Undici anni

Quando abbiamo letto questa notizia, riportata sulla pagina Raiscuola, pensavamo di aver capito male. “Alla presenza del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e di Rosy Russo, fondatrice di Parole O_Stiliè stata ufficialmente presentata MiAssumo, la prima piattaforma educativa e di gaming gratuita per gli studenti dagli 11 ai 26 anni […]”.

Undici anni? E qual è lo scopo di questa piattaforma? “Colmare la carenza formativa delle scuole italiane e rispondere al mancato incontro tra offerta e domanda di lavoro calcolata oggi all’ 1,5% del PIL nazionale“. Carenza formativa nelle scuole italiane? Carenza di cosa? Del “mancato incontro tra offerta e domanda di lavoro”. Che c’entra con i bambini di 11 anni? E questo calcolo “all’1,5 per cento del PIL nazionale” chi l’ha fatto? Di passaggio, siamo sicuri che esista davvero il “mismatching” scuola-lavoro, e che la disoccupazione giovanile non dipenda invece da una drammatica mancanza di offerta? Il meglio che la scuola può fare, con i giovanissimi, è istruirli e metterli in condizione di ragionare; una formazione che non può essere “professionale”, prima di una certa età, ma che pone solide basi per ogni attività e formazione futura.

Beninteso, non vogliamo demonizzare tecnologia, informatica, role gaming e altre cose interessanti in sé, se utilizzate alla giusta età e con le giuste finalità; né rifiutare, nel modo più assoluto, strumenti capaci di facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Vorremmo invece che venissero rispettate onestamente le priorità e gli ambiti e i confini di tali strumenti, senza farli passare per cure meravigliosamente magiche di problemi ben più profondi – prima di tutto la mancanza di una buona offerta – che andrebbero affrontati con strumenti molto diversi, senza spostare sui ragazzi o sulla scuola la responsabilità della difficoltà di trovare lavoro.
E qualora esistesse nei giovani una difficoltà ad avvicinarsi al mondo del lavoro, anche in presenza di opportunità reali, certo non si tratterebbe di mancanza di strumenti pratici, bensì di mancanza di fiducia in se stessi e nel futuro, problema che andrebbe affrontato con una buona sostanza di relazioni umane e ricostitutive, di cui la scuola dovrebbe essere produttrice.

Torniamo alla questione, estremamente inquietante, dell’età e della profilazione precoce: “MiAssumo si rivolge ai giovani dagli 11 ai 26 anni con l’obiettivo di aiutarli a crescere, sia come persone che come professionisti [sic], così da potersi affacciare più facilmente al mondo del lavoro. Gli alunni saranno coinvolti in un percorso pluriennale di formazione [sic], strutturato con attività di classe, a gruppi o singole per poter riconoscere le proprie competenze e attitudini e orientarsi al meglio nel percorso di studi e professionale”.
Se non fosse abbastanza chiaro, abbiamo questa precisazione: “Attraverso MiAssumo, con l’aiuto di particolari meccanismi di gaming, i ragazzi potranno iniziare da subito a generare il proprio curriculum grazie a un’intelligenza artificiale addestrata ad hoc”.

Riassumendo queste parole, potremmo dire che invece di istruzione, cultura, conoscenza, relazioni, rapporti umani, tempo necessario per trovare e costruire la propria identità, attenzione ai bisogni psicologici e affettivi della crescita, parole e ascolto, si propongono a ragazzini a partire dagli UNDICI anni, a partire dalla PRIMA MEDIA, con l’avallo del ministro dell’Istruzione, format educativi preconfezionati, la profilazione precoce da parte di un’azienda privata e l’instradamento al lavoro attraverso l’ “intelligenza artificiale”. E questa viene definita “formazione” o addirittura “educazione”, con “percorsi pluriennali” – in una sorta di doppione distopico della scuola, di cui in questa prospettiva verrà presto denunciata l’inutilità, immaginiamo – senza più nessuno scarto tra educazione, istruzione e formazione professionale. Non sappiamo trovare un nome adeguato a quello che sta accadendo, ma sospettiamo si tratti di qualcosa di molto grave.

Gruppo La nostra scuola

Associazione Agorà 33

https://www.raiscuola.rai.it/orientamento/articoli/2022/05/Nasce-MiAssumo-la-prima-piattaforma-digitale-gratuita-per-lorientamento-professionale-eb00b934-b831-4a1a-99f9-e78341efd19d.html


La Scuola svuotata per decreto

Qual è la filosofia del “Pnrr” del governo per quanto riguarda la scuola (diciamo filosofia per generosità)?

Il punto fondamentale è la sostituzione della ricchezza culturale ed educativa della scuola con un’idea di organizzazione burocratica che cresce su se stessa e serve solo a se stessa, che porta profitti – ad esempio dando lavoro agli enti formatori – indipendentemente dalla realizzazione o meno di quelli che dovrebbero essere gli scopi fondamentali di un’istruzione pubblica: far crescere cittadini alfabetizzati, colti e consapevoli.

Basta vedere quali sono gli ambiti in cui, secondo la bozza del recente decreto legge del governo sul reclutamento e la formazione dei futuri insegnanti, dovrebbe svolgersi la “formazione continua” dei docenti. C’è un solo ambito, bontà del Miur, dedicato alla conoscenza degli argomenti delle discipline che gli insegnanti dovrebbero insegnare (ma, attenzione, sappiamo che il governo sta lavorando anche a un disegno di superamento delle discipline nella scuola primaria e alle medie); gli altri, all’interno dei quali verranno scelti i corsi necessari alla progressione stipendiale degli insegnanti e forse, in un prossimo futuro, alla stessa possibilità di continuare a fare questo lavoro, sono:

– “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei”;

– “governance della scuola: teoria e pratica”;

– “leadership educativa”;

– “staff e figure di sistema: formazione tecnico metodologica, socio-relazionale, strategica”;

– “continuità e strategie di orientamento formativo e lavorativo”;

– “potenziamento delle competenze in ordine alla valutazione degli alunni”;

– “profili applicativi del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche”;

– “tecniche della didattica digitale”.

Ogni commento sarebbe superfluo: si tratta di un ridicolo apparato para-aziendalistico, appunto, che con l’insegnamento non ha niente a che fare; e non ha niente a che fare con una seria preparazione riguardante la psicologia dell’età evolutiva e i bisogni profondi di bambini e adolescenti, a meno che non si intenda per tale un rozzo comportamentismo da stage motivazionale (“leadership educativa”).

