non certo al voto, e con costante velenosa delegittimazione in sottotraccia dei docenti.

Non credo che il passaggio dai decimali ai livelli sia la via giusta per rendere più efficace il lavoro dei docenti, né per sviluppare maggiore consapevolezza e motivazione negli studenti. Per lo meno nella scuola secondaria di seconda grado, che costituisce il perimetro della mia esperienza. Del resto, tutte le ricerche pedagogiche in merito, da quanto ho verificato, sostengono che la motivazione allo studio c’entri poco o nulla con il voto; dunque perché concentrarsi sull’eliminazione del decimale se si ritiene che non sia l’elemento determinante? La valutazione formativa non è certo automaticamente garantita dall’uso di rubriche, livelli, colloqui o registri specifici, né è automaticamente impedita dall’uso dei decimali. La questione attiene invece, a mio avviso, a “come” il docente adopera qualsivoglia tipologia di valutazione e ciò non può che risiedere nella deontologia professionale e non negli strumenti. La valutazione è sempre formativa e sempre così l’ho intesa ed usata nel corso della mia carriera da insegnante, così come ha fatto e fa la quasi totalità dei miei colleghi. Il decimale in itinere relativo alle prestazioni è sempre accompagnato da una griglia di valutazione con descrittori chiari, relativi a conoscenze e processi, e da un momento di colloquio di restituzione; il decimale sommativo di fine periodo non è mai una media matematica da bilancino, è invece corredato di un giudizio esplicativo e motivato che considera non solo le singole prestazioni, ma il profilo generale dello studente, i progressi, i processi, le disposizioni ad agire. Dunque, il voto non è né un “atto violento”, né un “esercizio di potere”, come purtroppo ho sentito sostenere da taluni che si occupano di valutazione da cattedre universitarie senza, forse, aver mai impastato il pane quotidiano dell’apprendimento tra i banchi con e per i ragazzi. Spiace, inoltre, constatare come a volte certe posizioni tendano subdolamente ad alimentare una narrazione distorta del lavoro e della (in)adeguatezza degli insegnanti.

Se negli studenti c’è ansia da prestazione, essa è dovuta al fatto in sé che ci sia una valutazione, non alla tipologia di valutazione; dunque, per aiutarli davvero a maturare e a gestire l’emotività non serve, a mio parere, sostituire i numeri con i livelli, ma occorre seguire altre vie ben più efficaci per accompagnarli in un percorso di consapevolezza e crescita personale.

Resta allora una questione: quale paradigma di riferimento vogliamo interpretare e fare nostro? Io credo che ogni docente debba scegliere da sé, innanzitutto perché l’arte e le scienze sono libere e libero ne è l’insegnamento, in secondo luogo perché per i ragazzi è una enorme ricchezza sperimentare e confrontarsi con diversi modelli d’insegnamento, e in ultimo perché penso che non ci sia un paradigma in assoluto migliore di un altro, se non quello del profondo amore e della passione verso la conoscenza, verso i propri studenti e verso il proprio lavoro.

Pochi giorni fa ho letto il post di un preside che sostiene che l’idealtipo del docente sapiente è anacronistico; in un altro post, un altro preside sosteneva che è errata l’idea che un docente debba “solo” insegnare (virgolettato mio); leggo alcuni che pontificano dalle loro cattedre e dai corsi di formazione contro le conoscenze e in favore delle competenze (ma attenzione che siano le soft skills!), contro il voto e in favore di una valutazione formativa con feedback (Che scoperta! Come se noi docenti attualmente valutassimo lanciando i dadi!), e via dicendo con roba di questo genere… A me, francamente, sembra che tutto questo sia fuffa, ma fuffa pericolosa, volta a disinnescare gli effetti dell’istruzione pubblica e di qualità aperta a tutti, così chi ha mezzi propri può istruirsi in canali elitari e chi non ne ha resta svantaggiato e privo di reali opportunità. E la cosa più triste è che molti sostenitori di queste “posizioni innovative” si richiamano al valore dell’inclusione e magari si sciacquano pure la bocca citando Don Milani.

La scuola e i processi evolutivi dell’adolescenza

Spunti di riflessione emersi durante i gruppi psicologici dell’associazione La nostra scuola, rielaborati da Luca Malgioglio (insegnante) e Alessandro Zammarelli (psicologo clinico, psicoterapeuta, psicoanalista SIPre – Società Italiana di Psicoanalisi relazionale)

Quello che ha fatto tanto soffrire gli adolescenti durante il periodo del lockdown è stata la mancanza della possibilità, nel passaggio evolutivo fondamentale che caratterizza questa età, dello spostamento dal ‘dentro’ del mondo e delle relazioni familiari al ‘fuori’ del gruppo dei pari. La funzione del gruppo dei pari è fondamentale, perché nei coetanei l’adolescente può guardare dall’esterno e comprendere negli altri, rispecchiandosi in loro, le stesse dinamiche che vive confusamente all’interno e a cui cerca di dare faticosamente un senso. Un adolescente cui questo ‘fuori’ venga impedito, viene bloccato nel suo normale sviluppo evolutivo, con le dinamiche depressive che ne conseguono.

Allo stesso tempo, per le persone in crescita, è fondamentale il ritrovarsi in un contesto esterno che educhi attraverso regole sensate e motivate, di cui i giovanissimi possano riconoscere la giustezza (anche quando le trasgrediscono, il che li porta a chiedersi: “Perché non riesco a rispettare una regola che riconosco di buon senso e che gli altri rispettano senza difficoltà”?): questa possibilità di avere confini e limiti fa diminuire l’angoscia, rassicura e apre spazi alla libertà di pensare.

In questo, la funzione delle figure adulte è fondamentale. I ragazzi, nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, sono chiamati per proprio compito evolutivo a rinegoziare i limiti, in virtù dello spostamento della loro attenzione da un contesto quasi esclusivamente familiare a un contesto di gruppo esterno. Questa necessità di rinegoziare i propri limiti si associa a una necessità di sperimentare ed esplorare il mondo. Teniamo presente che i cambiamenti biologici, fisiologici e ormonali operano un cambiamento nell’immagine di sé: non si è più bambini e non si è ancora adulti. In questa nuova veste è comprensibile che il giovane, in un nuovo ambiente, il sociale, tenti di forzare regole, limiti e convinzioni comuni. Ed è un bene, almeno fino a che questa sperimentazione non diventa distruttiva. Proprio per questo, nella fase di crescita adolescenziale, occorrono adulti consapevoli capaci di osservare i giovanissimi con attenzione, discrezione e rispetto, sapendo cioè quando è il momento di intervenire e quando è giusto lasciar vivere loro le esperienze. La capacità di distinguere i due momenti non è data a priori, si costruisce con il tempo e l’esperienza e non è facile da apprendere.

Se esiste una regola, per quanto giusta, l’adolescente tenterà di forzarla, anche semplicemente per accertarsi di persona della sua validità. Per un adolescente che si interroga sulla vita, sul destino, sul futuro e sul passato in modo nuovo, tutto deve essere testato personalmente. Noi lo osserviamo da lontano, mentre talvolta va leggermente fuori strada, e lo osserviamo mentre soffrendo riprende la via; interveniamo se la macchina ha perduto il controllo. È molto più difficile osservare la crescita dalla giusta distanza che intervenire sempre e comunque: l’osservazione attenta ma rispettosa richiede infatti che l’adulto abbia a sua volta elaborato i propri contenuti interiori e i suoi conflitti. Osservare da lontano non significa però sparire, abbandonare; significa essere più che presenti, e quando questo avviene i ragazzi lo sanno, lo sentono.

ln questo senso il rapporto con gli insegnanti è benefico di per sé e indispensabile alla crescita, visto il bisogno di bambini e adolescenti di trovare figure di riferimento adulte positive al di fuori delle dinamiche familiari; il che non significa che gli insegnanti debbano assumere la funzione di psicoterapeuti, cosa che non possono e non devono fare, per non alimentare la confusione di ruoli e non essere risucchiati in dinamiche che non hanno gli strumenti per gestire (infatti, visto l’aumento di casi gravi di disagio, gli psicoterapeuti dovrebbero esserci sempre in tutte le scuole, in una giusta divisione dei ruoli); però gli insegnanti, entrando in relazione con i giovanissimi, divenendo un punto di riferimento importante, attraverso regole motivate e la proposta di conoscenze che aiutino a pensare, danno agli studenti una possibilità indiretta ma preziosissima di elaborare le proprie dinamiche interiori entro dei limiti dati, che facciano diminuire l’angoscia della confusione. La relazione con il gruppo dei pari e quella intergenerazionale con adulti esterni alla sfera familiare, veicolata dal lavoro comune su conoscenze e contenuti culturali significativi, sono entrambe fondamentali in queste fasi di crescita e di passaggio.

A fronte di queste riflessioni si capisce meglio che quello di cui si parla tanto, il presunto potere educativo degli “ambienti di apprendimento innovativi”, – che sembra attribuire agli oggetti con cui ci si dovrebbe relazionare caratteristiche umane, come avviene nella schizofrenia – così come un “apprendimento autonomo” che lascia i giovanissimi da soli con se stessi (fino ai deliri sulla didattica incentrata sui visori e il multiverso), e ancora l’incredibile formula delle “competenze non cognitive”, che propongono un paradossale percorso inverso a quello di ogni psicoterapia (che consiste invece nel diventare progressivamente consapevoli delle proprie emozioni e dei propri vissuti interiori), sono i segni di un sistema adulto profondamente malato, che è disposto a sacrificare al profitto (perché soprattutto questo c’è dietro la retorica degli “ambienti di apprendimento innovativi”) le esigenze della crescita e la salute mentale dei giovanissimi.

La non-scuola vista dall’interno: le parole di un insegnante

di Enrico Campanelli

In questa intervista ho cercato di raccontare come dalla mia esperienza di insegnante è nata la mia critica al modello attuale di scuola, come ho incontrato il Gruppo La nostra Scuola, come ho trovato in esso tante persone appassionate e una grande occasione di approfondimento, di studio e di lotta. Cerco di raccontare in modo semplice e concreto come la prospettiva aziendalista gravi pesantemente sulla scuola di oggi, rischiando di distruggerla, e come invece la visione alternativa proposta dal nostro gruppo tramite l’Associazione Agorà 33 cerchi di restituire alla scuola la sua funzione essenziale: quella di formare persone istruite, critiche e libere.

https://scuolanews.org/2023/01/26/enrico-campanelli-la-bellezza-di-insegnare-per-una-scuola-moderna/

Ripensare la valutazione?

di Renata Puleo

Propongo alcune riflessioni a margine di due incontri il cui tema ruotava attorno alla valutazione “descrittiva-formativa-educativa” al cui nucleo sta l’eliminazione del voto numerico come misura, voto che ritorna, per obbligo giuridico, nella valutazione intermedia e finale, nonché con le somministrazioni rituali delle prove INVALSI (Assemblee pubbliche rispettivamente all’IC Iqbal Masih e all’IC Di Donato di Roma: registrazione personale del primo; su canale youtube il secondo Scuola e Valutazione, organizzato da <<Apriti Scuola>>). 

Poiché dell’oggetto degli incontri ho parlato e scritto con altri (https://www.roars.it/voto-si-o-voto-no-e-questo-il-problema/), richiamo solo una questione, mentre dedico qualche parola alle prove INVALSI, vero e proprio convitato di pietra dei due incontri.

Chiamare le cose con il loro nome

Come ormai si sa, dato il clamore mediatico (https://video.corriere.it/scuola/liceo-senza-voti-senza-stress-ecco-come-funziona-morgagni-roma/2e23ca92-7623-11ed-8b31-7101dab59dee#:~:text=Il%20liceo), l’esperienza Scuola delle relazioni e delle responsabilità, è stata avviata in un ciclo/classe (non tutto l’istituto) al Liceo Morgagni di Roma. Riprendo alcune perplessità su questa esperienza che, con qualche tratto di arroganza, e forse un po’ di buona fede ed entusiasmo, è stata definita sperimentazione. La scuola italiana è solita usare impropriamente questa definizione ogni qual volta si mette mano a una qualche innovazione, a un cambiamento organizzativo e/o didattico, pur in assenza dei requisiti tipici del metodo della ricerca, anche per gli studi di caso, per i cosiddetti semilavorati e l’indagine qualitativa. Nel caso di cui parlo rilevo: 1. mancanza di un’ipotesi frutto dall’osservazione di uno o più fenomeni complessi (giudizio valutativo, misura/conteggio su scala, impatto sulla motivazione e adesione al compito degli attori implicati nel processo insegnamento/apprendimento) da cui si evinca che il voto è la causa probabile dei guasti relazionali nella relazione insegnanti/alunni, è fattore ansiogeno e stressante capace di ostacolare l’apprendimento; 2. assenza di un campione e di un gruppo di controllo, o quanto meno di un campo di studio circoscritto e/o della indicazione di un’osservazione partecipata; 3. nessuna definizione di un tempo di prova e verifica di attendibilità/falsificazione dell’ipotesi, di analisi dei risultati di qualità, e dunque nessuna presa d’atto degli errori di percorso e riformulazione dell’ipotesi. Un qualche approccio di questo tipo si sta, forse,  effettuando presso la cattedra di Docimologia e Metodologia della ricerca del Professor Guido Benvenuto (Università La Sapienza di Roma) che segue il lavoro del Morgagni ma, da alcuni suoi interventi e dalla bibliografia dedicata emergono solo “spunti di riflessione” e suggestioni, certamente utili, ma che tali restano sul piano della  “validità e accertabilità”, soprattutto se ci si colloca nel campo della ricerca educativo-pedagogica che dovrebbe accompagnare l’esperienza del Morgagni (G. Benvenuto Mettere i voti a scuola: Introduzione alla docimologia Carocci, 2003; id Stili e metodi della ricerca educativa Carocci, 2015). Pertanto, siamo in attesa, al di là delle dichiarazioni dei protagonisti, di qualche relazione approfondita sul rapporto fra voto numerico e ansia dello studente (e chissà, fra lezione/interrogazione/tema tradizionale ed esercizio di potere soverchiante da parte dell’insegnante sull’alunno passivizzato…)

Valutare con i numeri:1/5   

Durante i due incontri su citati, Il professor Cristiano Corsini  (cattedra di Pedagogia Sperimentale Università Roma3), che più di altri è impegnato a dare sostegno all’esperienza, ha citato, anche su sollecitazione di chi scrive, il ruolo che in tutto questo valutare in stile democratico, è giocato dall’INVALSI. L’Istituto segna il percorso scolastico dalla primaria alle superiori con tappe valutative ineludibili, basate su test standardizzati per le discipline considerate apicali (per il lavoro, per la scuola, per la vita, secondo l’ordine dettato dall’istituto su modello OECD-PISA), censuari, con misura 1/5 e certificazione finale delle competenze (DM 742/2017 art4 cc2,3) a cui uno studente del liceo può accedere grazie a un badge (compare un esagono con un termometro che misura a quanto ammonta la temperatura degli apprendimenti conseguiti!). 

Mi soffermo su due affermazioni del professore Corsini: 1.da anni è in atto una distorsione ad opera della dirigenza dell’INVALSI consistente nell’applicare la valutazione degli apprendimenti come misura dell’efficacia/efficienza del sistema scuola. Solo quest’ultima sarebbe la sua missione, considerato che il test non può dare informazioni sul singolo alunno, avendo tra l’altro, carenze sul piano della validità e dell’affidabilità (a cura di C. Corsini Rileggere Visalberghi Quaderni di Ricerca Ed Nuova Cultura, 2018; intervista/video a Tecnica della Scuola: https://www.tecnicadellascuola.it/le-prove-invalsi-lesperto-di-valutazione-corsini-nulla-in-contrario-ma-non-sono-prove-di-competenza); 2. tale distorsione si deve anche ad una sorta di nuovo corso della filosofia dell’istituto inaugurato dall’attuale staff dirigenziale. Provo a ribattere. 