Ma il vero dramma, più ancora di quello della “formazione continua”, sarà quello del reclutamento: i futuri insegnanti, già all’università, prima ancora (e probabilmente invece) di approfondire le conoscenze fondamentali delle proprie discipline, prima di appassionarsi liberamente ad esse, dovranno preoccuparsi di “formarsi” tramite il sistema dei “cfu” sulla buro-pedagogia astratta che conosciamo bene, quella delle “metodologie” standardizzate di insegnamento che vengono imposte a priori, con una paradossale inversione mezzi-fini, senza tenere conto dei contenuti culturali da condividere, della specificità delle singole discipline, della concreta situazione educativa e relazionale nella classe, delle finalità didattiche che si vogliono portare avanti.

Il rischio è che i futuri insegnanti non avranno più nulla da insegnare ai propri studenti, se non quattro formulette vuote e burocratiche del totalitarismo didattichese, quello delle “unità di apprendimento”, “della flipped classroom”, del “cooperative learning”, della “certificazione delle competenze”, sonore banalità – che gli insegnanti hanno sempre messo in pratica – presentate con un pomposo apparato pseudo-teorico che serve a farle credere importanti, inevitabili e nuovissime e a distogliere l’attenzione da ciò che davvero conta nella scuola, il valore dei contenuti culturali che vengono proposti e la relazione umana all’interno delle classi (cioè l’insegnamento stesso, che è condivisione di conoscenze e contenuti culturali significativi attraverso la relazione tra insegnanti e studenti). Per non parlare del ruolo salvifico attribuito sempre e comunque al “digitale” – tra l’altro dopo due anni di disastrosa “didattica a distanza” – al di fuori di ogni ragionamento sulla congruenza tra mezzi e finalità didattiche ed educative.

Questa “rivoluzione” del reclutamento prevede lo svuotamento dei concorsi pubblici (ne abbiamo avuto un’anticipazione con il sistema delle domande a risposta multipla, modalità ipernozionistica che, come profezia autoavverantesi e paradosso, è stata introdotta proprio da coloro che vogliono far credere che la conoscenza equivalga al nozionismo ed eliminarla in quanto tale dalla scuola) e l’impoverimento di una seria formazione universitaria dei futuri docenti a vantaggio di un’inarrestabile certificazione del nulla, di un sistema di corsi, corsini e di “certificazioni” di dubbia provenienza e utilità.

Nell’introdurre questa “riforma” (tra l’altro attraverso la modalità del decreto legge, che dovrebbe essere adottata solo per questioni di particolare urgenza, non certo per ciò che riguarda il futuro delle nuove generazioni e della nostra società), il ministro dell’Istruzione evita qualunque reale confronto con chi nella scuola lavora, così come evita il dibattito nelle commissioni parlamentari e con i sindacati: chi lavora nella scuola gli spiegherebbe che a pagare il prezzo di questo ennesimo pasticcio saranno gli studenti, che non verranno più istruiti – a meno che non abbiano la possibilità di frequentare scuole private d’élite – e avranno sempre meno possibilità di avvicinarsi alla ricchezza dei contenuti culturali con l’aiuto di persone che siano davvero in grado di padroneggiarli. Vediamo già gli effetti di vent’anni di “riforme” dissennate, con la diffusione tra i giovanissimi di un drammatico analfabetismo.

Sarebbe invece estremamente importante ragionare sull’autentica formazione degli insegnanti, che è sempre e soprattutto frutto di seri studi, di reali interessi culturali, di autoformazione, di apprendimento dall’esperienza altrui, e non una parodia aziendalistica estranea ai bisogni e alle logiche della scuola, imposta da chi di scuola non sa e non capisce nulla.

Riprendendo uno spunto dello psicoanalista Alessandro Zammarelli, si può dire che un insegnante che, anche attraverso una vera formazione culturale e un’esperienza professionale sognificativa, ha potuto sviluppare un’identità piena, e che mette nell’insegnamento la propria personalità e il proprio modo di stare al mondo, stimola indirettamente gli studenti a cercare la loro, di identità, facendo da esempio in tal senso; al contrario, un insegnante eterodiretto, chiamato ad applicare meccanicamente e burocraticamente delle metodologie di insegnamento spersonalizzate, passa agli studenti il messaggio opposto, di un’identità debole o inesistente, che può essere puntellata solo attraverso l’ubbidienza e il conformismo, attraverso la rinuncia al pensiero.

No alle crocette, sì al concorso pubblico: una proposta per il reclutamento degli insegnanti

Sembra che stia avanzando l’ennesima “riforma” ai danni della scuola, in due fasi: 1) Si fanno dei concorsi per il reclutamento dei nuovi insegnanti attraverso dei test a crocette, utilizzati al posto di vere prove scritte. In pratica, non si chiede più ai futuri docenti di sviluppare ampie riflessioni culturali e didattiche sui contenuti e sulle conoscenze della propria disciplina: gli si chiede di rispondere a dei quiz; 2) Di fronte al prevedibile fallimento di questa modalità di selezione, si dice che i concorsi non servono più, che serve la “formazione”, gestita ovviamente da enti formatori esterni alla scuola. Chiaro il paradosso? Non funziona il test a crocette? Benissimo. Eliminiamo non il test a crocette ma il concorso pubblico – che funzionava eccome, quando per dare prova di averne una conoscenza adeguata si dovevano scrivere ampi elaborati sulla propria disciplina – e passiamo alla “formazione permanente” degli insegnanti, gestita come e da chi è fin troppo facile intuire. Ed ecco che a fare gli insegnanti finiranno non le persone più preparate, ma quelle che si adegueranno meglio a un didattichese/pedagogese dei corsi di formazione che è soprattutto burocrazia, standardizzazione astratta, mode metodologiche che non tengono conto né della concreta relazione educativa all’interno delle classi né della specificità delle singole discipline. Insomma, si pretenderanno ubbidienza e conformismo invece che cultura.