1. Ripercorrendo la normativa sulla valutazione istituzionale, a diverso livello gerarchico delle fonti, tutto porta ad un’altra lettura: la missione fondamentale dell’INVALSI è la verifica degli apprendimenti e solo in via laterale il loro utilizzo – molto eventuale – per capire come funziona il sistema-scuola nel suo complesso, insomma la parte per il tutto. Un tutto che è fatto di infrastrutture, edifici, dimensioni degli istituti scolastici, ubicazione territoriale, rapporti con gli EELL, reclutamento, formazione dei dirigenti e dei docenti, definizione degli organici, ecc. Di questo l’INVALSI raccoglie solo qualche traccia  dai questionari sul retroterra degli istituti scolastici compilati da dirigenti, alunni, insegnanti, genitori (e dai Rapporti di Autovalutazione). Indagando le fonti giuridiche, troviamo: il DPR 80/2013  (Regolamento Del Sistema Nazionale di Valutazione, impugnato dal sindacato Flc/CGIL, segretario nazionale Domenico Pantaleo, in prima istanza per violazione di diritto il 13/09/2013 e per motivi aggiunti il 14/11/2014); la legge 107/2015; il Decreto Legislativo 62/2017. Lo stesso Statuto dell’NVALSI, ente di diritto pubblico, redatto nel 2017 come da riforma della Pubblica Amministrazione,  all’art.5 c1. sancisce fra i compiti l’attività di tipo psicometrico per il perfezionamento delle prove e il coordinamento metodologico per le scuole. Un parere legale, espresso il 21/11/2018, dal prof Francesco Bilotta (Dipartimento Scienze Giuridiche dell’Università di Udine) su richiesta della professoressa Rossella Latempa (redazione rivista ROARS) annotò la netta propensione dell’INVALSI verso la ricerca e la sperimentazione dei test, anche per le soft skills (con tanto di effetti di violazione delle norme del Dlgs 33/2013 sulla trasparenza e segretezza dei dati raccolti). Se ne evince che il cuore dell’attività dell’INVALSI è la valutazione standardizzata degli apprendimenti con relativi riflessi sulla didattica e dunque sulla libertà d’insegnamento. Tale istituzionalizzazione dell’attività censuaria sugli apprendimenti potrebbe anche arrivare a vulnerare la validità del titolo di studio conferito dalle scuole, proprio perché le valutazioni dei docenti risulterebbero  schiacciate nella loro soggettività dalla presunta oggettività delle risultanze dei test (come pretende del resto l’ANP, l’associazione dei Dirigenti Scolastici: https://www.orizzontescuola.it/anp-chiede-abolizione-valore-titolo-di-studio-diploma-in-4-anni-e-commissioni-esterne-per-esami-di-stato/)

2. Sul punto di vista espresso dal professor Corsini circa la causa della distorsione di cui su, provo a ricordare un significativo episodio. Paolo Mazzoli, Direttore dell’INVALSI per 6 anni, il 30 dicembre 2013 firmava con altri un singolare Avviso Pubblico. Una cordata della scuola per il nostro INVALSI: un Promemoria non richiesto per il nuovo Presidente. Chiaro effetto della lotta intestina che si stava svolgendo al cambio della Presidenza, il documento stigmatizzava “L’attenzione esclusiva e pressante – in questi ultimi anni – verso le sole prove standardizzate”,  la necessità “di ridimensionare l’enfasi sul peso delle prove”, di cui si mettevano in luce i problemi di validità segnalati dal Professor Corsini, nonché la loro pressante periodicità. Ma la sostituzione al vertice fra Paolo Mazzoli e Roberto Ricci (già Responsabile Area Prove) , non hanno mai costituto né un tentativo di cambiamento di rotta verso la sola valutazione di sistema, né di prospettiva sull’uso e sull’impatto nelle scuole delle prove. Tanto è vero che lo stesso Mazzoli si è sempre mantenuto ben saldo sulle sue iniziali convinzioni sull’uso dei test. Lo si evince dal suo editoriale di saluto (https://www.invalsiopen.it/6-anni-invalsi-cosa-ho-imparato/) e dal suo convinto appoggio a una sperimentazione sulle soft skill in bambini di cinque anni (Cristina Stringher, INVALSI Assessment to Learning to Learn in Early Childhood: an Italian Framework in Italian Journal of Sociology of Education 8/2016) che il Ministero, con rara mossa di buon senso, bloccò quando già lo staff dell’Istituto aveva mandato avviso alle scuole dell’Infanzia perché aderissero (carteggio scambiato dal 4 ottobre 2018 al 16 maggio 2019 fra la Direttrice Generale Dipartimento MIUR  Maria Assunta Palermo e il gruppo di ricerca INVALSI) .  

Gli altri 

Circa l’appassionato intervento del Professore Enzo Arte che anima l’esperienza del Liceo Morgagni, si può dar conto appunto della passione che non voglio sminuire. Ma dell’attivismo in salsa Dewey-Milani poco si è inteso dal punto di vista delle scelte didattiche, come ha notato un ex Dirigente Scolastico in un intervento finale. Quanto a Christian Raimo per comprendere la sua passione e il suo patire rappresentati dai toni fra l’aneddotico e l’espressionistico, serve leggere la recensione del filosofo Marco Maurizi sul suo ultimo libro, scrupolosa e micidiale. (https://www.sinistrainrete.info/societa/24455-marco-maurizi-l-invasione-degli-ultra-pedagogisti.html?highlight=WyJtYXJjbyIsIidtYXJjbyciLCJtYXVyaXppIiwibWFyY28gbWF1cml6aSJd).

Conclusioni

Come forse è chiaro sono convinta che, in tutto questo gran parlare dei voti numerici, ci si situi sul semplice piano del buon senso senza che le cosiddette buone pratiche si facciano modello esportabile tout court. Giorni fa circolava nel web una vignetta che recitava più o meno così “Se il Capo ti dice bravo, lavori meglio”: ovvero, non c’è persona al mondo che in un rapporto asimmetrico, come lo è necessariamente, per luogo e funzione, per età e per dotazione di saperi quello fra insegnante e alunno, non cerchi lo sguardo approvante o di ausilio dell’Altro. Del resto, lo si è visto con la grancassa apertasi dopo l’emanazione dell’ordinanza 172 del 4 dicembre 2022 e delle relative Linee Guida sull’introduzione della valutazione a 4 giudizi discorsivi nella primaria: poco nulla può cambiare nelle classi dei più piccoli se gli insegnanti ne fanno un fatto esclusivamente burocratico e poco modificano il modo di relazionarsi con colleghi e creature piccole, di organizzare il lavoro pedagogico-didattico. Soprattutto se lavorano in classi troppo numerose, se sono precari, se sono schiacciati da burocrazia e verticismo dirigenziale.  

Tutto ciò lo ha capito il ‘meritevole e interventista Ministro Valditara: la sperimentazione-no-voto, non ha le caratteristiche per disturbare il manovratore. 

(22 marzo 2023)

Gli insegnanti, la conoscenza, la crescita

Questo è il testo della relazione per il Convegno Nazionale Docenti: “L’adolescente nel futuro. Ma quale futuro?”, organizzato dal CEIS a Roma il 9 marzo 2023

In che modo la scuola può aiutare gli studenti a crescere? Diciamo prima di tutto che esiste un enorme problema di disagio giovanile – fatto di dipendenze, abusi, autolesionismo, sofferenze profonde – sommerso e sottovalutato, che richiederebbe l’attivazione in tutte le scuole di seri sportelli d’ascolto psicologici. E bisognerebbe porsi il problema di che cosa fa e può fare lo sportello d’ascolto, anche dal punto di vista terapeutico: oggi la scuola, nel migliore dei casi, si limita a intercettare il disagio e a segnalarlo, senza che nell’ambito scolastico si possa svolgere un’azione terapeutica. Ma noi sappiamo che proprio agli studenti che ne avrebbero più bisogno difficilmente le famiglie daranno la possibilità dell’accesso all’aiuto psicologico; aiuto che d’altra parte non è fornito nemmeno dal servizio sanitario pubblico, se non in casi gravissimi, e non di rado nemmeno in quelli. L’aiuto allora, forse, andrebbe dato a scuola. Ma questo è un discorso difficile, che ci porterebbe troppo lontano. L’intento del presente intervento è ragionare su cosa possono fare gli insegnanti, che non possono sostituirsi ad altre figure professionali, per aiutare gli studenti a crescere

È interessante partire da ciò che prevede l’articolo 33 della Costituzione:

«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».

Cosa significa libertà di insegnamento? Non è un diritto degli insegnanti all’arbitrio, come qualcuno vorrebbe far credere, ma quello delle future generazioni a incontrare una pluralità di pensieri, punti di vista, visioni del mondo, prospettive culturali, stili e metodologie di insegnamento, al di fuori di qualunque totalitarismo, fosse anche quello di una (tecno o buro) Pedagogia di Stato.

Da questo punto di vista, la libertà di insegnamento non è tanto un diritto, quanto un preciso dovere costituzionale degli insegnanti

Cosa significa questo dovere? Da cosa è motivato? In un recente incontro della nostra associazione (https://www.youtube.com/live/xyGALoBF6Z8?feature=share), il professor Bailone, dell’Università popolare di Torino, ha messo a fuoco un concetto importantissimo: il dovere degli insegnanti è aiutare gli studenti a pensare, in modo critico; e come può farlo? Esercitando lui per primo la libertà di pensiero. Gli insegnanti insegnano a pensare, mostrando agli studenti il processo del pensiero nel proprio stesso pensare insieme a loro. Un insegnante che pensa insegna a farlo anche agli studenti (il ruolo fondamentale dell’imitazione nell’apprendimento è confermato anche dalle neuroscienze, dopo la scoperta dei neuroni specchio); un insegnante parassitato dal “clero ministeriale”(ancora secondo la definizione del professor Bailone), che esegua soltanto ordini e indicazioni che arrivano dall’alto, insegna a NON pensare, semmai a ubbidire. Insegna che la cultura è burocrazia, non sguardo critico sull’esistente.

Se teniamo presenti queste considerazioni, e andiamo a leggere l’elenco dei campi in cui dovrebbe articolarsi la formazione coordinata dalla Scuola di alta formazione istituita dal governo Draghi con il famigerato decreto 36, ora legge 79, la contraddizione appare particolarmente stridente. Ecco qui:

– “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei”;

– “governance della scuola: teoria e pratica”;

– “leadership educativa”;

– “staff e figure di sistema: formazione tecnico metodologica, socio-relazionale, strategica”;

– “continuità e strategie di orientamento formativo e lavorativo”;

– “potenziamento delle competenze in ordine alla valutazione degli alunni”;

– “profili applicativi del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche”;

– “tecniche della didattica digitale”.

Ci si chiede dove sia qui la scuola, e il ruolo degli insegnanti PER gli studenti, di cui parleremo tra poco.

Intanto notiamo come i documenti ministeriali sulla scuola risentano tutti di uno stesso vizio, di cui parla il filosofo dell’educazione Biesta, in un preziosissimo libro pubblicato da poco in Italia:

«Learnification è un termine che si riferisce a una tendenza, relativamente recente, che mira a esprimere molto, se non tutto, ciò che c’è da dire sul tema dell’istruzione in termini di apprendimento. Questa si manifesta nell’abitudine di riferirsi a studenti, alunni, bambini e adulti, come “discenti” (learners), a riferirsi alle scuole come “ambienti di apprendimento” o “luoghi deputati all’apprendimento” e a vedere gli insegnanti come “facilitatori dell’apprendimento”. La ridefinizione dell’ “educazione degli adulti” (“adult education”) nei termini del ‘lifelong learning’ (“apprendimento permanente”) è un nuovo esempio della nascita di un “nuovo linguaggio dell’apprendimento”, così come lo è l’ubiquità dell’espressione “teachingandlearning”.

Il punto principale che desidero sottolineare è che il linguaggio dell’apprendimento NON BASTA a descrivere il processo educativo. 

[…] Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno

Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla»

(Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, pp.40-41).

Cosa manca infatti, in molti discorsi sulla scuola? Abbiamo cercato di metterlo in luce nel documento Manifesto per la nuova Scuola, redatto dal Gruppo “La nostra scuola” – Associazione “Agorà 33” e sottoscritto da alcuni dei maggiori intellettuali italiani (cfr. https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/).

Cosa abbiamo detto?

Che la scuola per funzionare, ha bisogno di due cose: la relazione e la conoscenza: il lavoro comune sulle conoscenze tra studenti e insegnanti infatti nutre la relazione e, reciprocamente, gli studenti si appassionano alle conoscenze anche attraverso la relazione con l’insegnante. In pratica, i contenuti culturali fanno da tramite di una relazione intergenerazionale che è indispensabile per le persone in crescita, perché permette loro di relazionarsi con un mondo adulto diverso da quello familiare, di rapportarsi al gruppo dei pari e di sperimentare dinamiche di gruppo e affettive all’interno della classe, in quella classe che rappresenta una vera e propria mente collettiva (tra parentesi, di questo non si tiene mai conto quando si parla di classi aperte, di DADA… Come se gli studenti non avessero bisogno di legami duraturi). Allo stesso tempo, attraverso il lavoro sulle conoscenze, gli studenti possono lavorare indirettamente anche all’elaborazione delle proprie dinamiche interiori. La conoscenza di sé e la conoscenza della realtà, che le discipline consentono di approcciare con ordine, senso del limite e gradualità, sono infatti due facce della stessa medaglia.

Ecco, chi sottrae importanza alle conoscenze (magari a favore di quelle astratte entità chiamate “competenze”, oppure in un’idea di interdisciplinarità che paradossalmente vuole eliminare le discipline), prosciuga anche il terreno su cui crescono la relazione scolastica e la relazione intergenerazionale studenti-insegnanti, che non è direttamente affettiva come quella familiare ma ha come punto di incontro i contenuti culturali e disciplinari significativi su cui si lavora insieme. La forma specifica di affetto dell’insegnante, in particolare, si traduce nel voler dare alfabetizzazione, conoscenze, cultura ai propri studenti; nel vederli crescere dal punto di vista umano e culturale. 

Ma in che modo l’insegnamento può aiutare gli studenti a crescere? C’è un modo specifico che appartiene solo alla scuola, quello appunto del lavoro su contenuti culturali significativi insieme agli studenti, un lavoro che, come detto sopra, nutre la relazione e (insieme a una cornice di regole ragionevoli e motivate) aiuta indirettamente gli studenti anche a elaborare le proprie dinamiche interiori. Altra cosa invece è chiedere ai docenti di improvvisarsi psicologi e irrompere in queste delicatissime dinamiche in maniera esplicita, senza sapere davvero quali corde profonde delle persone in crescita si vanno a toccare, con i danni che possono derivarne. È la logica sottesa ad esempio al concetto di “competenze non cognitive”, in virtù delle quali si chiede agli insegnanti di entrare nel merito delle questioni relative alla personalità degli studenti, dandone addirittura una valutazione, come se la scuola fosse un centro di formazione e reclutamento precoce delle “risorse umane” che misura affidabilità, adattabilità e simili, invece che un luogo di istruzione, socialità e sviluppo integrale della persona.

***

Vorrei proporre un esempio, tra gli innumerevoli possibili, di come si possono toccare dinamiche sensibili senza porsi abusivamente come psicologi (cosa che purtroppo fanno tanti “formatori”), lasciando liberi gli studenti di sviluppare le proprie riflessioni. La letteratura aiuta sempre: gli studenti possano trovare rispecchiati nei temi e nei modi espressivi della letteratura (ma anche in qualunque altro contenuto culturale significativo) gli stessi contenuti interiori che li appassionano, li preoccupano, li fanno soffrire.