Chiediamo invece, per i prossimi concorsi ordinari, che dovrebbero essere svolti ogni due anni (una promessa rimasta tale da decenni):
1) Il ripristino di vere prove scritte, in cui i candidati siano chiamati a esporre in modo ampio alcuni contenuti fondamentali della propria disciplina e a sviluppare su di essi riflessioni epistemologiche, culturali, didattiche;
2) Un colloquio orale che abbia al centro un’approfondita discussione sulle conoscenze della disciplina e sulla possibile applicazione didattica di tali conoscenze. Il colloquio dovrà essere libero, non incentrato cioè a priori su metodologie astratte e standardizzate di insegnamento ma sul modo in cui dei contenuti culturali significativi possano essere proposti alle classi, e con quali finalità;
3) Un anno di tirocinio retribuito per i vincitori del concorso, con affiancamento a docenti di esperienza almeno quindicennale, incentrato sugli aspetti didattici e relazionali del lavoro dell’insegnante. È in questo periodo che può acquisire senso anche una formazione non astratta riguardante la psicologia dell’età evolutiva, da svolgersi con l’aiuto di professionisti qualificati, attraverso l’esame dei nodi e dei climi relazionali che si creano all’interno delle classi e del rapporto che c’è tra emozioni, relazione e apprendimento nel contesto scolastico.

GRUPPO LA NOSTRA SCUOLA

La scuola, la guerra, le parole

Nelle nostre classi, in questi giorni, abbiamo tentato di analizzare le ragioni della guerra in Ucraina, l’unico modo che avevamo di reagire alla tragedia. Nel farlo, sia pure dal nostro parzialissimo punto di vista, abbiamo avuto bisogno di ricorrere a conoscenze complesse riguardanti la storia delle nazioni e dei popoli coinvolti, gli interessi economici in ballo, la geografia, la geopolitica, le tecniche e la violenza del potere, gli scenari apocalittici di un possibile conflitto atomico. Abbiamo tentato di restituire all’attualità il suo spessore storico e di ricostruire la rete delle sue motivazioni, perché almeno non rimanga del tutto incomprensibile [utilissima, da questo punto di vista, la sintesi di storia politica contemporanea dell’Ucraina delineata da Simone Attilio Bellezza nel libro Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa, Brescia, Scholé edizioni, 2022]. I nostri studenti avevano un enorme bisogno di capire quello che sta succedendo, per averne meno paura.

C’è da chiedersi come sarebbe stato possibile tutto ciò in una scuola senza conoscenze – considerate da qualcuno un inutile retaggio novecentesco, sostituibile con le “informazioni” provenienti da internet, – magari in una scuola delle aziendalistiche “competenze non cognitive”. Per scongiurare la violenza, il fanatismo, gli orrori del potere e della storia, la strada maestra non è forse quella di permettere alle nuove generazioni di raggiungere una conoscenza quanto più possibile ampia, approfondita e veritiera della realtà, la strada dell’istruzione, dell’umanità, della cultura? La classe, in tal senso, non può che essere una “comunità interpretante”, in cui relazione affettiva e lavoro sui contenuti culturali sono inseparabili e si rafforzano a vicenda. È così che al posto di masse cieche e soggette a qualunque manipolazione possono crescere persone libere, umane, consapevoli e responsabili. Non c’è libertà senza conoscenza. 

Chi detta legge nella scuola italiana?

Di Enrico Campanelli

(Articolo pubblicato su Micromega, al link
https://www.micromega.net/chi-detta-legge-nella-scuola-italiana/)


Che la politica sulla scuola sia orientata da enti che poco o nulla hanno a che fare con la cultura e molto invece hanno a che fare con il mondo dell’economia, è cosa nota. A volte poi, per ovvi motivi, la vera natura di tali enti viene celata dietro nomi, strutture e ‘mission’ più presentabili e più affini al mondo della scuola. Non c’è nulla di segreto in tale operazione di ‘maquillage’ poiché tutte (si spera) le informazioni a tal riguardo sono pubbliche e di facile reperimento, purché le si cerchi. Può però essere utile, ogni tanto, rimettere in chiaro come stanno le cose.

E’ importante ricordare, ad esempio, (si veda a tal proposito M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 17-18) che i documenti dell’Unione Europea del 2006 [1] e del 2008 [2] che introducono le competenze chiave per l’apprendimento permanente e la suddivisione del sapere in conoscenze, abilità e competenze (documenti che incidono pesantemente sulla didattica nelle aule) ricalcano in realtà le indicazioni contenute in un rapporto [3] dell’European Round Table of Industrialists (ERT) che risale addirittura al 1989 e che ha influenzato tutti i futuri “Libri bianchi” dell’Unione Europea relativi allo sviluppo economico e ai sistemi di istruzione e formazione [4][5]. L’ERT non è propriamente un’istituzione educativa o culturale, ma è composto dai rappresentanti di importanti imprese multinazionali europee.

Ricordiamo anche che le competenze non cognitive, in corso di introduzione in via sperimentale nelle scuole, sono state individuate in un rapporto del 2015 del World Economic Forum [6], che è una fondazione che si autodichiara “impegnata a migliorare la condizione del mondo e si sforza di essere imparziale e priva di vincoli di natura politica, ideologica o nazionale”. Tuttavia essa è finanziata dalle circa mille imprese ad essa associate, in genere multinazionali con fatturato superiore ai 5 miliardi di euro.

È anche interessante osservare che il seminario dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà (presieduto dall’on.Lupi), promotore del ddl sulle competenze non cognitive, aveva tra gli oratori non politici Ludovico Albert, presidente della Fondazione per la Scuola. Malgrado il nome rassicurante, tale fondazione è un Ente strumentale della Compagnia di San Paolo, che a sua volta è un membro dell’ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio) che rappresenta collettivamente le Fondazioni di origine bancaria e le Casse di Risparmio. Dunque, non stiamo parlando propriamente di un caffé letterario o di una società scientifica, ma di un’emanazione di un istituto bancario. Le finalità istituzionali delle fondazioni bancarie saranno anche nobili e diverse da quelle delle banche che le finanziano, tuttavia la fonte dei finanziamenti non è di secondaria importanza per valutare le finalità di un ente. Va sottolineato, inoltre, che il ruolo della Fondazione per la Scuola non è certo marginale nella politica italiana sulla scuola. Tra le attività dell’ente, infatti c’è “il miglioramento dei processi interni alla scuola mediante la realizzazione della scuola digitale, la revisione dei processi gestionali e l’innovazione dei modelli didattici”, oltre alla “definizione delle politiche in ambito scolastico operando in sinergia con attori istituzionali e del privato sociale” ed alla collaborazione con l’INDIRE e l’INVALSI.