L’esempio è questo, che mette insieme lezioni realmente svolte sulla poesia provenzale, quanto di più apparentemente lontano – almeno dal punto di vista cronologico – dagli studenti e dal loro presente.

  1. Dopo un’introduzione generale, si procede ad una lettura antologica di testi che fa emergere una delle caratteristiche principali della poesia provenzale, cioè l’impegno richiesto all’uomo che voglia conquistare la donna di cui è innamorato (la poesia provenzale è uno strumento di corteggiamento). La pazienza, la fedeltà, la perseveranza, la forza di volontà, il coraggio, il rispetto, la discrezione sono qualità maschili (in alcune poesie anche femminili) senza le quali non è possibile alcuna conquista; proprio la presenza di queste qualità sembra colpire molto gli studenti di entrambi i sessi, specie quando essa viene collegata all’idea della gradualità del percorso amoroso, durante il quale l’uomo deve superare una serie di prove e ottiene dei segni progressivi di fiducia e di abbandono da parte della donna, dalla confidenza a parole fino al bacio e alla possibilità di un contatto fisico più intimo. La gradualità della conquista, che prevede passaggi precisi e codificati, rappresenta un modo per unire nell’amore la dimensione fisica e quella spirituale: l’attesa alimenta eros e attrazione e costringe ad una sublimazione che rende l’amore una dimensione che coinvolge l’essere umano nella sua interezza e gli permette di coltivare nel tempo le sue migliori qualità, prima fra tutte la fedeltà all’amore;
  2. Colpito dall’interesse mostrato dagli studenti per queste tematiche e già con un’idea di conduzione del dibattito in mente, sia pure aperta a quello che via via emerge, chiedo alla classe se un modello di amore come quello provenzale sarebbe attuabile e auspicabile ai nostri giorni. Chiedo in particolare quali siano le differenze, secondo gli studenti, tra le modalità provenzali di vivere l’amore e quelle contemporanee. Alcuni maschi mi dicono subito che il problema è che le ragazze, a loro dire, si concedono troppo facilmente; le ragazze dicono che sono i maschi che vogliono tutto e subito. Tralasciando altri passaggi intermedi, la conclusione del discorso è che la conquista e il rapporto amoroso sono caratterizzati dalla fretta, basata su un terribile malinteso e un paradosso: ragazzi e ragazze “corrono”, bruciano le tappe, credendo ognuno di fare ciò che l’altro si aspetta, e che in realtà non vuole. I maschi, in particolare, riescono a confessare che questo ruolo maschile, di colui che ha sempre e comunque fretta, crea in loro un forte stato di ansia, che sarebbe evitabile attraverso una conoscenza paziente e graduale della ragazza di cui sono innamorati, con una progressione lenta della tenerezza e dell’intimità. Insomma, si mostrano piuttosto consapevoli del fatto che il ruolo maschile stereotipato a cui si sentono costretti non rispecchia ciò che vogliono davvero;
  3. Per completare il discorso con il punto di vista femminile, espresso con più riservatezza, ricorro alla visione di un film, dicendo genericamente che è collegato alle tematiche letterarie affrontate, senza dire come. Il film è The breakfast clubun grande capolavoro nella possibilità di rispecchiamento e di identificazione con i personaggi che offre agli adolescenti e nelle emozioni e riflessioni che è capace di suscitare (devo la conoscenza di questo film allo psicoanalista Alessandro Zammarelli, membro fondatore del nostro gruppo, le cui riflessioni sono presenti anche in vari altri passaggi di questo intervento. D’altra parte il gruppo La nostra scuola è nato proprio con l’idea di mettere a confronto e far dialogare insegnanti ed esperti dell’età evolutiva, con la distinzione chiara dei ruoli e l’arricchimento reciproco). In una scena del film, le due protagoniste, Claire ed Allison, in presenza dei maschi (i cinque protagonisti sono tenuti chiusi a scuola per l’intera giornata del sabato, a scrivere un tema e a riflettere su qualcosa di grave – non si sa cosa – che ciascuno di loro ha commesso), portano avanti un importantissimo dialogo: Allison finge di essere particolarmente disinibita, per costringere l’altra, Claire, a confessare se è mai stata con un ragazzo oppure no. Ad un certo punto (cito dal doppiaggio italiano) Allison dice pressappoco: “questa domanda è una trappola, se dici sì sei una puttana, se dici di no sei una suora”. Quando Claire perde il controllo e urla di essere vergine Allison, che si era finta ‘ninfomane’, risponde: “sono vergine anch’io, ma farei l’amore con un ragazzo che mi ama davvero”. A questo punto il dibattito in classe si sposta sulla falsa alternativa, che condanna sempre la donna, tra l’essere troppo poco disponibile o troppo disponibile. Il discorso ritorna circolarmente sulla poesia provenzale: gli studenti sembrano concordare sul fatto che questa falsa alternativa possa essere superata attraverso l’idea ‘provenzale’ che l’amore fisico rappresenti l’ultima tappa di un percorso che preveda la scoperta dell’intimità attraverso l’amore e l’affetto, la conoscenza reciproca, una confidenza che cresca col tempo, man mano che l’altra persona si rivela degna di fiducia e di abbandono.

Ecco, questo è un esempio di come il lavoro sulle conoscenze possa diventare educativo senza volerlo essere esplicitamente, utilizzando le conoscenze come modalità per spingere gli studenti a pensare. Senza conoscenze, a partire da una reale e approfondita alfabetizzazione, questo lavoro non è possibile. E spesso, la critica alle conoscenze e ai saperi priva il discorso scolastico di sostanza, lo fa girare a vuoto su metodologie fini a se stesse, con una terribile inversione mezzi-fini. Lo aveva capito già tantissimi anni un grande scrittore quasi dimenticato come Lucio Mastronardi:

Le lezioni le tiene una professoressa di pedagogia. “Cari maestri, mettetevi in mente che il fanciullo non è un vaso da riempire…” esordì la professoressa. “Ma un vaso da vuotare!”, sghignazzò Nanini […] La professoressa si irritò: “Ma un focolare da accendere”, disse […]. Si ricordi che sta parlando con una funzionaria del gruppo A…” […]. “Una lezione sul ferro per la quarta elementare […]. Come farebbe lei a spiegare il ferro?”, domandò a una maestrina. “Guarderei quello che dice il sussidiario”, rispose la maestrina. “Ah!”, urlò quella con una faccia disgustata, “il libresco! Ancora il libresco! Per fare una lezione sul ferro cominceremo a portare la scolaresca a casa di un minatore!”. “Impossibile, urlò Nanini, “a Vigevano non ci sono i minatori!”. La professoressa dopo un momento di smarrimento si riprese: “Quando andate a fare le gite scolastiche, scegliete un luogo dove ci siano minatori…”

(Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, Torino, Einaudi, 1962, pp.112-113).

La scuola della conoscenza, che molti vorrebbero eliminare a favore dell’addestramento a “competenze” predeterminate, è quella in cui gli studenti sono liberi di applicare a sé quello che imparano. Il che significa, naturalmente, che debbano imparare qualcosa di significativo e non necessariamente vicino alla loro esperienza quotidiana: altrimenti si escluderebbe a priori l’accesso ad altri mondi di significazione e la possibilità della messa in discussione del proprio orizzonte esistenziale e conoscitivo attraverso il confronto con altre realtà e altre modalità di pensiero, rappresentate dalle diverse discipline nella loro ricchezza e nei loro fondamenti epistemologici. 