Ospite del seminario, era anche Andrea Toselli, presidente di Pwc Italia, ente che “offre servizi di revisione, di consulenza strategica, legale e fiscale alle imprese”.
Altra figura di spicco presente al seminario era Giorgio Vittadini, economista e professore di Statistica, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e curatore del libro dal titolo “Formazione e valutazione del capitale umano”. Il libro contiene la traduzione di alcuni lavori del premio Nobel per l’Economia James Heckman, che sono stati posti a ‘fondamento scientifico’ dell’introduzione delle competenze non cognitive nelle scuole italiane. Il libro è edito da Il Mulino ma riporta in copertina il logo della Fondazione per la Scuola (sì, ancora lei) che ne ha evidentemente supportato la pubblicazione.

Un’ultima riflessione su un altro ‘angelo custode’ della scuola italiana, che è la “Associazione TreeLLLe – per una società dell’apprendimento permanente (Life Long Learning)”, che elabora studi e ricerche per orientare la politica scolastica. Essa si professa “rigidamente apartitica e agovernativa” (ma alla fine, se fosse partitica e governativa, sarebbe il male minore…) tuttavia sul suo sito si legge che “dalla sua costituzione ad oggi, l’attività di TreeLLLe è stata principalmente sostenuta dalla Compagnia di San Paolo di Torino e dalla sua Fondazione per la Scuola” (sì, ancora lei).

E ancora: “Attualmente TreeLLLe è sostenuta anche dalla Fondazione Cariplo di Milano e dall’Unicredit. Specifici progetti sono stati sostenuti nel tempo dalle Fondazioni Pietro Manodori di Reggio Emilia, Cassa di Risparmio in Bologna, Monte dei Paschi di Siena, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Fondazione Roma (e Fondazione Roma Terzo Settore), Fondazione Rocca e Fondazione Bracco.” Come dire: un vero simposio di fini intellettuali.

Per concludere, nessuno vuole demonizzare il mondo del lavoro e dell’economia, che sono parti importanti della società umana. Tuttavia qui siamo di fronte non ad un marginale e controllato affiancamento dell’economia al mondo della scuola, ma ad un vero e proprio assedio, un sequestro direi. A tutti i livelli, dalla scuola primaria all’università, ed in tutti gli ambiti, dalla formazione dei docenti ai contenuti ed alle metodologie della didattica. Sarà forse ora di tornare a parlare di cultura?

[1] Raccomandazione UE del 18 dicembre 2006.

[2] Raccomandazione UE del 23 aprile 2008.

[3] “Education and European Competence. ERT Study on Education and Training in Europe” (Febbraio 1989),

European Round Table of Industrialists, Brussels (Belgium).

[4] Libro bianco UE 1993, “Crescita, competitività e occupazione”.

[5] Libro bianco UE 1995, “Insegnare e apprendere, verso la società conoscitiva”.

[6] “New Vision for Education. Unlocking the Potential of Technology”, 2015, World Economic Forum.

Delicatezza dell’adolescenza

A proposito della vicenda della professoressa che nel rimproverare una ragazzina (che ballava in classe per tik tok a pancia scoperta) le ha detto che aveva un abbigliamento e un comportamento da via Salaria (la strada di Roma ad alta concentrazione di prostitute):

1) Assurda l’idea che sembra stia venendo fuori nel dibattito pubblico come iper-reazione alla vicenda: a scuola ci si veste come si vuole e ci si comporta come si vuole. Non è così: quello che è successo non giustifica l’abolizione delle regole, se sono sensate, equilibrate e motivate, date nell’interesse di chi le riceve;

2) Di fronte agli adolescenti, che mettono sempre alla prova la nostra autorevolezza, la nostra capacità di attenzione e la nostra credibilità, a tutti noi capita di sbagliare, anche pesantemente; cambia molto, certo, se l’errore è fatto in buona fede oppure no. Ci vuole comunque moltissima attenzione a ciò che accade nelle classi e consapevolezza della preziosa delicatezza delle persone in crescita che abbiamo di fronte a noi. Non si può attenuare in nessun modo la gravità di una frase sbagliatissima; si può però chiedere all’insegnante di prendere atto del suo errore (cosa che mi sembra abbia già fatto), di parlare con la studentessa, di dare insieme un senso a quello che è accaduto.
Comunque, mentre una vicenda del genere rimbalza ovunque, nessuno parla mai di centinaia di migliaia di insegnanti che ogni giorno si spendono senza risparmio per i propri studenti, per la loro istruzione, la loro la crescita e il loro futuro, contro tutto e contro tutti, contro una società che considera i ragazzini come carne da macello del consumo e sempre più spesso anche contro gli ostacoli creati da chi avrebbe invece la responsabilità politica e istituzionale di aiutarli a portare avanti il loro compito difficilissimo e vitale. Mentre è in atto un processo di smantellamento della scuola pubblica, nuovo terreno di conquista di logiche economicistiche e aziendalistiche, ci si guarda bene dal riconoscere meriti agli insegnanti, che della scuola, del diritto costituzionalmente riconosciuto all’istruzione per tutti, rappresentano ancora il cuore;

3) Questa vicenda potrebbe essere l’occasione per ricordare che con i ragazzini occorre stare molto attenti alle parole che si usano, perché parole sbagliate possano fare dei danni pesanti; soprattutto, occorrerebbero sia la conoscenza almeno abbozzata di alcune dinamiche psicologiche (anche se qualcuno, non si sa su che base, dice che per coprire l’ambito psicologico nelle scuole basta il pedagogista e non serve lo psicologo), sia la sensibilità di riuscire a mettersi almeno in parte nei panni dell’altro, sia la capacità di interrogarsi sul senso profondo dei comportamenti dei propri studenti, dietro cui spesso non è difficile intravedere bisogni e disagi (il che ovviamente non è in contraddizione con la necessità di porre a tali comportamenti dei limiti sensati, di cui soprattutto gli adolescenti hanno un innegabile bisogno psicologico, e di farli rispettare).

Per rimanere al caso in questione, è molto utile ricordare quanto diceva lo psicoanalista Alessandro Zammarelli durante uno degli incontri periodici del nostro gruppo: in un’età di grande incertezza come l’adolescenza, i ragazzi possono preferire l’identificazione con un’immagine di sé preconfezionata, per quanto negativa (“sei un delinquente”, “non ti va di fare niente”, “non capisci niente”, “sembri una prostituta”), proposta loro dagli adulti, piuttosto che affrontare la paura – a volte un vero e proprio terrore – di non avere nessuna identità. Attenzione, quindi, alle “etichette” che si attaccano loro addosso, su un’identità ancora in piena formazione ed evoluzione (a volte diventano etichette anche le certificazioni: lo capiamo quando qualche studente ci si fa incontro con la frase “Sono un DSA”).

Ecco, se questa vicenda, invece di mettere in moto il solito rabbioso tritacarne mediatico che non serve a nulla, aiutasse ad aprire qualche seria riflessione sulla psicologia dell’età evolutiva e a ricordarsi della delicatezza e complessità delle persone in crescita, che qualcuno vorrebbe ridurre a una serie di “competenze”, forse dall’errore della collega si potrebbe trarre qualcosa di buono.

Fantapolitica scolastica e narcisismo pedagogico

Idee per un racconto di fantapolitica scolastica…

Scena 1
Una certa area culturale molto settaria – quella per cui l’attivismo e il cooperativismo non sono utili approcci didattici da affiancare ad altri nella plasticità dell’insegnamento/apprendimento e della relazione scolastica, ma un orizzonte didattico totalitario, da imporre in astratto a qualunque realtà educativa – riceve un inaspettato ascolto e inaspettate attenzioni da parte del potere politico, per motivi di reciproca utilità. Queste attenzioni potrebbero tradursi in pratica in spazi enormi per i formatori allineati e in ingenti risorse per le università pronte ad avallare un’idea astratta, formale e anti-disciplinare della pedagogia, a favore dell’insegnante-facilitatore di pacchetti didattici preconfezionati attraverso ‘metodologie’ altrettanto preconfezionate, da mettere al posto sia dei contenuti culturali che degli studenti in carne e ossa (mentre ogni contenuto, ogni disciplina, ogni gruppo-classe, ogni situazione educativa richiederebbe la propria modalità specifica e singolare di insegnamento).

In che modo quest’area sarebbe funzionale ai progetti di smantellamento della scuola pubblica? Intanto, nella banalizzazione di un’esperienza scolastica capace di tenere insieme rapporto umano e conoscenza e nella negazione del carattere fondamentale della scuola, che è condivisione di contenuti culturali attraverso la relazione e, viceversa, relazione costruita sulla base del lavoro comune sui contenuti culturali. Sostituire delle ‘metodologie’ astratte e standardizzate a dei contenuti culturali vivi e significativi significa spazzare via contemporaneamente conoscenze e relazione, gli assi portanti della scuola, fino a produrre un vuoto pneumatico autoreferenziale. Per fare ciò, occorre una serie di mistificazioni: ad esempio quella per cui qualunque insegnamento diventa una crudele “lezione frontale” e ogni spiegazione dell’insegnante un’impositiva “didattica trasmissiva”; o quella formalistica per cui il corpo concreto delle conoscenze diventa del tutto inessenziale nelle dinamiche dell’apprendimento.

È un discorso che si auto-invera (o auto-vanvera): le nostre idee, si dice, rappresentano il solo vero progresso pedagogico, perché oggettive e scientifiche (alla faccia di chi mette in guardia dalle pretese di oggettività nelle scienze umane, non di rado nel corso della storia foriere di grossi guai e spesso segnate da connivenze tutt’altro che scientifiche con il potere politico); le esperienze di chi nella scuola ci lavora e la consapevolezza di natura, scopi, bisogni, criticità del sistema scolastico da parte degli insegnanti non sono che “aneddotica personale”. Non sia mai gli insegnanti osassero alzare la testa e denunciare l’evidenza, cioè che una scuola travolta da due decenni di “innovazioni”-paccottiglia calate dall’alto è sempre meno capace di alfabetizzare, istruire, educare i propri studenti.
Insomma, si recide alla radice – con un singolare rovesciamento – la legittimazione degli insegnanti a parlare del proprio lavoro, da parte di chi si autoinveste dell’unica conoscenza autentica di tale lavoro, pur senza praticarlo. A meno che, ovviamente, gli insegnanti non si adeguino alle conclusioni di questi infallibili, astrattissimi esperti.

Scena 2
In quest’area culturale-pedagogica, lusingata dalle attenzioni che riceve e dallo spazio che le viene concesso, ci si guarda bene dal criticare anche gli aspetti peggiori delle politiche scolastiche portate avanti dal governo e in parlamento (ammesso che esista ancora questa distinzione), inclusa una tendenza alla privatizzazione dell’Istruzione (nuovo terreno di conquista, dopo la sanità), sponsorizzata da molti; anzi, con grande inventiva ed evitando le parole chiare e nette, si riesce a non mettere mai davvero in discussione queste politiche, se non per aspetti del tutto marginali. In fondo, visto da un’altra prospettiva e grazie a un approccio sofistico, tutto diventa giustificabile e giustificato: l’adozione delle “competenze non cognitive”, la Dad, la quadriennalizzazione delle scuole superiori, il caos prodotto da frettolose riforme della valutazione, la liquefazione dell’esame di Stato (e poi magari si scopre che, guarda caso, qualche esponente di rilievo di quest’area collabora attivamente con il ministero). Questa convergenza, ovviamente, non verrà mai ammessa in maniera esplicita, anche perché i progetti governativi sono di destra ultraliberista – da parte di autorevoli esponenti del governo la scuola diventa produzione di “competenze” del “capitale umano” per la “crescita economica” e le conoscenze “informazioni” facilmente reperibili nel web; oppure, nelle parole degli immarcescibili Aprea e Lupi, dell’intergruppo parlamentare per la “sussidiarietà”, le “competenze non cognitive”, tra cui l’ “adattabilità” e l’ “affidabilità”, dovrebbero spazzare via la “cultura del sapere e della conoscenza” -, mentre chi appartiene a quest’area ci tiene a dichiararsi di sinistra e con grande abilità cerca di far passare per inclusione la sottrazione di conoscenza e lo snaturamento del compito principale della scuola democratica, che sarebbe quello di promuovere l’emancipazione di tutti i futuri cittadini attraverso l’alfabetizzazione, la diffusione del sapere, una vita scolastica che è insieme educazione alla relazione e lavoro sui contenuti culturali in fecondo circolo virtuoso tra loro.
Fine del racconto.