Come spiegano benissimo Laval e Vergne, teorici dell’educazione democratica :

 «Più ci si mantiene vicini all’esperienza sensoriale e sociale degli studenti, più [secondo Dewey] se ne facilita l’accesso alla conoscenza. Il dilemma qui è capire se, a forza di confondere l’esperienza sociale con quella scolastica, non si corra il rischio di svalutare le conoscenze scolastiche in ciò che esse hanno di specifico e formalizzato, e quindi di rendere meno comprensibile per ragazzi di umili origini ciò che devono imparare a scuola e che non possono imparare al di fuori. Infatti, appropriarsi dei saperi scolastici implica che si comprenda anche la necessità della distanza che esiste tra la realtà vissuta e la formalizzazione, sistematizzazione e progressione di tali saperi. A tal punto che occorre chiedersi seriamente se la democrazia scolastica non consista piuttosto nell’aiutare gli studenti a uscire dalle loro esperienze immediate per accedere alla ragione scritta, alla pratica riflessiva sulla lingua, alla cultura scolastica, a quello che Bernstein chiamava il ‘codice elaborato’, senza per questo che prevalga in essi un senso di alienazione. La difficoltà pratica dell’istruzione consiste quindi nel garantire che l’universo dei saperi, dei simboli e dei concetti costituisca oggetto di esperienze cognitive specifiche e interessanti in se stesse, senza essere immediatamente respinte come prive di interesse in quanto lontane dalla ‘vita reale’. È questa esperienza specifica dei saperi scolastici che permette allo studente di prendere le distanze dalla realtà sociale in cui è immerso» (Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, 2022, pp 119-120).

E ancora Gert Biesta: «La domanda che non viene mai posta è se l’ambiente a cui il sé sta cercando di adattarsi sia un ambiente a cui ci si dovrebbe adattare, un ambiente a cui valga la pena adattarsi. Il sé – e forse dovremmo dire il sé adattabile e adattivo – non può mai generare, da solo, un criterio con cui valutare ciò a cui si sta adeguando. È quindi preso, in quanto ‘oggetto’, da ciò a cui si sta adeguando, un problema che ho cercato di esemplificare servendomi dell’immagine del robot aspirapolvere» (Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p.75).

D’altra parte, l’abbiamo detto, la spinta neoliberista a trasformare l’istruzione in addestramento e in adattamento alla realtà così com’è, con la cancellazione di una cultura che è sempre forza trasformativa e riserva di senso critico rispetto all’esistente, è insita nella logica delle “competenze”, quella che un certo pensiero pedagogico purtroppo troppo spesso si presta a giustificare. Lo spiega in maniera inequivocabile lo storico Boarelli, con le cui parole concluderei:

«Questa visione dell’educazione attiva è in profondo contrasto con quella praticata attraverso le ‘competenze’. L’educazione attiva, per essere veramente tale, deve porsi l’obiettivo di fornire ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per incidere sulla realtà, per modificarla attraverso una comprensione individuale e un’azione comune. L’approccio per ‘competenze’, al contrario, si basa su una adesione alla realtà esistente come se questa possedesse una realtà propria (il reale non è razionale, sosteneva Dewey). Non si propone di sottoporla a una lettura critica, tanto meno di cambiarla. Il suo scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per adattarvisi. La sua azione è modellata sugli individui singoli, privi di legami sociali, che devono essere dotati di propri ‘portafogli’ di competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare da un loro uso accorto sul ‘mercato’. In questo modo le finalità individuali e sociali vengono separate, viene ricostituita un’opposizione artificiale tra dimensione personale e dimensione comunitaria. 

Non stupisce che questa visione pretenda di fare tabula rasa di una ricca tradizione pedagogica costruita intorno al nesso tra individuo e società, tra educazione e democrazia. Stupisce, semmai, che un nuovo filone pedagogico si presti a legittimare questa mutazione. Nella costruzione delle ‘competenze’, i pedagogisti arrivano a giochi già fatti. Il loro ruolo prevalente è diventato quello di fornire – a posteriori – un quadro teorico di riferimento a un concetto che nasce, come abbiamo visto, su un terreno diverso rispetto a quello educativo.

Per renderlo credibile, si cerca di costruire intorno ad esso una genealogia, alla ricerca di radici antiche e padri nobili, senza preoccuparsi troppo dell’eterogeneità delle correnti di pensiero chiamate in causa. Lo scopo è piuttosto quello di fornire una narrazione che ‘concili l’inconciliabile’, di legittimare il fatto che l’orientamento delle politiche educative sia spostato dal complesso delle dinamiche sociali a una loro declinazione specifica ed esclusiva: l’economia e l’impresa» (Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari-Roma, Laterza, 2019, pp.25-26).

Luca Malgioglio, Gruppo La nostra scuola/Associazione Agorà 33

I collegi docenti e il PNRR. Che fare?

Riceviamo e pubblichiamo qui un importante documento scritto dal CUB Scuola Università Ricerca – Federazione Provinciale di Torino (e-mail: scuola@cubpiemonte.org) che contiene delle informazioni utilissime su come i collegi docenti possono tentare di governare il PNRR invece di farsene governare.

FAQ per governare il PNRR…   

…invece di farsi governare

Tutto quello che dovete sapere prima del 28 Febbraio per evitare un massivo trasferimento di fondi pubblici nelle tasche di poche aziende private, in violazione delle normative sulla pubblica acquisizione di software (CAD – codice dell’amministrazione digitale) e del regolamento europeo per la protezione dei dati personali (GDPR). 

1. Cos’è il PNRR e cosa c’entra con la scuola?

R. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un progetto europeo di riforme che riguardano tutti gli ambiti dello Stato, lanciato successivamente alla pandemia per cercare di aiutare le economie dei vari paesi europei a “riprendersi”. Al suo interno è previsto un capitolo sulla scuola: il Piano Scuola 4.0, che si configura come una prosecuzione e approfondimento del precedente PNSD, ossia il Piano Nazionale Scuola Digitale (quello che ha portato una LIM in ogni aula e connessioni a 100 Mbps in ogni scuola a spese dello Stato).

2. Come funziona il PNRR?

R. In maniera, purtroppo, troppo simile ai “piani di ristrutturazione” del FMI in Argentina nei primi anni 2000 e al lavoro della “troika” in Grecia, lega ingenti finanziamenti a precise riforme da effettuarsi in tempi rapidissimi e –di conseguenza– senza un vero dibattito democratico. La sua ispirazione è chiaramente iperliberista e le conseguenze rischiano di essere un massivo trasferimento di fondi pubblici verso il privato.

3. Cosa dobbiamo decidere entro il 28 Febbraio?

R. Ogni scuola ha ricevuto un budget su una o più delle linee di finanziamento previste dal Piano Scuola: Antidispersione, Next Generation Classroom e Next Generation Labs. Entro il 28 Febbraio bisognerà caricare sulla piattaforma del MIM una descrizione di massima dei progetti che si intendono realizzare per ciascuna delle linee di finanziamento, con la relativa ripartizione dei fondi, come spiegato nella sintesi delle linee guida che potete trovare qui:
https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2022/12/Slide_sintesi_Istruzioni_Operative_Scuola_4.0.pdf

4. Perché è importante agire ora

R. Per mantenere aperto lo scenario. Quello che è importante ottenere da qui al 28 Febbraio è che la descrizione dei progetti sia più aperta possibile. Se riuscirete a far scrivere qualcosa del genere:

“La scuola, in accordo ai risparmi che si realizzerano con le operazioni di messa a bando, intende realizzare uno o più dei seguenti progetti:

A – Assurdità 1 (es. visori per la realtà aumentata per tutti)

B – Assurdità 2 (es. un computer fisso per ogni banco in ogni classe)

C – Progetto sensato“

resterà possibile attuare anche il “Progetto sensato”. In caso contrario potrebbe diventare davvero complicato (a seconda del Dirigente) modificare la linea d’azione intrapresa.

5. Ma la mia scuola ha già approvato i progetti Assurdità 1 e 2. È troppo tardi!

R. Non è vero. Aver approvato i progetti non implica né l’obbligo di realizzarli, né il divieto di realizzare altro. Ovviamente bisogna che la descrizione che verrà caricata entro il 28 Febbraio sia “aperta” (come descritto nella FAQ n.4) e che, successivamente al 28 Febbraio, il CD approvi l’eventuale “Progetto sensato” prima di scriverne il bando e andare a cercare chi lo realizzerà.