Se questo quadro fosse vero, l’unico modo per riaprire il dibattito sulla scuola sarebbe uscire dalla confusione, districare questi paradossi e chiarire fino in fondo le proprie posizioni sul senso e le finalità della scuola pubblica. Ricominciare da qui, in modo disinteressato e onesto.

***

Narcisismo pedagogico

L’idea di un’educazione scolastica separata dall’istruzione, di un’educazione che poggi su un vuoto pneumatico di conoscenza e di contenuti, così come quella di “competenze” separate dalla conoscenza, è talmente assurda e frutto di ignoranza anche psicologica che non dovrebbe necessitare di alcuna confutazione.

Il paradosso è che mentre si accusano gli insegnanti che vogliono dare conoscenze ai propri studenti, cioè che vogliono fare il proprio lavoro, di narcisismo, si diffonde un terribile narcisismo pedagogico, incurante della realtà, innamorato di se stesso e delle proprie teorie, che pur di avere ragione (e spazi assicurati da una politica che persegue gli stessi scopi) è pronto a spazzare via la scuola e la sua preziosa capacità di unire istruzione ed educazione, cultura e relazione umana, di cui i contenuti culturali a scuola sono il tramite privilegiato.

Importantissimo e altamente educativo che studenti e insegnanti si parlino, ma, se non si parte dai contenuti culturali, di cosa si parla esattamente, in un rapporto intergenerazionale straordinariamente significativo anche perché diverso dal legame familiare? Chi non ha capito quanto i legami scolastici – anche nel loro valore affettivo – si organizzino attorno al lavoro comune sui contenuti culturali e sull’apertura inedita alla realtà che essi permettono, non ha capito niente della scuola e della sua specificità.

Lezione o ‘esperienza’? Una falsa alternativa

di Luca Malgioglio, Alessandro Zammarelli*

*Psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista Sipre

I sostenitori della didattica esperienziale, “attiva e cooperativa” sempre e comunque, oggi assai in voga dalle parti del Ministero (che siano consapevoli o meno del loro ruolo di facilitatori dei progetti di smantellamento della scuola), partono da un dato di fatto senz’altro vero nella sua estrema genericità: si impara solo attraverso l’esperienza, gli apprendimenti realizzati attraverso l’esperienza sono i più duraturi.

Ora, dov’è l’equivoco? Innanzitutto sta nella genericità accattivante della definizione (tutto è esperienza; e ci sono esperienze positive, sì, ma anche esperienze negative e controproducenti. Gli ideologi dell’esperienza hanno le ‘competenze’ psicologiche per saper distinguere davvero le une dalle altre?); poi, nonostante l’ampiezza della definizione, sta nell’escludere rigorosamente dal novero delle esperienze solo la lezione (ridotta rapidamente all’insensata definizione di “frontale”), la spiegazione o la “trasmissione di conoscenze” (che non è mai semplicemente tale, se non per una clamorosa confusione – introdotta a forza nel dibattito pubblico da chi vuole eliminare le conoscenze stesse dalla scuola – tra condivisione, elaborazione, attualizzazione e acquisizione di conoscenze da una parte e “nozionismo” o “informazioni” presenti nel web dall’altra).

Be’, qualunque persona di buon senso dovrebbe capire che questa esclusione è del tutto arbitraria: perché la spiegazione di un insegnante e lo scambio che ne deriva, per uno studente, non potrebbe rivelarsi un’esperienza importantissima, fondamentale, cruciale? Ci sono persone che hanno preso una direzione, di studio, umana o professionale, perché le parole di un insegnante hanno aperto dentro di loro spazi imprevisti di curiosità, di passione, di conoscenza, di emozione, di pensiero. Non dimentichiamo che l’apprendimento, più che da una generica esperienza, che potrebbe anche essere del tutto insignificante, viene rafforzato dall’emozione che lo accompagna: è la memoria emotiva che senza dubbio influisce sulla memoria esplicita o dichiarativa, facilitandola o depotenziandola.

C’è di più: la lezione, considerata non in modo statico ma dinamico, è costituita da innumerevoli interazioni, verbali, non verbali, affettive, immaginative tra l’insegnante e il gruppo classe; rappresenta cioè una modalità di relazione, che ha al centro la parola. In quale altra esperienza, più che nella relazione, una persona mette in gioco tutta se stessa, i suoi affetti, le sue paure, le sue fantasie, i suoi pensieri, i suoi bisogni, le sue angosce? Sicuramente un’esperienza relazionale che si incarni in una buona lezione permette una maggiore sottolineatura dei contenuti, la cui memorizzazione, rielaborazione e acquisizione è rafforzata dalle emozioni che la accompagnano, ed è promotrice di crescita personale e di maturità sociale, visto che mette in movimento importantissime dinamiche sia individuali che di gruppo.

Va poi precisato che la lezione è fatta di tanti momenti diversi e di modalità didattiche che si alternano a seconda della situazione: ribadirne la centralità non significa escludere una molteplicità di approcci, né negare valore all’esperienza, anzi; così come nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione il ruolo fondamentale del gioco, del divertimento, dell’imitazione in molte fasi dell’apprendimento. Il problema di chi ritiene che la lezione, come metodo didattico, sia “superata”, al solito, è l’astratto totalitarismo metodologico, che scambia fini e mezzi, rende questi ultimi fini a se stessi e chiude il pensiero anziché aprirlo. Bion stesso d’altronde parlava di apprendere dall’esperienza, consapevole che l’interazione nel gruppo portava ad apprendere l’uno dall’altro e uno nell’altro, proprio perché il gruppo è contenitore di tutta una serie di emozioni che accompagnano e favoriscono l’apprendimento. Questo può avvenire anche attraverso una modalità laboratoriale, certo; ma perché non dovrebbe avvenire in quell’esperienza capace di coinvolgere tutto il gruppo che è la lezione? La stessa attività laboratoriale, perché sia utile al progresso della conoscenza, necessita di una restituzione di senso guidata dall’insegnante, di una cornice di parole che la inserisca in un contesto significativo.

Insomma, quando si dice che la lezione in classe sarebbe “superata”, si cade in un evidente paradosso: si esclude cioè dal novero delle esperienze proprio un rapporto umano profondamente personalizzato e fondato sulla parola e sulla relazione, di cui le persone in crescita hanno un grandissimo bisogno, che passa per la condivisione appassionata e il lavoro comune sulle conoscenze e sui contenuti culturali, e si esaltano altre esperienze (c’è chi pensa seriamente che con dei video gli studenti imparerebbero di più che dal rapporto con gli insegnanti; c’è anche chi dice che gli studenti con difficoltà cognitive – che non sono mai solo tali – sarebbero aiutati in modo davvero efficace da programmi informatici di intelligenza artificiale), alcune delle quali lasciano lo studente tristemente solo con se stesso; anzi, per dirla francamente, hanno in sé qualcosa di autistico.

Per questo, tutta la voglia che si vede in giro di “superare” la lezione e addirittura di smantellare i gruppi classe deve metterci in sospetto: e il sospetto è che alla base di questa voglia ci siano motivazioni ideologiche, ‘politiche’ o economiche, più che psicologiche, pedagogiche, culturali, di affettuosa sollecitudine per il futuro delle nuove generazioni, come qualcuno vorrebbe farci credere. Sottrarre valore alla lezione in classe, con la sua plasticità e concretezza, con le dinamiche di gruppo che insegna a vivere, e sostituirla con metodologie didattiche astratte, fini a se stesse, non di rado inefficaci e dispersive, non significa affatto “mettere al centro” gli studenti, significa esattamente l’opposto.

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La lezione scolastica è un ponte tra le generazioni. I ragazzini, nella loro curiosità e nel loro enorme bisogno di trovare un senso alla realtà interna ed esterna a sé, cercano prima di tutto degli adulti che spieghino loro le cose, che diano indicazioni, che si interessino a loro e parlino proprio a loro, che abbiano delle storie e delle esperienze umane (il cui ‘concentrato’ sono i contenuti culturali) da raccontare, che gli aprano conoscenze, per non doversi confrontare immediatamente con un illimitato del reale (oggi anestetizzato ma non elaborato attraverso la dipendenza dell’iperconnessione) che spaventa e paralizza chi deve affrontarlo da solo, per avere un luogo protetto fatto di parole e di punti di riferimento su cui far crescere i propri pensieri, le proprie fantasie e i propri sentimenti; poi andranno avanti da soli, in una scoperta culturale, di idee e di significati, che durerà per tutta la vita.

Il tempo di riflettere. Per una moratoria delle “sperimentazioni” e degli interventi legislativi sulla scuola

[P.S. L’ulteriore emergenza creata dalla guerra conferma e rafforza le argomentazioni qui addotte. Un governo che, in questa situazione, approva frettolosamente un decreto sul reclutamento e la formazione degli insegnanti senza un dibattito pubblico, senza un passaggio nelle commissioni parlamentari, senza un confronto con le parti sociali, con il mondo della cultura e con chi nella scuola lavora tutti i giorni, compie una forzatura inquietante nei metodi e poco chiara nelle motivazioni].

Da marzo 2020 la scuola italiana vive uno dei momenti più drammatici della sua storia: deve far fronte a una situazione emergenziale straordinaria che ha travolto la prassi ordinaria e ha costretto tutti coloro che vivono e lavorano nel mondo dell’istruzione a escogitare o applicare norme e modalità di comportamento in continua evoluzione, in una condizione di persistente precarietà.  

Esattamente in questo stesso periodo c’è stata un’escalation di frettolose innovazioni del sistema scolastico, sulla base del discutibile presupposto che proprio l’emergenza rappresenti l’occasione per uno svecchiamento complessivo delle pratiche didattiche, attraverso una serie di proposte di legge parlamentari o iniziative governative: allargamento (contro il parere del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione) della sperimentazione per ridurre di un anno la durata delle scuole superiori, introduzione della sperimentazione sulle fumosissime “competenze non cognitive”, introduzione del ‘coding’ obbligatorio in tutte le discipline, riforma della valutazione nella scuola primaria, digitalizzazione forzata di ogni attività scolastica, smantellamento dei gruppi-classe. Alcune di queste iniziative sono già diventate legge, altre attendono di essere formulate in tal senso. 

Il grimaldello utilizzato per scardinare un sistema scolastico denunciato come obsoleto e spingerlo sulla via del rinnovamento è l’arrivo delle famigerate risorse del PNRR. Contrariamente a quanto si dà a intendere, questi fondi dovranno essere spesi in un arco temporale abbastanza lungo (cinque anni) e con obiettivi piuttosto ampi, il che rende pretestuoso il ricorso all’argomento PNRR per giustificare la fretta di “riformare”. Ma proprio perché si tratta di stanziamenti considerevoli, che potrebbero avere un notevole impatto sul futuro della scuola italiana, ci teniamo a sottolineare i seguenti punti:

  1. Non è possibile pensare di cambiare il sistema scolastico attraverso delle decisioni prese da pochissimi e non si sa sulla base di quali necessità e interessi, senza un ampio coinvolgimento dei diversi attori della scuola, di chi cioè ne conosce problemi e bisogni.
  2. Proprio perché gli interventi sulla scuola incidono pesantemente sul futuro, essi vanno ben meditati e calibrati, nell’ambito di un disegno complessivo del sistema dell’istruzione che non può che essere frutto di un grande dibattito democratico che coinvolga insegnanti, genitori, intellettuali, dirigenti, esperti dell’età evolutiva, studenti. La scuola è di tutti, non di chi si trova per un breve periodo a governare il Paese, e già troppi errori sono stati fatti introducendo “riforme” unilaterali, pericolose o devastanti per il sistema scolastico, su cui andrebbe aperta un’approfondita riflessione prima di compiere ulteriori passi nella stessa direzione. Non dobbiamo poi dimenticare che la scuola, nella situazione di emergenza che stiamo ancora attraversando, è stata duramente colpita nella sua capacità di istruire, educare, far crescere; una capacità che va prioritariamente recuperata e su cui ora vanno indirizzati tutti gli sforzi, senza aggiungere incertezza a incertezza.
  3. In un momento così grave come quello che stiamo vivendo, nessuno ha la lucidità per prendere le decisioni giuste per il futuro dell’Istruzione pubblica: anzi, qualcuno potrebbe approfittare del momento di confusione per introdurre nel sistema scolastico “riforme” dannose per il sistema stesso ma utili per gli interessi di pochi.
  4. Non c’è stato alcun reale confronto tra i diversi soggetti politici sulle modalità di utilizzo dei fondi del PNRR, né per quanto riguarda la distribuzione tra i diversi settori né su come impegnare i fondi destinati in questa spartizione al comparto istruzione. Forse è possibile ipotizzare un piano di utilizzo degli stessi che si traduca in investimenti realmente efficaci per la scuola, senza legarli alla proposta di improvvide riforme.