6. Il dirigente può decidere in autonomia e senza consultare Collegio Docenti e Consiglio d’Istituto?

R. No. Le decisioni devono essere collegiali. E se implicano limitazioni alla libertà d’insegnamento (come, ad esempio, obbligo di utilizzare i device digitali per un tot di ore all’interno della giornata) dev’essere coinvolto il Consiglio d’Istituto con le rappresentanze di studenti e genitori.

7. Il dirigente può nominare una commissione di lavoro sul PNRR senza parlarne con il Collegio Docenti?

R. Questo è più disputabile. Certamente non è un comportamento che possa favorire le relazioni sindacali. In ogni caso il lavoro della commissione, che pure è organo del CD, deve poi passare per l’approvazione del CD.

8. Perché c’è il rischio che questa azione del PNRR si trasformi in un gigantesco trasferimento di fondi dal pubblico al privato?

R. Perché le linee guida dicono che dobbiamo spendere come minimo il 60% dei fondi per l’acquisto di hardware e software. A questo si aggiungono tempi troppo stretti per fare le cose per bene senza mettersi in croce, per cui molti dirigenti si stanno affidando a privati esterni per conservare la propria sanità fisica e mentale. 

9. Ma il lavoro di progettazione delle Commissioni per il PNRR che stanno scrivendo i progetti entro il 28 Febbraio sarà pagato?

R. No. Si partecipa pro-bono. Non c’è nessuna assicurazione che le persone che hanno “progettato” siano anche poi nominati collaudatori o redattori dei bandi. Ovviamente nessuno però sarà felice di candidarsi a realizzare un progetto scritto da qualcun altro, a meno che sia talmente generico da permettere emendamenti sostanziali (riscrittura).

10. Ma questa cosa riguarda solo noi o anche i ragazzi e le famiglie?

R. A nostro modo di vedere riguarda tutti i “portatori di interessi” (stakeholders, nella neo-lingua ministeriale) del mondo della scuola. Per questo, laddove i progetti siano davvero “rivoluzionari” è importante che le RSU chiedano il coinvolgimento del Consiglio d’Istituto.

11. Il mio dirigente ha deciso di dare tutto in mano a un ente o ditta esterna che comprerà licenze software per decine o centinaia di migliaia di euro. Il CD ha approvato senza battere ciglio. Che fare?

R. Oltre alle limitazioni date dal governo democratico della scuola ci sono quelle date dal CAD (Codice Amministrazione Digitale). Il CAD impone (pena sanzioni di cui il dirigente risponde in solido dal suo stipendio) che le PA acquisiscano unicamente software libero a meno di non fornire una dettagliata valutazione comparativa che dimostri l’inesistenza di un software libero adatto a svolgere un certo compito oppure la netta superiorità di quello proprietario, al punto da rendere impossibile la realizzazione del progetto con quello libero. Se un dirigente non la rispetta lo si può diffidare e –nel caso non desista– segnalare alla autorità per l’erogazione delle dovute sanzioni, anche per danno erariale. 

12. Il mio dirigente ha deciso di dare tutto in mano a un ente o ditta esterna che ha progettato di costruire tutto attorno a Google Suite for Education o altri servizi simili di Microsoft o Amazon. Il CD ha approvato senza battere ciglio. Che fare?

R. Oltre alle limitazioni date dal governo democratico della scuola ci sono quelle date dal GDPR (Regolamento Generale per la Protezione dei Dati). Il Garante italiano per la privacy si è recentemente espresso sull’ obbligo di dotarsi di DPIA e TIA (Data Processing Impact Assessment e Transfer Impact Assessment) quando si acquisiscono tali servizi:

Dato che la stragrande maggioranza dei dirigenti non se ne sono dotati, e lo hanno dichiarato pubblicamente qui (ci sono tutte le scuole, potete cercare la vostra):

https://foia.monitora-pa.it/

oppure hanno taciuto violando apertamente la legge sulla trasparenza degli atti legislativi, sono tutti a rischio sanzioni nel momento in cui vengono segnalati. E in questa faccenda si potrebbero e dovrebbero coinvolgere anche allievi e famiglie, visto che i diritti che vengono violati sono anche i loro, oltre ai nostri. Se un dirigente dovesse “tirare dritto” lo si può diffidare e –in ultima analisi– segnalare alla autorità per l’erogazione delle dovute sanzioni, anche per danno erariale. 

13. Ma le nostre scuole usano già Google per la posta. Se dobbiamo cambiare dall’oggi al domani vuol dire restare senza servizi per chissà quanto tempo!

R. La stragrande maggioranza delle scuole utilizza i servizi di Google Suite (Mail, Classroom, Drive), ma –al contempo– ha messo in funzione almeno un Moodle. Basterebbe cominciare a usare quello  Moodle è una piattaforma libera che svolge, molto meglio di Classroom, il lavoro di Google Classroom.

14. I colleghi non hanno voglia di imparare ad usare una nuova piattaforma, e molto meno ne hanno i ragazzi. Perché mai dovremmo accollarci una tale fatica?

R. Perché Google e Facebook, stanno investendo delle cifre pantagrueliche per costruire una macchina per l’adaptive learning (AL). L’AL è l’applicazione di quella che loro chiamano IA (Intelligenza Artificiale) all’apprendimento. Questo progetto parte dall’idea che esista una conoscenza “giusta” e una “sbagliata”, che l’apprendimento sia un fatto privato e che la competizione sia la maniera migliore per raggiungerla. Fedele a questi principi l’AL di Google utilizzerà i dati raccolti con la nostra quiescenza per costruire profili degli allievi a cui somministrare in automatico materiali e verifiche a crocette, cancellando gradualmente quel poco che resta della funzione docente a favore di uno “scuolificio” gestito dalle macchine. Se vi sembra un’ipotesi fantascientifica, provate a visitare http://www.openai.com e fare un test con ChatGPT, chiedendo alla macchina di insegnarvi, per esempio, a programmare. Il risultato potrebbe spaventarvi, ma allo stesso vi renderà più coscienti sullo “stato dell’arte”.

15. Ma noi non abbiamo le competenze per progettare degli interventi così connotati dall’informatica. Non è meglio lasciare fare gli esperti?

R. Lasciare fare gli esperti è generalmente una pessima idea. Basta vedere i risultati del lavoro degli esperti economisti in Argentina e in Grecia. Gli esperti dovrebbero essere aiutati a estinguersi, a favore di una partecipazione diffusa e capillare al design delle nuove tecnologie. Questo però richiede un tempo che ora non abbiamo. Nell’immediato, però, possiamo prendere varie esperienze e progetti che sono stati sviluppati da altre comunità scolastiche e cercare di riprodurli adattandoli alla nostra realtà. La chat sul PNRR che abbiamo aperto come CUB ha proprio questo scopo e, per ora, è stata ancora grandemente sottoutilizzata. Potete iscrivervi qui: https://chat.whatsapp.com/Ls4GaK3IYqH2GA05JHgLjP

Sul Manifesto per la nuova Scuola

Il Manifesto per la nuova Scuola è stato di recente pubblicato nel libro curato da Massimo Arcangeli, Saper essere, saper fare, saper pensare. Manifesto per una scuola del futuro, Roma, Castelvecchi, 2022, con la seguente introduzione:

Il Manifesto per la nuova Scuola è un documento nato dall’incontro e dal confronto tra insegnanti di tutta Italia, appartenenti a tutti gli ordini di scuola, che hanno costituito una rete durante il lungo periodo della pandemia e hanno dato vita al gruppo “La nostra scuola” e all’associazione culturale “Agorà 33”, coadiuvati da esperti dell’età evolutiva come lo psicoanalista SIPRE dott.Alessandro Zammarelli. 

Il documento è stato sottoscritto da moltissimi docenti universitari e da alcuni tra i maggiori intellettuali del nostro Paese come Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Mario Capasso, Ivano Dionigi, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Francesco Guccini, Edoardo Lombardi Vallauri, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Ana Millan Gasca, Tomaso Montanari, Filippomaria Pontani, Adriano Prosperi, Massimo Recalcati, Lucio Russo, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky. Si tratta di una proposta organica di rilancio – dopo il periodo difficilissimo della “didattica a distanza” – di una scuola che tenga insieme le dimensioni tra loro interconnesse dell’istruzione, della relazione intergenerazionale e della crescita umana.

Agli estensori del manifesto è apparso subito chiaro come l’unicità dell’esperienza scolastica stia nella capacità di tenere insieme conoscenza e relazione, evidenza confermata dalle enormi difficoltà di apprendimento emerse durante il periodo del distanziamento. La condivisione delle conoscenze rappresenta il terreno su cui si costruisce la relazione tra insegnanti e studenti; così come, reciprocamente, la relazione con l’adulto è ciò che – assieme alla loro insopprimibile curiosità – induce le persone in crescita ad apprendere.

Perché la scuola assolva a questa sua funzione, che come da dettato costituzionale consiste nel favorire il pieno sviluppo della persona attraverso l’istruzione, è indispensabile liberare il processo didattico ed educativo dalla spaventosa ipertrofia burocratica che ne soffoca la sostanza e che porta sempre più spesso a sostituire l’insegnamento con una descrizione astratta dell’insegnamento; occorre alleggerire la scuola da tutto ciò che la allontana dalla sua funzione essenziale, inclusa la strumentalizzazione che se ne fa a vantaggio di aziende ed enti formatori privati; evitare i totalitarismi e i conformismi metodologici, che sostituiscono un autentico discorso umano e culturale e inducono a ridurre l’elaborazione culturale ad adempimento burocratico; riportare al centro della scuola l’ora di lezione, la ricchezza culturale dei saperi e delle discipline e la passione conoscitiva, la concreta attività didattica – in un “corpo a corpo” continuo tra insegnanti e studenti basato soprattutto sulla parola -, per contrastare la diffusione a macchia d’olio dell’analfabetismo tra le nuove generazioni, acuita da venticinque anni di disastrose “riforme” e dal lungo periodo di sospensione dell’attività didattica in classe.

In sintesi, la scuola ha bisogno di tornare a essere un luogo in cui si insegna e si impara; la relazione è fondamentale in ogni processo di apprendimento; crescita umana e crescita culturale non possono che andare di pari passo; le conoscenze, se ben proposte, stimolano la naturale curiosità delle persone in crescita e il loro bisogno di dare un senso all’esperienza; il metodo migliore per insegnare è quello che funziona in una precisa situazione educativa, senza rigidità e senza pensare che i mezzi, compresi quelli digitali, siano fini in sé, senza cioè perdere di vista un significativo progetto educativo e culturale; bisogna evitare che ciò che non c’entra con la scuola – incluso uno spaventoso apparato burocratico – tolga tempo all’insegnamento, al lavoro sui contenuti culturali e alla relazione educativa.

Ci sembravano idee semplici e di buon senso, anche se forse non banali. Per questo molti di noi sono rimasti sconvolti quando – a fronte di numerosi e importantissimi consensi da parte del mondo accademico e culturale – è iniziato contro il nostro manifesto un attacco apparentemente inspiegabile, molto strutturato, continuo, con la chiamata a raccolta di camarille varie, basato sul sentito dire, sulla manipolazione e soprattutto sull’evitamento di ogni confronto e discussione nel merito delle questioni che ponevamo, sul tentativo di imporre etichette assurde a un discorso che diceva tutt’altro.

Oggi, alla luce di quello che è accaduto con il decreto 36 e la cosiddetta “Scuola di alta formazione”, quegli attacchi acquistano una luce più definita: che qualcuno tentasse di proporre un’idea sensata e motivata di scuola rappresentava un ostacolo e uno spiacevole inconveniente per chi aveva già deciso di sostituire la libertà dell’insegnamento e della ricerca culturale e didattica con un totalitarismo che costringa la scuola pubblica a diventare un’altra cosa, per motivi che hanno a che fare con la spartizione di risorse economiche e di posizioni di potere da rafforzare o da conquistare.

Gruppo La nostra scuola
Associazione Agorà 33

Di seguito il testo del Manifesto:
https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/
e il link per firmarlo:
http://chng.it/pLRQ47qfX9

La scuola democratica, per davvero

Chi riflette seriamente sulla scuola democratica ed emancipatrice si trova lontanissimo dalle formulette attivistiche più vuote e banalizzanti, ad esempio tutta la retorica delle “competenze”, degli “ambienti di apprendimento innovativi”, della falsa contrapposizione tra lezione ed esperienza e di quell’autoritarismo che in neolingua viene chiamato “autonomia”. Non a caso, queste formulette convergono senza sforzi con quelle aziendalistiche delle soft skills, degli stakeholders, del longlife learning, del middle management, del capitale umano, e servono a giustificare a posteriori lo smantellamento della scuola, la distruzione del potenziale rivoluzionario della cultura e la perpetuazione morta dell’esistente.


Il libro di Laval e Vergne, Educazione democratica, andrebbe letto da tutti gli insegnanti democratici come antidoto alle crescenti mistificazioni di certo para-progressismo sempre dalla parte del potere, collaterale al “clero ministeriale” e agli ambienti confindustriali, il cui intento principale sembra essere quello di svuotare la scuola pubblica di saperi, cultura, conoscenze, per interessi non sempre confessabili.

«Più ci si mantiene vicini all’esperienza sensoriale e sociale degli studenti, più [secondo Dewey] se ne facilita l’accesso alla conoscenza. Il dilemma qui è capire se, a forza di confondere l’esperienza sociale con quella scolastica, non si corra il rischio di svalutare le conoscenze scolastiche in ciò che esse hanno di specifico e formalizzato, e quindi di rendere meno comprensibile per ragazzi di umili origini ciò che devono imparare a scuola e che non possono imparare al di fuori. Infatti, appropriarsi dei saperi scolastici implica che si comprenda anche la necessità della distanza che esiste tra la realtà vissuta e la formalizzazione, sistematizzazione e progressione di tali saperi. A tal punto che occorre chiedersi seriamente se la democrazia scolastica non consista piuttosto nell’aiutare gli studenti a uscire dalle loro esperienze immediate per accedere alla ragione scritta, alla pratica riflessiva sulla lingua, alla cultura scolastica, a quello che Bernstein chiamava il ‘codice elaborato’, senza per questo che prevalga in essi un senso di alienazione. La difficoltà pratica dell’istruzione consiste quindi nel garantire che l’universo dei saperi, dei simboli e dei concetti costituisca oggetto di esperienze cognitive specifiche e interessanti in se stesse, senza essere immediatamente respinte come prive di interesse in quanto lontane dalla ‘vita reale’. È questa esperienza specifica dei saperi scolastici che permette allo studente di prendere le distanze dalla realtà sociale in cui è immerso. La scuola crea un mondo a sé, una vita a sé, e la questione sta tutta nel sapere quali legami si possono stabilire tra le esperienze specifiche che si possono fare a scuola e le sfide sociali e umane che possono legittimamente interessare gli studenti. Affermare che i saperi scolastici sono specifici ed eterogenei rispetto all’esperienza immediata non vuol dire infatti che essi non debbano essere esaminati a loro volta nel rapporto che hanno con l’esperienza individuale e sociale degli studenti. Niente sarebbe peggio che ricadere in una scolastica vana, come quella che Dewey e le diverse correnti dell’Educazione Nuova denunciavano. La questione pratica è, pertanto, stabilire se le conoscenze specifiche della scuola consentano o meno agli studenti di riflettere razionalmente sulla loro situazione reale di esseri umani nel mondo, in quanto persone che si trovano all’interno di una storia e di una società data, e che devono anche grazie all’istruzione avere la capacità di cambiarla, in altre parole essere soggetti della propria vita»
(Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, 2022, pp 119-120).