Oggi la priorità nelle scuole non è l’introduzione di forsennate novità, ma un tempo di ripresa e riflessione. Pertanto, chiediamo la moratoria di almeno un anno, e comunque fino alla fine dell’emergenza pandemica, di tutte le sperimentazioni e di qualunque cambiamento significativo del sistema scolastico, e l’inizio di un ampio confronto pubblico sul futuro della nostra scuola.

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Per firmare la petizione:

https://chng.it/npSM9Dsd

Per informazioni:

infomanifestoscuola@gmail.com

Gruppo La nostra scuola

Manifesto per la nuova Scuola

Le “competenze non cognitive”. Un punto di vista psicoanalitico

È in corso di pubblicazione, sulla rivista “Le Nuove Frontiere della Scuola” (numero 58, “La fragilità”), un articolo sulle competenze non cognitive scritto a quattro mani da uno psicoanalista, Alessandro Zammarelli*, e da un insegnante, Luca Malgioglio. Ne riportiamo qui un breve passaggio, che mostra anche dal punto di vista dello specialista l’intima contraddittorietà della definizione “competenze non cognitive” e la confusione concettuale che essa introduce nel dibattito pubblico.

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[Questa è] la definizione che l’onorevole Maurizio Lupi, presidente dell’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, ha dato delle “competenze non cognitive”, nel discorso in cui motiva la proposta della loro adozione nell’ambito della legislazione scolastica del nostro Paese: 

“Con character skills, soft skills o non cognitive skills si intendono tutti quei modi di definire un apprendimento in ambito scolastico e lavorativo che non sia limitato solo al coinvolge le capacità cognitive (ricordare, parlare, comprendere, stabilire nessi, dedurre, valutare) ma che implichi anche lo sviluppo di tutte quelle predisposizioni della personalità (l’apertura mentale, la capacità di collaborare, la sicurezza personale, la capacità di prendere iniziative, di pensare per problemi, la capacità di auto-regolarsi, l’affidabilità, l’adattabilità, ecc.) che sono sempre più rilevanti nella società moderna”.


Quando si parla di “adattabilità” e “affidabilità” sembra davvero che ci si muova al confine tra il terreno della crescita e della formazione della persona e quello dell’azienda e della produttività lavorativa; e quando Lupi parla delle competenze del “pensare per problemi” o del “prendere iniziative”, ci si può legittimamente chiedere su quale base si possano risolvere problemi o prendere iniziative se non si ha la conoscenza – cognitiva, immaginiamo – di tali problemi e del contenuto di tali iniziative. Un’operatività non sostanziata da processi di pensiero, insomma, sembra una contraddizione in termini, a meno che non si esca dall’ambito dell’educazione e non si entri in quello dell’addestramento; ma questo passaggio, come è ovvio, non riguarda e non può riguardare la scuola.


Forse, quando parla di “competenze non cognitive”, qualcuno intende fare riferimento, oltre a quelle operative, anche alle dimensioni affettive, relazionali ed etiche dell’essere umano. Ma – tenendo conto delle riflessioni svolte nella prima parte del presente articolo – pensiamo davvero che sia possibile separare tali dimensioni da quella cognitiva? Come si proponeva sopra, il termine “competenza” potrebbe essere utilizzato per sintetizzare tutta una serie di processi cognitivi, di processi di pensiero, in cui intervengono sistemi complessi dell’essere umano come la memoria, le emozioni e la storia personale. Per fare un esempio attinto dalla pratica psicoanalitica, affermare che una persona ha una buona capacità di capire, pensare ed elaborare le proprie emozioni, equivale a dire che questi ha una certa competenza nel leggere e integrare i propri stati emotivi. Difficilmente si potrebbe dire la stessa cosa di una persona che non è in grado neanche di dare un nome alle proprie emozioni o addirittura di percepirle, di dire o pensare ciò che prova. Non si può avere una competenza sulle emozioni se prima non le si conosce, o se non si eliminano le barriere che non permettono questo processo di conoscenza. Come ci ha insegnato Bion (1970-1973), le emozioni esistono sempre, anche quando si manifestino soltanto tramite equivalenti fisiologici (elementi Beta), senza raggiungere una adeguata capacità di essere pensate e dichiarate; oppure possono essere presenti in seno a una funzione Alfa acquisita, matura, che ci permetta di pensarle, esprimerle ed elaborarle. 

Ecco, le “competenze non cognitive” producono in quest’ottica un grande paradosso.  Come posso pensare alle competenze senza pensare? Come posso sapere di essere competente se non so cosa ho appreso, come posso sentirmi competente senza aver attraversato tutta quella serie di processi cognitivi che hanno fatto della mia esperienza reale, integrata con le emozioni, un’esperienza di crescita, di apprendimento e di relazione? Questi processi interni si proiettano poi in attività esterne, che richiedono regole e strumenti pratici; i processi cognitivi e di apprendimento possano concretizzarsi in quelle che, solo in futuro, si chiameranno competenze; ed è solo a questo punto che il sistema pedagogico interviene come facilitatore dell’integrazione e dell’applicazione pratica di tutti questi sistemi interni.


*Alessandro Zammarelli è Psicologo ad indirizzo Clinico, Psicoterapeuta e Psicoanalista, specializzato in Psicoterapia Individuale e in lettura Psicodinamica dei Gruppi. È Socio e Psicoanalista della Sipre (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione) e membro del consiglio di Centro della Sipre di Roma. È fondatore insieme al Professor Luca Malgioglio e ad altri insegnanti del movimento La nostra scuola ed è membro del consiglio direttivo dell’associazione La nostra scuola – Agorà 33. Ha lavorato a lungo presso gli sportelli di ascolto psicologici nella scuola.